Come sapete una parte importante delle risorse del Piano nazionale di ripresa e resilienza (il Pnrr) riguarda il tema della transizione digitale. Si spenderanno 40 milioni di euro nel mondo dell’innovazione e della digitalizzazione delle imprese e della Pubblica amministrazione.
Sono più di vent’anni che in Italia viene annunciata la digitalizzazione del Paese, e in numerose occasioni sono state buttate quantità enormi di soldi per attività assolutamente inutili.
Ricordo i 45 milioni di euro, poi diventati 58, spesi per fare un sito – italia.it – che visto lo stato in cui è oggi chiunque qui può facilmente dimostrare che può essere messo in piedi in una settimana per 5000 euro, esagerando.
E ricordiamo ancora i numerosi annunci dell’imminenza di un’amministrazione pubblica completamente digitale, senza carta, mentre oggi nella maggior parte dei casi troviamo la vecchia burocrazia cartacea, con sopra un nuovo strato di digitale burocratizzato.
Ovvero è spesso lontano da quel che oggi dovrebbe servire il digitale, ovvero semplificare e ottenere le cose con un click senza burocrazia inutile; perché oggi si può fare, senza domande, richieste, moduli in cui diamo informazioni che la PA ha già, e cosi via…
Il nodo delle competenze
Il nodo gordiano credo che abbia al centro la carenza di competenze digitali, a tutti i livelli. A partire dalle competenze di base di chi usa i servizi e pensa di essere lui a non essere in grado di usarli, mentre frequentemente sono i servizi stessi a non essere usabili perché progettati a immagine e somiglianza delle vecchie procedure burocratiche. Lo dimostra il fatto che lo stesso utente in difficoltà coi siti della PA è poi perfettamente in grado di fare anche cose complesse sui social: usare hashtag, applicare filtri, taggare persone, creare account, gestire le impostazioni della privacy e così via.
Ma poi ci sono anche le competenze verticali di chi progetta i siti e i servizi della PA, che a volte è cresciuto professionalmente e vive quotidianamente in un mondo in cui la sua cultura di base si basa sul principio che siano i cittadini che devono a adeguarsi alla burocrazia della PA. E non al contrario, le procedure della PA che si semplificano grazie alla velocità e alle caratteristiche del digitale.
E, a proposito di PNRR, spesso si spendono più energie nel fare proclami su quanto è stato digitalizzato il paese e poche sul farlo davvero.
E questo per l’Italia è un momento critico, per il suo futuro, per la digitalizzazione.
L’importanza della divulgazione
Fortunatamente una parte dei soldi è destinata alla diffusione di cultura digitale a tutti i livelli. Ma per evitare di commettere gli stessi errori del passato tutti vorremmo che questa volta fossero spesi adeguatamente, dando importanza alla divulgazione digitale.
Ma cosa significa divulgazione? Se verranno spesi in convegni, eventi tra esperti, task force, mille cabine di regia diverse, e la realizzazione di altri siti da milioni di euro che reinventano quello che esiste già, probabilmente le cose non cambieranno.
Il LinkedIn italiano e l’ufficio complicazione cose semplici
Il Ministro della PA ha annunciato l’assunzione di 1000 professionisti a supporto delle amministrazioni e per farli ha creato un portale (che già è una definizione desueta e anacronistica di un sito ma piace tanto alla PA), che è stato definito dal ministro una sorta di LinkedIn italiano. Ma LinkedIn esiste già. È un sito su cui il 100% degli esperti che si cercano ha un profilo ricco di informazioni. Se si cercano eccellenze forse bisognerebbe reclutarle attraverso cacciatori di teste, o se le risorse necessarie sono tante, come pare in questo caso, dovrebbe essere resa semplice la candidatura.
Purtroppo, l’ufficio complicazioni cose semplici deve averci messo lo zampino anche questa volta. Sul sito bisogna compilare una scheda per ogni lavoro che si è fatto in passato e non è possibile importare tutto direttamente da LinkedIn. Come inizio, non ci siamo.
