Come è evidente a molti, il passaggio dall’ancien régime dei mass media al mondo interconnesso dei social ha le caratteristiche di un salto quantico, una discontinuità assoluta.
Uno degli aspetti misconosciuti di questo passaggio è l’importanza centrale assunta dall’ascolto, rispetto a un mondo precedente in cui lo sforzo era piuttosto quello di trovare sempre cose nuove da dire, in modi sempre più avvincenti.
Parlare di meno, ascoltare di più
La gente vuole ascolto. Il 90% della seduzione è ascolto”. “O piuttosto ‘fare la faccia’ di quello che ascolta”. “Be’, potrebbe funzionare. Quel che conta è che l’altro si senta importante. Devi far credere di voler distruggere il resto del mondo per concentrarti su di lei. La piena attenzione. Black Mirror
Parlare di meno, ascoltare di più. “Distruggere il resto del mondo per concentrarti su di loro”, come ricorda la citazione; questo è il sine qua non per chi vuole comunicare con efficacia sui social. A differenza però della visione stralunata e visionaria della serie televisiva Black Mirror, non basta “far credere”. Autenticità dell’interesse e attenzione consapevole nei confronti di quello che una volta si chiamava “utente”, o “target”, non possono essere finti; simularli significa peggiorare la situazione.
Per usare una metafora, siamo passati dal modello del comizio, in cui uno speaker si rivolge a una folla che lo ascolta; al modello dell’invitato a una festa. Si mischia agli altri invitati, ascolta quello che viene detto, capisce umori, tendenze e opinioni, e poi (ma solo poi) in modo pertinente e rilevante dice la sua, unendosi alle conversazioni in corso e accreditandosi gradualmente come qualcuno che ha cose interessanti da dire.
I media tradizionali ci hanno abituati per decenni a un approccio monodirezionale e asimmetrico (“io parlo tu ascolti, io scrivo tu leggi”). Mantenere questa stessa impostazione sui media digitali significa perdere efficacia e addirittura venire percepiti come estranei, se non anche fastidiosi.
La pratica dell’ascolto deve dunque essere centrale all’interno di ogni progetto di comunicazione sui social, già a livello di “agenda setting”, di scelta dei contenuti da trattare (quello che una volta si chiamava “piano editoriale”). Pretendere di essere noi a decidere quali sono gli argomenti da trattare in un determinato momento è velleitario. Non siamo noi, non saremo mai più noi a decidere quali sono gli argomenti di cui discorrere. Sarebbe come presentarsi a pranzo con un gruppo di amici, con in mano la lista degli argomenti di cui si dovrà forzatamente discutere, cui gli altri dovranno rigidamente attenersi.
Occorre piuttosto fare leva sui trending topics, inserirsi all’interno delle conversazioni già in onda e degli argomenti di interesse, per contribuire con il proprio punto di vista, i propri contenuti, le proprie informazioni, e in quel modo costruire nel tempo un’identità e una funzione autentiche.
Di conseguenza, l’ascolto deve precedere, accompagnare e seguire ogni atto attivo di comunicazione. Tecnicamente si tratta di un compito complesso, non banale. Oltre agli aspetti relativi all’atteggiamento mentale di chi comunica, occorre costruire una struttura di ascolto organizzata e dimensionata rispetto agli argomenti di interesse. Occorre predisporre sistemi di alert adeguati, metriche significative, insight specifici per i diversi stakeholder.
Va anche sottolineato che occorre allargare questa attenzione a tutte le conversazioni attive in rete, senza pensare che basti ascoltare quello che viene detto, per così dire, a casa propria, cioè sul proprio canale, che sia l’account Facebook, quello Instagram, Linkedin, Twitter o quant’altro. Questo è un equivoco frequente: pare che basti controllare quello che viene detto sulla propria pagina per gestire la propria reputazione in rete. Ma di noi non si parla solo a casa nostra; anzi, quello che viene detto in altri contesti è quasi sempre più interessante, anche se non per forza positivo e rassicurante.
