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Contenuti illegali, così i Governi vogliono cambiare internet: ecco tutte le nuove leggi

I Governi di molti Paesi cominciano a lanciare iniziative per contrastare fake news e contenuti illegali, ma gli approcci non tengono conto che la tecnologia evolve molto più rapidamente delle norme e che bisogna agire a livello globale. Vediamo nel dettaglio la proposta britannica e come si muovono altri Stati

Pubblicato il 19 Apr 2019

Davide Giribaldi

Chief Information Security Officer SMI Technologies and Consulting

fake-news

Le regole alla base di internet devono cambiare: soprattutto dopo lo scandalo Cambridge Analytica e gli episodi di Christchurch, molti Governi di molti Paesi nel mondo hanno adottato questa posizione. Stanno avviando una serie di iniziative volte a tentare di regolamentare gli OTT per arginare la diffusione di fake news o contenuti illegali in genere (dal terrorismo al cyberbullismo).

Ci stanno provando il Regno Unito, Germania e la Francia, ma anche gli Usa, la Russia, Singapore, in varissimo modo. Si può dire che molti di loro stanno sperimentando una “terza” via di regolamentazione tra la censura forte cinese (a cui vi si avvicina la Russia e ora anche Singapore) e il “lasciar fare” made in USA, dove è nato il principio-norma (fondante di internet come l’abbiamo conosciuta finora) secondo cui i siti e i social non sono immediatamente responsabili dei contenuti pubblicati dai propri utenti.

Si tratta tuttavia, quasi sempre, di tentativi che al meglio risultano di difficile realizzazione (come quello UK con il rapporto Online Harms, dove la situazione è resa ancora più complicata dall’attuale situazione politica), al peggio sconfinano nella censura (Singapore/Russia).

C’è qualcosa, comunque, che accomuna questi approcci, e sono i fattori che non vengono presi in considerazione, e sono (almeno) due: non viene, ad esempio, considerato che tecnologia e norme viaggiano a velocità molto diverse e le norme, quindi, una volta promulgate rischiano di essere superate dallo stato dell’arte della tecnologia. Per ottenere la massima efficacia in termini di contrasto, bisognerebbe inoltre puntare su una regolamentazione globale, un po’ come quella che si prova a fare con l’intelligenza artificiale, altrimenti si rischia di fare solo un buco nell’acqua.

Esaminiamo allora gli approcci dei diversi Governi, a partire da quello britannico.

Online harms, la proposta UK per le regole internet

Il governo britannico ha pubblicato da alcuni giorni “Online Harms” il white paper contenente le proposte sulla regolamentazione degli OTT che segna, perlomeno in linea teorica, la fine di un certo modo di interpretare internet.

Il documento è sicuramente ambizioso e ruota intorno alla creazione di un’autorità indipendente che dovrà occuparsi della vigilanza sulla rimozione dei contenuti dannosi pubblicati dai social media, dai sistemi di messaging e dai blog, attraverso azioni incisive che potranno svilupparsi tramite l’inibizione dei contenuti passando per il blocco delle piattaforme fino all’individuazione di responsabilità penali personali ed all’interno di un perimetro di azione estremamente ampio, ma presenta a mio avviso alcuni elementi di criticità che ne renderanno difficile la sua conversione in legge.

Secondo il documento sarà possibile perseguire tutti i siti (social network, blog e motori di ricerca) che ospiteranno contenuti illegali come ad esempio abusi, violenze, istigazione al suicidio, propaganda terroristica e/o contenuti dannosi o inaccettabili come la diffusione di fake news, la diffamazione o il cyberbullismo. Se nel primo caso sarà sufficiente estendere il dominio dell’attuale quadro normativo alle attività on line, per i contenuti dannosi si rischia di aprire una pericolosa zona grigia in grado di minare pesantemente la libertà di espressione e sfociare in una censura di Stato che è agli antipodi rispetto ai fondamenti della cultura britannica.

La proposta prevede inoltre che la titolarità della vigilanza spetti ad un’autorità indipendente dotata dei più ampi poteri sanzionatori, ma non si comprende perché debba essere istituito un terzo ente e non sia possibile dotare degli stessi poteri l’Autorità garante per le telecomunicazioni (OFCOM) o meglio ancora la stessa ICO, Autorità garante istituita per difendere i diritti di informazione nell’interesse pubblico, che già si occupa di vigilare sul rispetto dell’applicazione del GDPR nel Regno Unito.

