Una continua attività di confronto con i consigli di fabbrica, 165 interviste a lavoratori/lavoratrici e 22 interviste a manager di 8 imprese metalmeccaniche di Bologna[1]:“Il lavoro operaio digitalizzato. Inchiesta nell’industria metalmeccanica bolognese”, a cura di Francesco Garibaldo e Matteo Rinaldini (Il Mulino, 2022), riporta i risultati di una ricerca collettiva commissionata dalla FIOM CGIL di Bologna alla Fondazione “Claudio Sabattini”.
Il difficile compito dei sindacati nell’era digitale: azioni, interventi e strumenti negoziali
Obiettivo della ricerca: fare luce sulle trasformazioni organizzative e delle condizioni di lavoro che si accompagnano alle innovazioni tecnologiche riconducibili ad “Industria 4.0” recentemente avvenute e tuttora in corso[2] nell’industria metalmeccanica del territorio bolognese.
Il progetto si inserisce in una lunga tradizione di ricerche del sindacato bolognese basate su metodologie di coinvolgimento diretto delle lavoratrici e dei lavoratori e delle loro rappresentanze aziendali.
I presupposti generali della ricerca
La ricerca, coerentemente ad una tradizione di “inchiesta sociale” a cui si richiama esplicitamente, ha deliberatamente evitato di assumere ipotesi forti, salvo alcuni precisi presupposti generali.
In primo luogo, gli artefatti tecnologici riconducibili a “Industria 4.0” sono molteplici ed eterogenei e ricadono sotto la definizione ‘cappello’ di “digitalizzazione e automazione di nuova generazione”. Nonostante sia evidente la linea di continuità tra tali artefatti e quelli delle precedenti ondate di innovazione tecnologica, Industria 4.0 si contraddistingue per la capacità di combinazione delle tecnologie Big Data, l’uso estensivo e intensivo di Internet of Things (IoT) e la messa in opera del Cloud Computing.
In secondo luogo, esplicito è il rifiuto di una prospettiva di “determinismo tecnologico” che deriva le trasformazioni organizzative e delle condizioni di lavoro da supposte proprietà intrinseche delle tecnologie.
Allo stesso tempo, esplicito è il riconoscimento delle proprietà dispositive degli artefatti tecnologici, da intendersi come spazi di possibilità che le tecnologie (la loro progettazione e il loro utilizzo) aprono/limitano per l’azione organizzativa a livello micro, meso e macro.
In terzo luogo, chiara è l’assunzione di una prospettiva che esclude la possibilità di studiare la tecnologia separatamente dal contesto organizzativo e istituzionale in cui è collocata e la conseguente adozione del concetto di “pratiche tecnologiche” nonché la focalizzazione della dimensione istituzionale in cui queste sono collocate.
In quarto luogo, orienta la trattazione l’idea che le tecnologie riconducibili a Industria 4.0 e i sistemi di Lean Production (il mainstream organizzativo attuale), al di là delle contraddizioni che possono generarsi durante la loro implementazione, siano per lo meno integrabili tra loro.
I risultati principali della ricerca
Il libro, quindi, riporta quanto si è potuto comprendere attraverso la metodologia di ascolto delle soggettività dei lavoratori e delle lavoratrici esposti alla doppia trasformazione organizzativa (i sistemi lean e ad alta prestazione) e tecnologica (Industria 4.0).
Pur nel rispetto delle specificità che presentano le diverse realtà di impresa coinvolte nella ricerca, è possibile identificare alcune traiettorie comuni che sono emerse dall’analisi.
In tutte le imprese coinvolte nella ricerca l’introduzione delle nuove tecnologie si accompagna, anche se in diverso modo e in diversa misura, a processi di standardizzazione delle attività lavorative, di intensificazione dei ritmi lavorativi, di riconfigurazione delle gerarchie interne, di trasformazione delle competenze degli operatori non necessariamente verso «l’alto», di diffusione di sistemi di rewarding (o sanzionatori) sul piano individuale e di monitoraggio della prestazione individuale sempre più stringenti e pervasivi[3].
Allo stesso tempo, la ricerca evidenzia anche significativi miglioramenti degli ambienti lavorativi sul piano della salute e sicurezza e dell’ergonomia delle postazioni e degli strumenti di lavoro[4].
Inoltre, nel caso di alcune specifiche figure professionali, anche dei reparti di produzione, si è certamente verificato un aumento di responsabilità e un parallelo incremento dello spazio di discrezionalità per lo svolgimento dell’attività lavorativa, a cui, tuttavia, non sembra corrispondere un aumento dell’autonomia, intesa come capacità di regolare (nei modi e nei contenuti) il proprio processo di lavoro.
