La rete è un ambiente favorevole alla diffusione del self-entrepreneur, l’imprenditore di sé stesso, figura dinamica che sa costruire un’impresa e una posizione puntando tutto su capacità, relazioni e risorse personali.
Di quell’impresa, oltre che l’artefice egli è anche il prodotto: i content creator digitali, ad esempio, propongono sul mercato brand o temi di cui sono testimonial ma intrecciandoli alla loro immagine, al loro carattere, alle loro relazioni.
Se l’imprenditore di Schumpeter era un innovatore che sfidava l’inerzia sociale e conquistava potere di mercato con un prodotto o un processo mai visto prima, l’imprenditore di sé stesso è un creativo che rompe il silenzio, chiedendo ad alta voce ai portatori di interesse di puntare gli occhi su quel che ha da esprimere perché lo ritiene innovativo.
La creatività come imperativo diffuso
Lo streamer, il tiktoker, lo youtuber e figure simili si danno il compito di tradurre la creatività in quotidianità, canalizzandola in pratiche costanti di pubblicazione che permettano di raggiungere un pubblico nella vastità dell’offerta disponibile.
Sono figure “creative per forza”, per usare una definizione presa in prestito dal titolo del saggio del sociologo Paolo Inno, recentemente pubblicato dal Meltemi. Il testo presenta una genealogia della figura dell’imprenditore di sé stesso e ricostruisce il percorso che ha portato la creatività da attributo eccezionale ad imperativo diffuso.
Il focus sono le politiche giovanili messe in atto dalle amministrazioni locali ma l’inquadramento teorico e gli strumenti concettuali si rivelano utili anche se trasferiti al mondo della produzione culturale digitale.
In entrambi i settori, infatti, la creatività si fa discorso passando da “capacità di persone speciali” a “speciale capacità di tutte le persone”. Monetizzare l’attimo, saper intervenire aggiungendo un elemento di originalità nel flusso delle conversazioni è il compito dell’utente che prende parola: in pochi sanno farlo spontaneamente, come la Ferragni raccontata dall’artista Francesco Vezzoli nel documentario “Unposted” (“Il mezzo è il suo talento”).
Gli altri, invece, possono sottoporsi ad un programma di trasformazione in amministratore unico della propria creatività, intesa non come talento ma come competenza o pratica.
La narrazione contemporanea converge sull’idea che la creatività sia una soluzione personale, un’attitudine per inventare il proprio destino e risolvere in via sperimentale le contraddizioni insite nei processi collettivi.
L’iniziativa privata individualizzata è un rimedio alla fuga dalle strutture, il mix di decadenza e sfiducia che avvolge istituzioni pubbliche o private in contrazione, apparentemente incapaci di rispondere ai bisogni materiali e spirituali di chi le abita.
Se nel mondo del lavoro in generale, questo significa normalizzare la creatività nell’ambito stretto di un problem solving senza tregua, nei consumi culturali l’imperativo si interpreta come ricerca del successo in un piano che inclina, però, inevitabilmente verso la sovraesposizione di quegli elementi che garantiscano il massimo risultato nell’interazione comunicativa. Questo significa mettere a valore il corpo, le emozioni, le relazioni, i luoghi, cioè trasformare in prodotto o in rappresentazione gli aspetti più intimi dell’esistenza.
La pervasività della logica di produzione
Il contenuto di un lavoro sempre più immateriale ed estetizzato, infatti, non destruttura solo l’asse biografico ma anche le tradizionali linee di demarcazione tra lavoro e non lavoro. Nel libro di Inno, le testimonianze raccolte dai giovani imprenditori di sé stessi intervistati raccontano della rottura della membrana che separa lavoro, tempo libero e vita personale: il senso di confisca del tempo, il tentativo costante di colmare la densità dell’impegno con l’accento consolatorio sulla passione, la vocazione, il riconoscimento sociale. Le case diventano uffici, le reti sociali equivalgono a reti strategiche, le parentele o le amicizie a contatti strumentali che si ampliano o diminuiscono in base alla congiuntura.
Si azzerano gli spazi liberi in cui affrancarsi dalle logiche della produzione, nonostante le risorse psicologiche e cognitive debbano essere sempre rinnovate per reggere l’urto di una relazione con competitor e community che non può interrompersi.
La creatività coatta ha come implicazione la precarietà esistenziale, la rinuncia al consolidamento delle certezze. Allo stesso modo, il content creator sembra chiamato a stimolare la capacità innovativa al di là di qualsiasi scansione centralizzata del tempo di lavoro. Esprime un’etica del lavoro in cui ogni momento è un seme di potenziale produttività.
l creator chiede a sé stesso di donarsi completamente alla rete perché è nell’espressione della personalità che risiede la principale risorsa, è nella presupposta “autenticità” del proprio percorso individuale, nella composizione unica e irripetibile del prodotto “sé stessi” che ci si rende indispensabili, anche di fronte al montare degli haters.
Il lato oscuro: chi perde, perde tutto
Il lavoro creativo, quindi, non costringe più il soggetto nei limiti meccanici delle burocrazie ma sembra comunque attuare un’alienazione di segno opposto che invece di reificare il soggetto nel prodotto del suo lavoro, trasforma in prodotto direttamente le componenti della sua personalità.
Conseguenza diretta di questo investimento su sé stessi, nella sproporzione di un’arena di contesa rigidamente in mano alle piattaforme, è che l’eventuale fallimento ricadrà interamente sulle spalle del soggetto prodotto del suo lavoro. La commistione tra pubblico e privato spinge chi perde a perdere tutto, a vivere la sconfitta come personale, lasciando che l’incertezza di condizioni sistemiche sia declinata come una défaillance nell’identità.
Il lato oscuro della creatività è il senso di inadeguatezza ad affrontare condizioni costantemente mutevoli, lo sfondo dell’insorgere del burn out. Quest’ultimo potrebbe essere inquadrato come un rischio del mestiere, in fondo scelto liberamente di chi vuole intraprendere la strada dell’autoimprenditoria.
Il calcolo, però, non tiene conto del peso della retorica dominante che impasta sfiducia nelle istituzioni ed esaltazione del soggetto nel deviare verso quella strada anche chi per inclinazioni e formazione potrebbe cercare altrove la propria realizzazione.
Resta da capire quante implosioni saranno necessarie per incrinare il discorso individualistico della creatività e per convincere le istituzioni pubbliche a ritrovare il senso del loro ruolo nell’occuparsi di chi, per ragioni socioeconomico-culturali, creativo non può permettersi di essere.