Come se non bastasse, i criteri d’azione proposti pur essendo assolutamente sostenibili, potrebbero sembrare di difficile realizzazione, infatti il cosiddetto obbligo di diligenza si realizzerebbe attraverso 4 azioni distinte:

  • costringere i social media a pubblicare periodici rapporti di trasparenza,
  • l’adozione di codici di condotta mirati a contenere la disinformazione soprattutto durante il periodo elettorale,
  • la realizzazione di sistemi sicuri by design
  • la realizzazione di precise strategie di “educazione” degli utenti a riconoscere i contenuti dannosi.

Tutta questa serie di indicazioni condivisibili negli intenti, andrebbero poi a scontrarsi con altre due questioni che non emergono dal documento:

  • la prima riguarda gli effetti collaterali che potrebbero subire le piattaforme di minore dimensione o i blog d’informazione, che probabilmente non avrebbero le risorse necessarie ad affrontare un simile cambiamento,
  • la seconda è che non si tiene minimamente in considerazione il fatto che soprattutto per la lotta ai crimini più gravi le informazioni che emergono in chiaro sono solo l’infinitesima parte di quelle che popolano il cosiddetto dark web, comunque non controllabile in alcun modo da questo tipo di proposte.

Le leggi internet in Australia e Singapore

Indipendentemente dal tentativo del governo britannico e dal suo possibile esito, è chiaro che la diffusione di contenuti sul web ha determinato una nuova coscienza e a partire dallo scandalo Cambridge Analytica fino all’attacco terroristico accaduto poche settimane fa in Nuova Zelanda (Christchurch), risulta chiaro che si sia raggiunto un punto di non ritorno che sta costringendo i governi di molti paesi a prendere posizioni alcune delle quali particolarmente aggressive.

Così Singapore  ha proposto una legge di contrasto alle fake news che raggiunge livelli di censura molto alti in quanto è sufficiente la richiesta di un ministro per procedere alla rimozione di contenuti od al blocco delle piattaforme che lo pubblicano.

In Australia invece una nuova legge stabilisce multe molto forti per social media e aziende di web hosting, e la prigione per i loro manager, se non rimuovono subito contenuti violenti.

Russia

Sullo stesso livello preoccupante, si colloca la legge russa sulla protezione di internet dalle ingerenze dei server stranieri secondo la quale sarà possibile tagliare il traffico proveniente da oltre i confini nazionali con lo scopo di creare una sorta di internet sovrana.

Con possibilità di bloccare i siti che non rimuovono informazioni false e multare gli individui responsabili di averle fatte circolare.

Germania

Da gennaio è in vigore una legge che obbliga i social media a rimuovere entro 24 ore (pena una multa di 50 milione di euro) contenuti illegali come hate speech, terrorismo, pedopornografia, fake news.

Francia

La Francia, attraverso il Ministro per il digitale ha invece adottato un atteggiamento “tecnicamente” più prudente convocando Facebook ad un tavolo di lavoro dal quale dovrebbero emergere soluzioni di contrasto ai contenuti dannosi senza però evidenziare alcuna strategia di realizzazione. Al momento sono in vigore due nuove leggi contro le fake news nella propaganda elettorale: permettono a un candidato o a un partito di ottenere da un giudice il blocco della pubblicazione di informazioni false e al Governo francese di mettere offline qualsiasi network che le deliberatamente diffonda.

Unione europea

Più prudente anche la posizione dell’UE, dove al momento è al Parlamento una proposta legislativa che obbligherebbe i siti a rimuovere entro un’ora i contenuti terroristici.

Stati Uniti

Sicuramente più interessanti sono le proposte di legge che arrivano dagli USA. Una per proibire lo sviluppo e la diffusione di app ingannevoli per i minori di 13 anni e la seconda per impedire alle social media companies di adottare i cosiddetti “dark patterns” ovvero approcci ingannevoli nei confronti degli utenti.

Sono quelle tecniche che mirano a indurli a diffondere contenuti attraverso forme di engagement virale che violano in maniera più o meno occulta la loro autonomia decisionale.

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