Breve storia del cambiamento in atto
Pare incredibile ma tutto è iniziato giusto una dozzina di anni fa. YouTube ha aperto le danze, ma solo nel 2006, lo stesso anno in cui, a settembre, Facebook si apre a tutti gli utenti dai 13 anni in su. Alla nursery si aggiunge Twitter un anno più tardi. L’app store di Apple apre i battenti nel luglio 2008, dando vita all’esperienza mobile come la conosciamo e creando il mondo “mobile first”. Instagram oggi è un bimbo, ha poco più di 9 anni.
L’avvento di smartphone, social, video è stato fulmineo e ha indotto una sorta di sbornia iniziale, che ha coinvolto e in alcuni casi travolto tanto la domanda quanto l’offerta di informazione e comunicazione.
Il lato “offerta” è quello che rileva maggiormente in questa sede. Comunicatori, advertiser, brand, aziende, enti e istituzioni da subito sono stati attirati dalle potenzialità di questi nuovi canali, possibilità enormi e a costi a volte addirittura irrisori. Rispetto alla complessità e ai costi necessari precedentemente per portare il proprio messaggio al mercato, a qualcuno è parso di arrivare improvvisamente nel paradiso del marketing.
Questo ha prodotto un’attività frenetica, il lancio “a chilometro zero” di campagne di ogni tipo, spesso promosse in modo semplicistico recuperando i format elaborati per i media tradizionali e riproponendoli sui canali digitali. Due al prezzo di uno, “everything goes”, l’importante è esserci, quando la terra è giovane e fertile ogni seme può sbocciare e portare il proprio frutto, anche quelli più incongrui. I prezzi tanto convenienti rispetto al passato hanno spinto alla saturazione dei canali. La giungla dei banner ha invaso le pagine web, gli annunci cosiddetti “organici” (nulla a che vedere con frutta e verdura… o forse sì) hanno occupato la nostra timeline, le notifiche tempestano il telefonino, i video sono interrotti con sempre maggiore frequenza dagli annunci.
È tempo però di acquisire maggiore consapevolezza e di passare da una visione quantitativa a una qualitativa del canale. Non solo fare, e fare sempre di più, ma fare meglio e in modo sempre più specifico ed efficace.
Anche perché le “persone” (termine molto più adatto di “utente” o “target” o “consumatore” all’atteggiamento con cui gli individui si accostano ai canali social) sono sempre più consapevoli dei potenziali effetti manipolatori di questa rutilante giostra. Avvertono i rischi relativi alla privacy e non mancano casi estremi di dipendenza patologica che spingono molti a tenere la guardia sempre più alta.
Anche quando la dipendenza non è patologica, sempre dipendenza è, e come tutte le dipendenze vincola il soggetto invece di espanderne le possibilità. Le persone diventano sempre più abili a camminare per strada con gli occhi fissi sullo smartphone, senza inciampare o essere travolti a un’auto; ciò non vuol dire che valga la pena fare così o che semplicemente abbia senso farlo. L’overflow informativo non permette scelte vere e la “information bubble” (il rinchiudersi progressivo all’interno di contenuti sempre più uguali a sé stessi), condanna alla ripetizione ossessiva di una storia autoreferente e sterile.
I comunicatori stanno dunque gradualmente prendendo le misure dei nuovi mezzi, combinandoli con quelli tradizionali per una maggiore efficacia. Stanno scoprendo che le persone normali hanno a volte più autorevolezza degli influencer nei confronti della propria cerchia. Si interrogano sui costi effettivi e sui margini di intermediazione che finiscono nelle tasche di una lunga lista di middle men che di fatto non aggiungono valore. Riflettono sulla necessità di riportare a casa (fare “insourcing”) delle competenze chiavi, quali la pianificazione e programmazione sui mezzi.
Esaminiamo dunque alcuni capisaldi concettuali, che possono aiutarci nell’acquisizione di una maggiore consapevolezza ed efficacia nell’esercizio dell’ascolto per un migliore utilizzo dei canali digitali.
Contenuto e relazione
Nell’iniziale corsa all’oro social, si è attenuata quasi fino a spegnersi una distinzione semplice quanto cruciale, quella tra mezzo e contenuto.