Se poi pensiamo che in Inghilterra, dove vivo e lo posso testimoniare, la transizione digitale della PA ha fatto sparire gli sportelli e la maggior parte degli uffici pubblici, con una drastica riduzione o ricollocamento del personale, che per ragioni anche solo intuitive, non sono più necessarie in quanto le procedure digitali fanno in automatico quello che una volta facevamo le persone.
E dei 40 miliardi, solo 250 milioni verranno spesi per le competenze digitali degli italiani, che è un altro punto critico direi esiziale per la competitività del paese. I soldi verranno spesi mettendo in campo iniziative di formazione digitale, per il superamento del digital divide. L’obiettivo è quello di raggiungere il target previsto dall’Europa, con il 70% di cittadini digitalmente abili entro il 2026. Anche qui il “come” farà la differenza. Se pretenderemo di alfabetizzarli attraverso un sito, che probabilmente quel pubblico non è in grado di raggiungere, la vedo male. Se lo faremo con mezzi di comunicazione di massa magari sarà la strada giusta, ma – anche in questo caso – è il come che farà la differenza.
Un programma noioso, la sera tardi su una rete secondaria, non avrà la stessa efficacia di contenuti di infotainment nella fascia in cui gli, come dire, gli analogici, sono davanti al televisore. Idem con gli altri mezzi di comunicazione. Se non saranno mainstream saranno poco efficaci sulla fascia che ne ha invece più bisogno.
E poi i tempi. In quali fasi saranno spesi questi soldi? Chi avrà accesso? Solo le solite grandi aziende o anche le piccole e medie eccellenze digitali che abbiamo nel nostro paese, in cui gli startupper pieni di energia e capacità non mancano?
Transizione 4.0, a frenarla è la mancanza di cultura digitale dentro le aziende
Infine, alcune risorse saranno dedicate all’innovazione nel sistema produttivo a partire dalla transizione 4.0. Termine ormai diventato una buzzword che contiene tutto e niente. Nel 2008 avevo scritto un libro a quattro mani con il compianto Professor Giacomazzi del Politecnico di Milano, che si chiamava “Impresa 4.0” e che anticipava i tempi della transizione delle imprese verso il digitale. A distanza di quasi 15 anni siamo ancora fermi ai convegni in cui si parla di impresa 4.0 al futuro, invece che al passato o quanto meno al presente. Per cui, dare soldi a pioggia alle imprese da destinare all’innovazione dei processi significa probabilmente buttarli se vengono spesi nella direzione sbagliata, acquistando prodotti o servizi non più adeguati alle esigenze del presente. Ed è un rischio molto concreto quando all’interno delle aziende manca la cultura digitale adeguata.
Se non si intraprende una strada che parte prima dalla cultura della trasformazione digitale, ma adeguata al 2022, su come oggi le aziende devono operare per renderla efficiente e proficua i soldi verranno sprecati.
L’Italia come la nave di Teseo
Altrimenti il rischio è che l’Italia digitale diventi come la nave di Teseo. Si narra che la nave in legno sulla quale viaggiò il mitico eroe greco Teseo fosse conservata intatta nel corso degli anni, sostituendone le parti che via via si deterioravano. Giunse quindi un momento in cui tutte le parti usate in origine per costruirla erano state sostituite, benché la nave stessa conservasse esattamente la sua forma originaria. Ragionando su tale situazione (la nave è stata completamente sostituita, ma allo stesso tempo la nave è rimasta la nave di Teseo), la questione che ci si può porre è: la nave di Teseo si è conservata oppure no? Ovvero: l’entità (la nave), modificata nella sostanza ma senza variazioni nella forma, è ancora proprio la stessa entità? O le somiglia soltanto? Cioè, quando gattopardianamente cambieremo tutto, non è che ritorneremo al punto di prima?
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