Il tema delle competenze digitali è un tema ricorrente quando parliamo di innovazione nella Pubblica Amministrazione. Diciamo e ripetiamo spesso che un Paese efficiente che possa veramente offrire opportunità ha bisogno di una PA che funzioni. Sappiamo anche che la PA italiana fa un’enorme fatica a innovarsi. Quando ci riesce, lo fa a piccoli passi e in modo disomogeneo, generando troppo spesso isolate best practices anziché innovazione di tipo strutturale sull’intero “sistema PA”. Alla fine, la PA italiana è sostanzialmente ferma, o comunque non evolve come dovrebbe, nonostante i tanti sforzi messi in campo negli anni. Ne sappiamo qualcosa quando puntualmente arrivano i dati che confrontano l’Italia con il resto dei paesi europei.
La cura giusta per fare funzionare la PA
Sappiamo che la cura necessaria per innovare e avere una PA che funzioni bene è la sua trasformazione digitale. Ne siamo consapevoli. Vuol dire ad esempio che la PA deve migliorare la qualità della spesa ICT. E gli investimenti fatti in ICT devono servire a ridisegnare e ottimizzare i processi della PA, recuperando in efficienza e di conseguenza generando risparmi. Ma soprattutto vuol dire guardare alla PA non come la somma di migliaia di enti pubblici centrali e locali ma come ad un unico soggetto integrato in cui la possibilità di dialoghi “digitali” all’interno di una singola Pubblica Amministrazione e tra PA diverse siano la base per fornire servizio ai cittadini.
Ho avuto già modo di parlare più volte di questi temi, di innovazione “data driven” e di infrastrutture digitali.
Il cambiamento non può ovviamente essere soltanto tecnologico. La trasformazione digitale necessita infatti di vision, di strategie, di competenze che devono generare cambiamento culturale attorno a quello tecnologico.
Trasformazione digitale PA, servono le tecnologie e le persone giuste
In altre parole servono le tecnologie e le persone. E servono ovviamente le tecnologie e le persone giuste. È quello che si cerca di fare in tante realtà aziendali, ben sapendo che sbagliare in tecnologie e persone diventa non soltanto uno spreco di denaro e non invece un investimento, ma soprattutto si traduce in una perdita di competitività nel proprio mercato di riferimento.
Mi sono sempre chiesto quale fosse il motivo per cui la gente più valida, più competente e in generale più “smart” in ambito digitale che ho incontrato nel mio interagire con le varie Pubbliche Amministrazioni fosse concentrata nel “middle-management” mentre si riduce drasticamente man mano che si va verso le posizioni apicali.
Non sto parlando di bravi tecnici, di cui per fortuna la PA è dotata, ma di persone che abbiano non solo le necessarie competenze tecniche ma anche una vera “vision” sulle strategie e sul mondo digitale. Non so se succede anche a voi, ma quando a me capita di trovare un manager della PA veramente competente io mi meraviglio e mi chiedo come abbia fatto ad arrivare lì.
Il funzionamento di un Paese dovrebbe essere la regola e non invece l’eccezione. Come anche la scelta di un top management adeguato nella pubblica amministrazione.
Management inadeguato, vero ostacolo alla trasformazione digitale
Purtroppo, l’inadeguatezza di tanti che governano il digitale si è dimostrato essere un ostacolo a quella “digital transformation” che mai come adesso è sempre più necessaria per ottimizzare il funzionamento e l’interazione tra le pubbliche amministrazioni, recuperare efficienza, ridurne i costi di gestione e nello stesso tempo aumentare anche la qualità e la quantità dei servizi erogati.
Di questa cosa parla spesso Paolo Coppola, che nella scorsa legislatura ha presieduto la Commissione parlamentare d’inchiesta sul livello di digitalizzazione della PA e della spesa ICT. In sintesi, una delle cose che emerge con forza dai lavori della commissione è proprio la necessità di avere competenze adeguate a livelli apicali. Se nella PA prevale ancora una visione antiquata del digitale e se tante decisioni strategiche vengono alla fine delegate ai fornitori è proprio a causa del fatto che abbiamo un management mediamente non all’altezza.
Sono da sempre un fan de “La Legge di Murphy”. Con stile ironico ed elegante, caratteristica questa che apprezzo sempre molto, le leggi di Murphy alla fine raccontano a loro modo delle verità. Io stesso qualche anno fa ho formulato la “Prima legge di Patruno sugli Open Data”.
Una parte delle leggi contenute nel primo libro sono dedicate proprio al management. La figura del dirigente non ne esce proprio bene, segno che l’esigenza di avere un management adeguato è visto come un problema anche negli Usa. Le leggi di Murphy si riferiscono infatti alla società americana, dove i criteri per la scelta delle posizioni di vertice in azienda sono certamente molto diversi da quelli utilizzati all’interno della PA italiana. Un esempio divertente è la “Legge di Putt” che dice: “La tecnologia è dominata da due tipi di persone: Quelli che capiscono ciò che non dirigono. Quelli che dirigono ciò che non capiscono”.
Ricambio, formazione e empowerment per sostenere la trasformazione digitale
Ed è probabilmente questo il motivo per cui le professionalità più interessanti alla fine restano nel middle-management. A parte gli scherzi, serve probabilmente facilitare il ricambio di tanti dirigenti della PA, molti dei quali immersi in un gigantesco effetto Dunnig-Kruger. Senza questo passaggio avremo sempre difficoltà a recuperare terreno e a innovare sul serio la Pubblica Amministrazione.
Non solo posizioni apicali però. Un recente e illuminante editoriale di Carlo Mochi Sismondi mette molto bene a nudo la necessità di avere competenze adeguate a vari livelli nella PA. Quello che serve cambiare sono infatti anche la prevalente mentalità “antica” e le modalità di lavoro quotidiane di tanti, troppi uffici pubblici. Quindi formazione e empowerment dei dipendenti per poter sostenere veramente la trasformazione digitale. Su cui va fatto un investimento serio e che ha bisogno di vision e strategie adeguate da parte del management della PA. E, ovviamente, della politica.