“Social network” e “social media” sono due espressioni che vengono ormai usate in modo interscambiabile, ma che originariamente connotavano due aspetti dello stesso fenomeno, legati ma distinti: la rete di relazioni da un lato, i contenuti che transitano sulle reti sociali stesse dall’altro. La scomparsa della distinzione ha provocato infiniti equivoci e una profonda incom¬prensione delle dinamiche in corso.
Che le due cose, reti e contenuti, siano distinti, non mette conto spiegarlo. D’altro canto è evidente che essere amico di qualcuno (o avere tanti follower) non vuol dire avere delle cose interessanti da dire; così come a volte le cose interessanti le dicono anche quelli antipatici a zero engagement.
Il punto è che gestire un sistema di relazioni richiede regole diverse e differenti strumenti di gestione rispetto alla amministrazione di un insieme di contenuti. E i player devono decidere su quale livello giocare. Diversa è una strategia che si gioca a livello di contenuti (che siano aggregati, di qualità, “must have”, user generated, verticali o quant’altro); altro è una strategia volta alla penetrazione della rete di relazione. E la strategia più efficace, ovviamente, sarà quella che gestisce i due livelli in modo distinto, ma armonico. Infatti nella vita vera le due dimensioni, sia pure (lo ripetiamo) distinte, vanno a braccetto. Una rete senza contenuti è una cattedrale nel cyber-deserto, i contenuti senza una rete sono un urlo senza eco nello spazio profondo. Tuttavia, va ripetuto: anche se contenuti e relazioni viaggiano insieme, non sono la stessa cosa e vanno distinti.
In molti casi invece si è fatto e si fa una gran confusione. Ogni soggetto va valutato sulla base della sua capacità di mantenere una relazione, ma anche, e in modo diverso, sulla veridicità, rilevanza e specificità delle cose che dice. Una buona strategia digitale deve esaminare queste due dimensioni in modo integrato, ma non confuso. È futile misurarsi sul numero di follower o di like senza riflettere sul tipo di contenuti su cui ha fatto leva questa apparente relazione.
Per una teoria delle stringhe
I vecchi mass media erano enormi megafoni che proponevano un’informazione asimmetrica, asincrona, a una via. I giornali sottoponevano ai lettori contenuti sequenziali etero determinati da una redazione che un paio di volte al giorno si riuniva per decidere di cosa si doveva parlare, e cosa invece andava condannato all’oblio; e i lettori non potevano fare altro che adattarsi leggendo, puntuali e obbedienti, quello che veniva pubblicato. Il resto semplicemente non esisteva. In modo del tutto analogo, il palinsesto televisivo dettava cosa si sarebbe fatto quella sera; e il “potato couch”, affondato nel divano, premeva il pollice sul telecomando esercitando le proprie referenze all’interno di una lista ristretta.
Diciamolo, erano bei tempi e la vita era più semplice per i comunicatori: bastava curare le relazioni con i media stessi, usando peraltro strumenti ben codificati, e ci pensavano poi loro a trasmettere il nostro messaggio al pubblico.
Il mondo della rete invece tollera solamente conversazioni paritarie, simmetriche e continue. “Publishing is a button”, siamo tutti editori e giornalisti e nessuno osi pensare di avere il monopolio sulla diffusione delle notizie. Occorre scendere in campo, mettersi in gioco, ingaggiarsi con persone che vogliono prendersi la responsabilità di decidere argomenti e contenuti di cui fruire. Sono loro che vanno in rete e attingono a un’offerta sconfinata per decidere che programma guardare questa sera. Lo stesso termine “programma” oramai suona falso perché non si programma più nulla, mentre si sceglie all’istante cosa, come, quando e con chi.
Non solo; non ci basta ascoltare, vogliamo parlare ed essere ascoltati. La fruizione di qualsiasi contenuto non può e non vuole più essere distinta dall’intervento attivo di commento, condivisione, valutazione.
