Nel tentativo di diventare una nazione tecnologicamente più progredita, tra proclami di rendere operativi i piani di ammodernamento delle nostre amministrazioni pubbliche (sarà la volta buona?) e annunci su assunzioni di tecnici che supportino le amministrazioni e gli enti locali più deboli, rischiamo di lasciare indietro una buona fetta di popolazione che fa fatica a districarsi nell’infosfera o che addirittura non ha alcuna dimestichezza con le tecnologie, soprattutto quelle digitali.
C’è un divario formativo e di conoscenza che è altrettanto profondo ed esteso rispetto a quello infrastrutturale. E il fenomeno è più ampio di quello che si pensi. Peraltro, la tecnologia spinge verso una specializzazione delle conoscenze e delle capacità; la possibilità di perfezionarle è dirimente nel lavoro dei prossimi tempi. Questo aspetto sfugge alla scelta dei singoli: spesso non si ha possibilità di una formazione adeguata. Questo ha dei riflessi sulla capacità di molte PA di erogare servizi on line in linea con le attese dei cittadini. Cittadini che giudicano l’offerta ancora molo bassa o, il più delle volte, la valutano ancora insufficiente. Insomma, la domanda di servizi pubblici cresce, non altrettanto l’offerta, che resta qualitativamente un’area su cui intervenire.
Sarà importante, nel pianificare il futuro del Paese, non dimenticarsi di chi vive in quella zona grigia in cui il digitale fatica a vedere la luce. La sfida è sostanzialmente aperta e coinvolge in primo luogo l’autorità pubblica e l’azione politica.
I rischi del digitale: la tecno-esclusione di chi non sa
La necessità di accompagnare i cittadini alla formazione digitale di base e specialistica è un tema improcrastinabile, non solo per rendere effettivi i diritti di cittadinanza e una maggiore occupabilità dei lavoratori, ma anche per evitare di arrivare a una “doppia polarizzazione”.
La prima polarizzazione è tra chi sa e chi non sa.
Sappiamo che c’è una diffusa difficoltà nel rapporto con la tecnologia, tant’è che oltre quattro italiani su dieci possiedono competenze digitali basse o nulle. Il fenomeno varia a seconda dell’età (un italiano su due tra i cinquantenni, quasi sette su dieci nella fascia di età compresa tra i 65 e i 74 anni) e interessa anche i “nativi digitali”. Anche nella fascia di età più giovane (16-19 anni) la percentuale di chi ha competenze basse o nulle non scende mai al di sotto del 30%. In altre parole, anche tre “nativi digitali” su dieci in Italia frequentano in modo rudimentale e scarsamente consapevole gli strumenti digitali.
Ci sono poi i cosiddetti “tecnoesclusi”, quei cittadini tra i 16 e i 74 anni che non hanno mai usato internet, né dal computer, né da dispositivi mobili. Quanti sono in Italia? Più di quanti si potrebbe pensare: il 17% della popolazione adulta, quasi uno su cinque. L’esclusione dal mondo connesso riguarda in particolare persone con un basso livello di istruzione e che più spesso vivono nel Meridione. I dati sono contenuti nell’ “Annuario Scienza, Tecnologia e Società 2021” (pubblicato da Il Mulino) che riporta anche utili confronti internazionali: nell’Unione Europea la media dei “tecnoesclusi” è circa la metà, nove su cento, con punte superiori al 20% solo in Portogallo, Bulgaria e Grecia. Ma in Paesi come Finlandia, Svezia, Regno Unito, Danimarca e Paesi Bassi la tecnoesclusione è quasi sconosciuta e riguarda solo il 2% della popolazione.
La seconda polarizzazione è tra chi ha tutta una vita lavorativa davanti a sé e chi è (quasi) a fine carriera.
