Si parla sempre di più delle irrinunciabili e decisive “competenze digitali”. Spinge l’Europa, ce lo dice il Governo, lo dicono soprattutto le imprese, che sono poi quelle che assumono. Ma cosa pensano effettivamente i protagonisti di questo cambio epocale del mondo del lavoro, ovvero i giovani italiani?
Alcune risposte le abbiamo trovate nella recentissima ricerca Epicode-SWG, che ha messo a confronto i bisogni della fascia d’età 18-30 anni con le aspettative delle aziende, vagliando un campione di 600 persone di questa fascia di età.
Il lavoro nelle aspettative dei ragazzi
Opinioni che non è per niente detto che coincidano sempre. Intanto emerge come più della metà dei giovani italiani tra 18 e 30 anni vorrebbe cambiare lavoro, ma teme che il suo titolo di studio non glielo consenta. E viene spiegato come in realtà la paura del futuro comincia presto: ancora a scuola, infatti, tre studenti su cinque dichiarano di temere che alla fine degli studi non riusciranno a trovare un lavoro di loro gradimento. D’altra parte, emerge come il lavoro non è solo una fonte di sostentamento economico: per 7 giovani su dieci è importante che il lavoro sia “figo”, insomma che si possa raccontare in giro quel che si fa per vivere suscitando invidia e ammirazione.
Il lavoro nel mondo hi tech, in particolare, è considerato uno “status sociale” per tre quarti degli intervistati. Il mondo hi-tech crea attrazione, curiosità, stupore, considerati i titoli e le qualifiche fantasiose che nascono con le nuove professioni. Figure come il Data Scientist, il programmatore, o chi si occupa di cybersecurity, incuriosiscono e mitizzano il lavoro rendendolo attrattivo, oltre che ben remunerato e con assunzione quasi certa non appena terminati gli studi.
Ovviamente – va anche detto che – questo sentimento non è avvertito come un tema di primaria importanza tra chi ha una formazione umanistica e chi si dichiara lontano dal mondo tech in genere. Anzi, chi ha formazione umanistica teme di finire a fare il dipendente pubblico o il professore di scuola o università e vede la propria prospettiva meno attraente di quelli che puntano sul mondo hi-tech.
Capire il divario tra quello che cercano le aziende e quello che i giovani si aspettano
Cruciale e rivelatrice una delle domande poste nella ricerca: “Pensando ai prossimi 3 anni, quali sono i principali ambiti di competenza che andranno sviluppati o consolidati nella vostra impresa / quali sono i principali ambiti di competenza che vorresti sviluppare o consolidare per migliorare il tuo futuro profilo professionale?” Domanda che è stata rivolta sia alle aziende che ai giovani: tra le risposte nascono interessanti affinità e divergenze. Il caso più eclatante è quello delle lingue straniere, dove tra i 18 e i 30 anni il 43% ritiene che possano giocare un ruolo determinante nel trovare un posto di lavoro, mentre per chi assume la percentuale è solo del 12%. Va detto che, nella prospettiva di un datore di lavoro, questo implica che la conoscenza delle lingue straniere sia un dato acquisito, esattamente come una certa competenza informatica. Come la capacità di destreggiarsi, almeno a livello base, col codice, che però viene presa un po’ sottogamba dai giovani: il coding è importante per il 32% delle aziende, ma solo per il 24% dei giovani. Un evidente esempio del divario che c’è tra quello che le aziende cercano davvero e quello che i giovani si aspettano che le aziende cerchino da loro.
Il ruolo della Scuola
Spiegare tutto ciò dovrebbe essere sempre più compito della scuola, il cosiddetto orientamento agli studi, altrimenti i giovani rischiano di non cogliere appieno cosa offre oggi il mercato del lavoro.
Certo che acquisire le competenze digitali resta l’obiettivo numero uno, non solo per chi sceglie il lavoro hi-tech, ma per chiunque voglia stare al passo con il futuro. E qui la nota dolente arriva dalla classifica europea, l’indice DESI che colloca l’Italia 25esima su 28 paesi. Un triste primato che la dice lunga sull’investimento che il Paese deve fare in termini non solo economici, ma soprattutto di sforzo collettivo per superare il “digital divide culturale”, che è quasi peggio di quello infrastrutturale. Il report annuale della Commissione Europea che misura l’indice di digitalizzazione dell’economia e della società dei 28 Stati membri dell’UE ci dice – pensate – che il punteggio italiano è di ben 9 punti inferiori alla media UE (43,6 vs 52,6).