Questi due mondi, quello dei media tradizionali e quello del digitale, si presentano come diversi e inconciliabili, ma attualmente e ancora per un po’ convivono e conviveranno. Qual è dunque il modo di gestirli in una logica unitaria, che pur tenendo conto di questi inconciliabili caratteristiche armonizzi e ottimizzi il nostro sforzo di comunicazione?
È lo stesso problema che ha la fisica moderna. Le leggi della relatività generale spiegano quello che succede ai fenomeni sulle grandi dimensioni, mentre le formule quantistiche spiegano e governano l’infinitamente piccolo. Ma le equazioni che spiegano un mondo non funzionano per l’altro- e viceversa. Da tempo gli scienziati cercano una “teoria del tutto” unificatrice, che si applichi a tutti i fenomeni, come la “teoria delle stringhe”. È dunque possibile individuare una “teoria delle stringhe” che permetta di comprendere in un’unica visione la dinamica dei mass media accanto a quella dei social? E che consenta di impostare iniziative di comunicazione che transitino virtuosamente da un ambito all’altro, dai giornali ai social network, dalla televisione generalista a YouTube?
A nostro parere questo concetto unificante, questa “teoria del tutto” può essere centrata attorno al concetto di “influenza” o “influencer”.
La rete infatti non è strutturata in modo paritario. A lungo si è ritenuto che fosse così, che Internet fosse il luogo della democrazia perfetta, ogni nodo con identica dignità. Non è così, se c’è un’uguaglianza nella rete è quella beffarda della fattoria degli animali di Orwell dove “tutti gli animali sono uguali ma alcuni animali sono più uguali degli altri”.
La rete è strutturata in linee di comunicazione più o meno frequentate e in cosiddetti hub, nodi della rete ad alto traffico, che presidiano e strutturano il diffondersi delle notizie.
Questi nodi, o snodi, corrispondono spesso al fenomeno degli “influencer”, su cui i comunicatori si sono avventati. La realtà degli influencer può però corrispondere a una scelta di pigrizia. Dove prima si affidava alle testate giornalistiche il compito di influenzare l’opinione pubblica, adesso ci si affida agli influencer. Consegniamo loro il nostro messaggio, paghiamoli (a volte anche profumatamente) e ci penseranno loro a presidiare il pubblico. Invece di parlare alle persone, come potrebbe fare, il brand si affida a un mediatore, ieri la testata giornalistica, oggi la blogger di turno.
In effetti, così come non si può negare che le testate giornalistiche godano ancora di una certa influenza, nelle edicole come in rete, non si può neanche negare che i vari influencer (top, medium, micro, nano…) si comportino spesso come strutture redazionali, editoriali e pubblicitarie a tutti gli effetti.
Occorre andare oltre a questa logica approssimativa e utilizzare il concetto di “influenza” in modo più ampio, evitando la semplificazione cui abbiamo accennato, tenendo piuttosto conto delle caratteristiche delle reti digitali su cui ci siamo soffermati. Occorre pensare ogni nodo della rete, digitale o dei mass media, come un piccolo o grande sistema di influenza. Questo ci aiuta a capirli in una logica unica, sia pur dinamica. L’amico delle elementari, il cugino appassionato di elettronica, il collega che segue la moda, sono tutti influencer alla pari della grande testata giornalistica e del top influencer che ha a sua disposizione una vera e propria struttura redazionale e commerciale, ciascuno a proprio e diverso titolo. Questa è la vera “rete”, non del tutto paritaria ma neanche totalmente verticistica.
I sistemi di intelligenza artificiale
I sistemi di AI stanno gradualmente uscendo dall’infanzia, espandono progressivamente il proprio ambito di applicazione e l’efficacia del proprio intervento.
Una tecnologia esce dall’infanzia quando raggiunge una soglia critica che la rende effettivamente utile in contesti diversi. Sotto quella soglia produce risultati non competitivi rispetto agli approcci più tradizionali; sopra quella soglia diventa utile e conveniente, e in alcuni casi addirittura trasformativa.
Questo è il percorso che sta seguendo anche il complesso di tecniche e sistemi etichettati come “intelligenza artificiale”, che troviamo ormai sempre più spesso come parte costitutiva di sistemi che utilizziamo anche quotidianamente.