Se i lavoratori sono in età matura e con qualche decennio di esperienza alle spalle, il rischio di non riuscire ad apprendere e poter adeguare il proprio bagaglio di competenze è concreto, perché da una certa età in poi, la fatica di imparare per molti è insostenibile. Se le stime di alcuni istituti di ricerca si riveleranno corrette, nei prossimi anni nel settore della manifattura industriale ci saranno molti lavoratori con uno skill gap talmente elevato da non essere più impiegabili nei processi produttivi se non si rimetteranno in gioco. Già oggi il gap tra domanda e offerta di lavoro nel settore ICT è molto alto, circa il 20% e sta aumentando; quasi tre italiani su dieci sentono di non avere sufficienti competenze digitali per svolgere il proprio lavoro (la media europea è del 18%; in Germania il 10%, nei Paesi Bassi solo il 7%).
Competenze digitali, al via la strategia nazionale
E-commerce, interazione con la pubblica amministrazione, formazione online, informazioni sui siti istituzionali, prenotazioni mediche, online banking, SPID: c’è una fetta di popolazione che non accede a molte di queste attività. In queste condizioni, è inverosimile pensare che il diritto di cittadinanza digitale sia realmente e universalmente garantito a tutti, a meno che non si metta mano a un intervento pubblico di ampia portata e per grandi numeri.
La recente pubblicazione del Piano Operativo della Strategia Nazionale per le Competenze Digitali è sicuramente un passo importante che va nella direzione giusta, anche perché le azioni su cui è costruito il Piano sono rivolte sia a coloro che sono all’interno del ciclo di studi, sia a coloro che un lavoro già ce l’hanno.
Competenze digitali nel ciclo istruzione e formazione
Nell’ambito del ciclo “istruzione e orientamento”, si trovano azioni specifiche che vanno dal piano banda ultra larga, agli ausili didattici, dagli ambienti di apprendimento innovativi, alla formazione digitale del personale docente, allo sviluppo di competenze e cultura digitale degli studenti (Safer Internet Center, Programma il Futuro, Curricoli digitali e Sistema delle competenze).
Per la formazione superiore, integrazione del portafoglio digitale nei percorsi formativi universitari esistenti; definizione e condivisione di piattaforme di Open education, con azioni specifiche per i ricercatori impegnati nelle attività didattiche e scientifiche relative al settore dell’ICT; potenziamento della cultura digitale dei docenti universitari (digital life education); promozione della continuità dei percorsi formativi universitari con azioni di skills forecasting; potenziamento dei corsi di studio a carattere professionalizzante, in sinergia con industrie e mondo della scuola, valorizzando l’esperienza delle Academy in raccordo con il territorio; consolidamento dei percorsi integrati di formazione fortemente orientati alla ricerca industriale e all’innovazione in una logica di fertilizzazione incrociata con le discipline giuridico-umanistiche.
Competenze digitali nella forza lavoro
Per il settore privato, potenziamento delle competenze digitali per tutti i lavoratori, con azioni come il credito d’imposta formazione 4.0, il Sillabo delle competenze digitali per le imprese 4.0, il piano per le nuove competenze della popolazione attiva; indirizzamento delle imprese alla trasformazione tecnologica (con azioni come Punti Impresa Digitale, Competence Centers, Digital Innovation Hubs); diffusione dell’innovazione a tutti i livelli (con azioni come Credito Imposta Innovazione 4.0, Digital Transformation); avvicinamento delle imprese tradizionali alle imprese digitali con strumenti di valutazione della maturità digitale di imprese e lavoratori; sostegno della domanda di soluzioni tecnologiche innovative (con azioni come Smarter Italy, per la domanda pubblica intelligente); sviluppo di centri di ricerca sulle tecnologie emergenti (IA, IoT, Blockchain – Casa delle tecnologie emergenti).
Per il settore pubblico, reclutamento di dirigenti in possesso di competenze digitali, trasversali e della capacità di risolvere problematiche complesse; promozione di percorsi di orientamento alla carriera in ambito pubblico e di formazione specialistica sul digitale in collaborazione con il sistema universitario, con azioni specifiche per i Responsabili per la Transizione al Digitale (RTD); reclutamento del personale non dirigenziale con l’accertamento del possesso delle competenze necessarie a lavorare in una PA sempre più digitale; azioni come la piattaforma “competenze digitali per la PA”, il rafforzamento delle capacità dei piccoli comuni e percorsi per le competenze per il lavoro agile.
