Passato l’entusiasmo iniziale per l’Intelligenza artificiale, le imprese sono chiamate a capire come funziona e ad applicarla nel più breve tempo possibile. Come un nuovo giocattolo infatti, i device di ultima generazione appaiono ammalianti a un primo sguardo, per poi suscitare perplessità.
La sfida delle competenze nell’era dell’IA
I timori però, dettati dalla mancanza di competenze, non devono dominare rispetto alla curiosità e al desiderio di conoscere le innovazioni per poi applicarle a beneficio di tutti. Ne va della competitività di ogni singola forza produttiva. È necessario quindi fugare il terrore per cui l’automazione delle fabbriche sarebbe l’anticamera di un olocausto occupazionale. Non è così! L’Ai, o comunque qualsiasi strumentazione tecnologicamente avanzata è funzionale all’impresa se c’è qualcuno che sappia farla funzionare.
I limiti delle aziende di fronte al progresso tecnologico
È qui che entrano in gioco i famosi talenti, ovvero quei “cervelli” che l’Italia, come sistema-Paese, sembra essere così in affanno nel valorizzare, ma che sono sempre più necessari alle imprese, di qualsiasi dimensione e filiera. In realtà, quello dello skill gap è un problema mondiale. Secondo il World Economic Forum, nel 2022, circa il 75% delle aziende ha riportato difficoltà nel reperire le figure professionali adeguate al proprio business. Nel 2015, erano solo il 38%. Di questo passo si prevede un deficit 85,2 milioni di talenti, da qui a sei anni, che provocherebbe 8 trilioni di dollari in mancate revenue.
È paradossale, vero? Il progresso corre affinché le imprese siano più competitive, sostenibili e resilienti. Tuttavia, sono appunto le imprese che non riescono a tenere lo stesso passo.
La chiave di volta per risolvere questa contraddizione sta quindi nel trattenere e attrarre talenti. Questo significa che le aziende devono identificare, sviluppare e investire nelle competenze dei loro dipendenti, per ottenere un vantaggio competitivo sul mercato.
Il ruolo strategico del capitale umano
Mai come oggi infatti, il capitale umano ha svolto un ruolo così strategico. La società della conoscenza, per sua stessa definizione, ci induce a dire che un’organizzazioni è valida non se dispone della strumentazione tecnologica più avanzata, bensì se è basata sulle competenze necessarie per questa innovazione.
Le scoperte scientifico-tecnologiche, infatti, vanno di pari passo con l’evoluzione del mercato del lavoro. Peraltro non solo in termini di skill, ma anche di stile di vita. Così come cambiano le modalità di produzione, altrettanto mutano le ambizioni della persona. Mentre l’impresa investe per rispondere adeguatamente alle esigenze del mercato, l’individuo è alla ricerca di un ambiente più intimo e informale, più a misura della propria Weltanschauung. Va aggiunto che la società pretende un nuovo equilibro del sistema economico di fronte all’ambiente. C’è una soluzione unica in grado di rispondere a tutto questo?
Il costo della mancanza di competenze qualificate
Facciamo una simulazione. Supponiamo di avere un’impresa di medio-grande dimensione (500 persone), con una perdita di figure qualificate (churn) dell’8% annua. Il nostro “Osservatorio sulla formazione continua” ha calcolato che i costi affrontati, in termini di spese per le agenzie di head hunting e mancata produttività, e tenendo conto del tempo medio per l’assunzione di una nuova persona, pari a 2,5 mesi, è di 2 milioni di euro in un anno. Come è evidente, la perdita di persone chiave e il conseguente vuoto di competenze è una vera e propria piaga che si traduce in un conto economico significativo anche per le aziende dalle spalle larghe. Immaginiamoci infatti questo scenario proiettato sulle Pmi, storicamente svantaggiate rispetto alle grandi aziende, in grado di promettere stipendi più alti e maggiori opportunità di carriera. Al netto però di questo distinguo identitario, come possono le imprese contenere quei 2 o anche più milioni di euro di costi?
L’upskilling come soluzione al deficit di competenze
La risposta secca è: l’upskilling, ovvero quella serie di iniziative di aggiornamento professionale che permettono un risultato win-win, sia alle imprese sia ai lavoratori, di mitigare i rischi e migliorare il business.
Tutto questo ottimismo va però A) sviluppato in operazioni concrete; B) tradotto in Roi.
L’effetto positivo della formazione richiede, infatti, un approccio strategico da valutare puntualmente in relazione alle prospettive dell’impresa. È necessario avere chiare quali siano le competenze critiche su cui intervenire. Ci sono quelle tecniche, come pure le cosiddette soft skill – per esempio autodisciplina, adattabilità e problem-solving – che meritano entrambe un’urgente attenzione. Gli step successivi riguardano l’avvio di percorsi di formazione e aggiornamento personalizzati, in grado di coinvolgere le tutte singole persone. Bisogna poi creare un sistema di valutazione delle competenze, che a sua volta permetta a tutti i membri dello staff produttivo di disporre dello stesso grado di consapevolezza delle proprie competenze e quindi di sfruttarle e di crescere professionalmente all’interno dell’organizzazione. Infine, è importante monitorare e misurare i risultati ottenuti: verificare se siano in linea con le aspettative e identificare eventuali opportunità di miglioramento.
La necessità di un approccio strategico alla formazione
Sempre prendendo come modello l’azienda di 500 dipendenti, il nostro Osservatorio ha valutato che iniziative di sviluppo professionale come queste potrebbero mitigare il churn di almeno il 10%. Raggiungendo un risparmio di 200 mila euro sui 2 milioni di perdita di partenza.
Confrontando il costo medio di un piano di upskilling su una popolazione di circa mille persone con i benefici derivanti dalla riduzione del churn i risultati sono sorprendenti, il Roi dell’upskilling si attesta tra 3 e 6 volte l’investimento iniziale. La formazione continua è non solo una spesa necessaria, ma un investimento strategico che si ripaga ampiamente già nel primo anno.