Va detto con forza però che al di là delle visioni miracolistiche e delle informative superficiali che spesso vengono date, c’è poco di intelligente e c’è poco di artificiale nell’intelligenza artificiale.
Dal punto di vista dell’“intelligenza”, questi sistemi sono estremamente deboli quando viene richiesta capacità di giudizio, comprensione del contesto, esercizio delle doti superiori (tra cui l’ironia…). In questo senso non possono sostituire l’umano. In alcuni contesti inoltre, sono soggetti a margini di errore significativi, inciampando in strafalcioni permessi dalle regole statistiche che li guidano, ma che un essere umano difficilmente commetterebbe. Tuttavia anche in questi casi maggiormente critici, conservano la capacità di gestire enormi volumi di dati o di materiali e se inseriti intelligentemente in un processo che preveda anche diversi livelli di supervisione umana, possono produrre effetti trasformativi e gestire problemi altrimenti ingestibili. Il progresso cui stiamo assistendo dunque corrisponde alla continua espansione di questi sistemi nell’ambito del trattamento delle notizie, tanto più sui canali digitali e social dove l’enorme volume di contenuti che vengono generati e scambiati ogni secondo rendono l’utilizzo di analisi umana semplicemente non praticabile. Solo l’utilizzo appropriato di questi sistemi può permettere di individuare, catalogare, discriminare e utilizzare l’oceano di contenuti che continuamente ci investe e ci sovrasta.
Questi sforzi peraltro non richiedono neanche grandi investimenti tecnologici o immobilizzazioni di capitale. Sono gli stessi giganti del digitale (Google, Amazon, Microsoft, IBM) che rendono disponibili i tool di intelligenza artificiale, facilmente accessibili a chiunque sia in grado di utilizzare una API (certo non un professionista della comunicazione, ma un semplice informatico di livello standard).
Gli ambiti di applicazione dell’intelligenza artificiale hanno nomi esotici: Entity Extraction, Speech-to-text, Clustering, Abstracting, Logo/Face recognition, Sentiment Analysis evoluta. Servono però a fare cose tanto chiare quanto utili: riconoscere tutte le volte che si parla di noi o di concetti che ci interessano; capire a quali persone, aziende, marchi, luoghi, eventi è tipicamente associata la nostra immagine; raggruppare il complesso dei contenuti in gruppi omogenei e distinti; gestire la componente “video” (ormai preponderante) estraendo in automatico il testo dal parlato e rendendolo così selezionabile; e così via.
La guerra dei talenti
Esistono epoche orientate maggiormente agli aspetti qualitativi, estetici, emotivi e artistici; altre dove prevale l’aspetto tecnico, tecnologico e quantitativo. La nostra, che piaccia o no, è un’epoca dominata dagli ingegneri del software e chi vuole sviluppare valore aggiunto e avere successo nella vita e negli affari deve sapere maneggiare questo tipo di leve.
Purtroppo questo ha indotto una veloce saturazione del mercato del lavoro e una difficoltà a trovare personale qualificato. In tanti si spacciano per esperti, ma la capacità di gestire la componente formale e di scendere nel dettaglio è appannaggio di pochi. Portarsi a casa un buon informatico è sempre più difficile, sono pochi rispetto alla domanda e ovviamente più interessati alle aziende tecnologicamente eccellenti. Perché poi in questo scenario le università continuino a sfornare giovani con una formazione prettamente umanistica, è altra questione e non ce ne occupiamo qui.
In modo del tutto analogo, va sottolineata la carenza di competenze tecniche anche a livello dei manager, che per mestiere si occupano d’altro, di marketing o comunicazione nel nostro caso, ma che per perseguire i propri obiettivi hanno bisogno di utilizzare leve tecnologiche e di interfacciarsi con gli informatici.
Questo gap di competenze, a tutti i livelli, potrebbe avere conseguenze decisive sul mancato o cattivo utilizzo di certi mezzi, e in parte spiega l’approssimazione evidente in certe strategie di comunicazione, sull’utilizzo della ripetitività dei messaggi tipo “bombardamento a tappeto” invece delle “bombe intelligenti” permesse dai nuovi mezzi.