Il Piano operativo punta a colmare entro il 2025 il gap attuale con Germania, Francia, Spagna. Per questo sono stati posti alcuni obiettivi ambiziosi:
- raggiungere il 70% di popolazione con competenze digitali almeno di base, con un incremento di oltre 13 milioni di cittadini rispetto al 2019, e azzerare il divario di genere;
- duplicare la popolazione in possesso di competenze digitali avanzate (con il 78% di giovani con formazione superiore, con il 40% dei lavoratori nel settore privato e il 50% di dipendenti pubblici);
- triplicare il numero dei laureati in ICT e quadruplicare quelli di sesso femminile, duplicare la quota di imprese che utilizza i big data;
- incrementare del 50% la quota di PMI che utilizzano specialisti ICT;
- aumentare di cinque volte la quota di popolazione che utilizza servizi digitali pubblici, portandola al 64%, e portare ai livelli dei Paesi europei più avanzati l’utilizzo di Internet nelle fasce meno giovani della popolazione (l’84% nella fascia 65-74 anni).
Non sarà facile abbattere l’analfabetismo digitale e sviluppare un percorso di cambiamento culturale in tutti i settori della società, ma puntare all’inclusione digitale del maggior numero di cittadini, superando il divario di genere, è una necessità non più procrastinabile.
Bando competenze ai nastri di partenza
Il percorso di rinnovamento del pubblico impiego è in pieno corso. Dopo Cgil, Cisl e Uil altre tre sigle sindacali (Confsal, Cisal e Confedir) hanno aderito alla strategia per innovare il lavoro pubblico. Si allarga così la platea delle organizzazioni sindacali aderenti al Patto già firmato a Palazzo Chigi lo scorso 10 marzo: riflettori su smart working e competenze digitali.
Nell’ambito di questo percorso è stato presentato dal governo un piano di assunzioni per rafforzare la dotazione di capitale umano. È di questi giorni, infatti, l’annuncio del Ministro per la Pubblica Amministrazione di voler assumere tecnici da destinare principalmente agli enti locali del Mezzogiorno (Abruzzo, Basilicata, Calabria, Campania, Molise, Puglia, Sardegna e Sicilia). La procedura “si svolgerà in modalità digitale, innovativa e semplificata, in modo da dotare le pubbliche amministrazioni di personale di alto livello, ben selezionato. È una sfida, in cento giorni assumeremo 2.800 professionisti ‘high skill’ per le amministrazioni del Sud. È il primo test per la rivoluzione nel reclutamento dell’intera Pubblica amministrazione, dimostreremo che si possono fare concorsi digitali serissimi e in tempi ristretti. Se funziona, vorremmo applicare questo stesso criterio per il Recovery”.
La pubblicazione del bando di concorso avverrà nei primi giorni di aprile e sarà caratterizzata da una forte spinta a rinnovare i profili delle competenze e delle capacità.
La volontà di inserire forze fresche nella schiera dei dipendenti pubblici è senz’altro un’azione meritoria, vista anche l’anzianità anagrafica di molti lavoratori attualmente occupati. Le figure selezionate verranno assegnate agli uffici di competenza, diretti da dirigenti che dovranno farsi carico di queste nuove figure, adoperandosi per il loro miglior inserimento nell’organico e facendo in modo che il loro impiego sia utilizzato al meglio.
Il capitale umano pubblico può diventare protagonista della ripresa anche grazie all’innesto di forze nuove. L’importante è lasciare che questo potenziale sia libero di esprimersi, senza condizionamenti rispetto a procedure desuete o a rapporti di gerarchia vecchio stampo, che molti dirigenti pubblici fanno fatica ad abbandonare e al cui altare sono stati sacrificati tanti tentativi di cambiamento e di innovazione.
Niente ripresa senza competenze digitali
In questo percorso di maturazione delle funzioni e del ruolo della PA, l’auspicio è quello di vedere farsi strada la convinzione che il digitale sia uno dei driver fondamentali per attuare appieno la transizione digitale e che occorra acquisire, mantenere e sviluppare un set di professionalità adeguate e motivate.