Io sono nato pronto
Rispetto a cambiamenti con una portata pari a quelli descritti, è inutile dire che molte organizzazioni, siano esse di natura pubblica o privata, fanno fatica a interpretare al meglio il nuovo ruolo che devono adottare. In particolare, quelle più in difficoltà non colgono la necessità di un cambio di paradigma e continuano a perpetuare sui canali digitali, in tutto o in parte, modalità di gestione proprie dell’ancien régime.
Per focalizzarci sull’aspetto centrale di questo scritto, vale a dire il posto da riconoscere all’attività di ascolto all’interno di una strategia di comunicazione, è possibile delineare una casistica che tiene conto di tutti gli aspetti finora illustrati e che li dispone secondo un continuum che va da una grave immaturità fino all’organizzazione digital ready.
Come abbiamo visto, i fattori da tenere in considerazione per descrivere queste diverse fasi di sviluppo sono molteplici e articolati. Messi in sequenza secondo l’ordine di complessità, possiamo citare:
- Riconoscimento generico da parte dell’organizzazione della necessità di un ascolto consapevole come base dell’attività di comunicazione.
- Rilevazione costante, anche giornaliera, dei trending topics; adattamento continuo agli stessi nel corso dell’attività di comunicazione.
- Attività frequente di lettura e analisi generica delle reazioni del pubblico sui propri mezzi (per es. pagina Facebook).
- Monitoraggio continuo e strutturato delle citazioni proprie sulla rete in generale, tramite tool di social listening.
- Monitoraggio delle citazioni dei propri concorrenti, dei benchmark e degli argomenti rilevanti, sempre tramite tool specialistici.
- Attività continua di reazione a quanto postato; ogni commento del pubblico viene visto e produce una reazione tesa allo sviluppo di una conversazione con ciascun utente.
- Analisi periodica (mensile, trimestrale) e strutturata dei risultati ottenuti rispetto agli obiettivi di comunicazione pianificati, che andranno appunto definiti a inizio periodo e rivisti in modo dinamico.
- Allestimento di KPIs (indici di prestazione) che misurano in modo quantitativo e strutturato il raggiungimento degli obiettivi, sorta di “termometri” che rendono oggettiva la misurazione dei fenomeni in corso e della propria efficacia nel comunicare.
- Rilevazione costante degli hub principali, ascolto dedicato e gestione attiva degli influencer a vario livello, dai top ai micro.
- Sviluppo di sistemi di alert per cogliere sul nascere crisi e opportunità.
- Combinazione dei dati rilevati dai social con altri dati di origine interna (traffico sul sito web, indice di soddisfazione dei clienti, etc.) per la composizione di indici complessi.
È possibile dunque, in modo paradigmatico, definire dei “tipi”, degli stadi successivi di evoluzione che accompagnano il progressivo dispiegarsi di un’attenzione all’ascolto.
L’organizzazione immatura
- Prevale l’attività di comunicazione attiva e diretta rispetto a quella mediata dall’ascolto, che viene invece effettuata in modo casuale.
- I contenuti lanciati e la forma in cui vengono espressi sono analoghi a quelli utilizzati sui mezzi tradizionali.
- Si legge quello che viene postato sulle proprie pagine, ma difficilmente si risponde e si interagisce.
- Non vengono rilevati i trending topics, piuttosto si definisce unilateralmente quali saranno i contenuti del piano editoriale.
- Si privilegiano discorsi e contenuti relativi all’organizzazione stessa (in altre parole, si tende sempre e solo a parlare di sé).
- Non vengono effettuate analisi periodiche né definiti PI strutturati.
- C’è poca attenzione agli influencer.
- Le competenze su social e digitale sono appannaggio esclusivo di un reparto individuato, quando non di un singolo professionista incaricato.
L’organizzazione in progress
- L’analisi degli argomenti più dibattuti in rete viene effettuata periodicamente ed è la base per la continua evoluzione di un piano editoriale che associ i propri valori agli argomenti più popolari.