D’altronde questo anno di pandemia ci ha insegnato che le infrastrutture e le competenze digitali sono indispensabili per tutte le attività sociali ed economiche: la scuola e l’università, la sanità, i servizi pubblici e sociali, la logistica, i trasporti.
La relazione del CNEL: basse competenze in Italia
“Lo smart working o la dad ma anche le prime pratiche di telemedicina sono stati importantissimi per affrontare l’emergenza ma hanno fatto emergere anche il grande gap del nostro Paese. E rischiano di pesare enormemente se non si corre subito ai ripari. Se vogliamo ripartire velocemente dopo lo stop obbligato servono investimenti per favorire lo sviluppo delle reti e le infrastrutture digitali e per formare le competenze”. È quanto affermato dal presidente del CNEL, Tiziano Treu, presentando la Relazione annuale 2020(pdf) del CNEL al Parlamento e al Governo sui livelli e la qualità dei servizi offerti dalle Amministrazioni pubbliche centrali e locali alle imprese e i cittadini.
Dal rapporto emerge che solo il 42% degli italiani tra i 16 e i 74 anni possiede competenze digitali di base e solo il 22% dispone di competenze digitali superiori a quelle di base. Inoltre, la percentuale di specialisti ICT in Italia è ancora al di sotto della media UE, così come la quota di laureati nel settore ICT, che registra un valore pari all’1% contro una media europea di 3,6%. La mancanza di risorse finanziarie rappresenta l’ostacolo più importante al processo di digitalizzazione. Seguono fattori strettamente legati all’implementazione delle tecnologie ICT, come la mancanza di adeguata formazione, di uno staff qualificato e le problematiche connesse ai costi di tali tecnologie.
Il quadro che emerge dal rapporto è che dal punto di vista complessivo la sfida della qualità dei servizi online, in termini di piena utilizzabilità, è ancora da vincere dalle amministrazioni locali. Questo pone l’Italia a un livello di penetrazione dei servizi pubblici molto basso, tra i più bassi d’Europa, e a un livello medio-basso di digitalizzazione, mantenendo un andamento costante rispetto al Report del 2019. Che sia trascorso un altro anno senza sostanziali miglioramenti è reso ancora più evidente da fatto che oggi, anche per effetto del Covid, abbiamo iniziato a utilizzare sempre di più i servizi via web, con accessi a tali tipologie di servizi anche da persone meno avvezze all’uso dell’online. A fronte di quest’aumento della domanda non è corrisposta l’aumento dell’offerta. Non a caso, la pagella sui servizi offerti mostra la necessità di ulteriori interventi e di un costante miglioramento in termini di efficienza, efficacia, utilità e facilità d’uso.
Conclusioni
La spinta accelerativa della digitalizzazione sta ponendo le autorità politiche e le amministrazioni pubbliche di fronte a una doppia sfida: da un lato quella di garantire che una buona fetta della popolazione non resti ai margini dei processi innovativi, o peggio ancora esclusa dal poter esercitare i propri diritti di cittadinanza digitale; dall’altro quella di soddisfare le aspettative dei cittadini desiderosi di ricevere e usufruire di servizi on line più in linea con le attese.
Nell’anno del Covid, chi può e chi ha più dimestichezza col web, ha sicuramente aumentato l’utilizzo delle tecnologie digitali, sentendosi maggiormente confidente con la possibilità di utilizzare i servizi on line del proprio comune o di altra pubblica amministrazione, anche perché tali servizi on line fanno risparmiare tempo e sono più comodi. Se il cittadino pone più attenzione ai servizi offerti dal digitale, ecco che la sfida della qualità per la PA si accentua. Abbiamo bisogno di lavoratori pubblici più competenti digitalmente e di cittadini più preparati a vivere nell’era digitale.
Vincere queste sfide vuol dire portare l’Italia fuori dallo “scenario e-Gov non consolidato”; uno scenario in cui ci ritroviamo da diversi anni, anche perché non siamo ancora in grado di sfruttare appieno le opportunità fornite dall’ICT.