- L’interazione con chi interviene sulle pagine dell’organizzazione è continua e sistematica.
- Si cerca di rilevare le citazioni rilevanti effettuate in rete, e di interagire anche in quei casi.
- Sono stati definiti e vengono costantemente misurati dei KPI che concorrono anche alla elaborazione di analisi periodiche.
- Esistono alert immediati volti a cogliere la nascita di possibili crisi.
- Sono stati individuati influencer a vario livello, che vengono gestiti con un’attenzione dedicata.
- Esistono dei “champion” dei social e del digitale in diversi reparti dell’organizzazione, che collaborano tra di loro scambiandosi idee, competenze e compiti.
- L’organizzazione digital ready
Oltre agli elementi già citati:
- La comunicazione sui social è gestita da una struttura dedicata ma prevede il coinvolgimento di diversi membri dell’organizzazione, a diverso titolo.
- Le competenze sono diffuse all’interno dell’organizzazione, che ritiene che il dialogo continuo con gli utenti sui social sia punto qualificante e asse di gravitazione prioritario.
- Questo consente di utilizzare le conversazioni in atto sui social come innesco di diversi processi aziendali, dallo sviluppo dei nuovi prodotti alla cura della customer satisfaction.
- I dati relativi all’attività sui social vengono combinati con altre informazioni interne (traffico sul sito, chiamate al call center, vendite, etc.) per comporre una visione unica del rapporto dell’organizzazione con il proprio mercato.
- I propri dati e KPI vengono confrontati con quelli di benchmark specifici, concorrenti o altre organizzazioni di riferimento.
Conclusioni
C’è molta strada ancora da fare per affermare all’interno delle organizzazioni l’importanza dell’ascolto come base di qualunque iniziativa efficace di comunicazione. Il mondo è cambiato in modo rivoluzionario e le vecchie modalità di comunicazione seguono logiche del tutto diverse da quelle attuali. L’individuo è diventato protagonista, la rete è il nuovo paradigma universale, ogni persona vuole essere al centro del flusso, dello stream di informazioni, intervenendo attivamente nelle conversazioni in corso. In fondo siamo tutti parte di un unico flusso di tante conversazioni. Non riconoscerlo e rifugiarsi in modalità ormai desuete in cui a un unico soggetto attivo corrisponde una folla muta di ascoltatori, significa votarsi all’irrilevanza. Occorre piuttosto avere grandi orecchie più che grandi bocche, non “parlare a” ma “parlare con”; e garantirsi la coerenza con temi, argomenti e toni che sono determinanti dal flusso stesso e mai dalla decisione di un singolo soggetto.
La qualità è la nuova quantità. È necessario disporre di contenuti di qualità, rilevanti e specifici; ma occorre comprendere bene le dinamiche della rete che quei contenuti percorreranno. Occorre comprendere bene il concetto di “influenza” e sapere comporre reti che siano il risultato di mille piccoli e o grandi luci, ciascuna concorrente alla qualità e all’amplificazione del messaggio. È doveroso utilizzare i mezzi tecnologici più adeguati, per non essere sommersi dal volume enorme delle conversazioni in corso, e diventare noi stessi rumore di fondo. Ed è necessario avere le competenze tecniche per governare questi strumenti.
I periodi di cambiamento offrono enormi opportunità a chi li sa affrontare al meglio. Mai come oggi è possibile un dialogo diretto e intenso tra organizzazioni e cittadini, che crei valore, promuova la partecipazione e l’affiliazione, generi coinvolgimento e supporto reciproco. Questo percorso, per quanto lungo e complesso, parte da una focalizzazione su un ascolto attento e consapevole, principio e compagno di viaggio del cammino da compiere. Nelle parole della citazioni iniziale, occorre “distruggere il resto del mondo per concentrarsi su di lei”.
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L’approfondimento è contenuto nel libro “L’Italia che comunica in digitale”, edito da Bonanno Editore, realizzato dall’Osservatorio nazionale sulla Comunicazione Digitale