Nonostante l’evidente incremento dell’adozione delle tecnologie 4.0 lungo i processi produttivi di tutte le imprese studiate, risulta evidente l’importanza che continua a rivestire la componente umana nel processo di lavoro, la sua capacità critica di azione e decisione, senza la quale “la macchina si fermerebbe”, con buona pace dell’idea della “fabbrica a luci spente” che tanto ha affascinato e, in certa misura, continua ancora ad affascinare alcuni mondi di intellettuali e studiosi[5].
Conclusioni
Le descrizioni delle condizioni di lavoro e dell’organizzazione del lavoro raccolte e analizzate fanno giustizia di un’idea distopica delle trasformazioni in corso, senza che ciò renda meno forte una loro valutazione critica, aprendo così la strada ad una assai opportuna riflessione propositiva.
Valutazione critica e riflessione propositiva sono rese possibili dal presupposto generale da cui ha preso le mosse la ricerca, ovvero l’assunzione non deterministica della tecnologia.
È solo a partire da qui, infatti, che è possibile porsi alcune domande non nuove – e fondamentali – sulla relazione tra tecnologia, organizzazione del lavoro e sindacato, ma certamente riattualizzate da questo periodo di transizione tecnologica: è di pertinenza del sindacato la contrattazione della tecnologia? Se sì, quale tipo di contrattazione? Ѐ compito dei delegati e delle delegate negoziare il processo di lavoro mediato dalla tecnologia? La contrattazione sulla tecnologia riapre spazi d’azione e rifunzionalizzazione del sindacato? Se sì, in che senso e in quali direzioni?
Non si tratta evidentemente di domande che hanno una facile risposta, ma certamente è decisivo porsele se si hanno a cuore la qualità del lavoro e la qualità di vita di lavoratori e lavoratrici, nonché la critica di ogni forma di sfruttamento e di disumanizzazione del lavoro[6].
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Note e bibliografia
- Lamborghini, Ducati, GD, IMA, Marchesini, Samp, Cesab-Toyota, Bonfiglioli ↑
- Per un quadro d’insieme si possono vedere M. Lombardi, “Fabbrica 4.0: i processi innovativi nel multiverso fisico-digitale”, Firenze, Firenze University Press, 2017; Aa.Vv., “La fabbrica connessa: la manifattura italiana (attra)verso industria 4.0”, prefazione di E. Catania, postfazione di G. Viscardi, Milano, Guerini e Associati, 2017; A. Magone, T. Mazali, “Il lavoro che serve: persone nell’industria 4.0”, postfazione di G. Saracco, Milano, Guerini, 2018; M. Giannini (a cura di), “Industria 4.0: attualità e prospettive”, Pisa, Pacini, 2020; G. Potti, “Industria 4.0: storia di macchine e di uomini”, Milano, Ares, 2020; R. Mavilia, R. Pisani, “Gli effetti di Industria 4.0 sulla trasformazione digitale”, prefazione di S. Vicari, Milano, Egea, 2020; A.R. Gurrieri (a cura di), “La digitalizzazione delle imprese: nuove prospettive nell’era di Industria 4.0”, Torino, Giappichelli, 2021.Per uno sguardo a partire dalla prospettiva di lavoratori e lavoratrici si veda M. Gaddi, “Industria 4.0: più liberi o più sfruttati? L’industria 4.0 vista da chi lavora nelle aziende metalmeccaniche di Milano e Provincia”, prefazione di R. Turi, Milano, Punto Rosso, 2019. Uno sguardo critico è certamente quello che orienta A. Obino, “Risorse – umani 4.0: perché Industria 4.0 e l’avvento dell’Era digitale ci rendono sempre più risorse e sempre meno umani”, Roma, Castelvecchi, 2018. ↑
- Oltre al fortunato S. Zuboff, “Il capitalismo della sorveglianza: il futuro dell’umanità nell’era dei nuovi poteri”, Roma, LUISS University Press, 2019, cfr., a titolo esemplificativo, A. Moro, M. Rinaldini, J. Staccioli, M.E., Virgillito, “Control in the era of surveillance capitalism: an empirical investigation of Italian Industry 4.0 factories”, in «Journal of Industrial and Business Economics», 46, n. 3, 2019, pp. 347-360.↑
- Sulla qualità del lavoro nel contesto digitale, e su come essa dipenda da come il lavoro è concepito, contrattato e organizzato, si veda A. Aloisi, V. De Stefano, “Il tuo capo è un algoritmo. Contro il lavoro disumano”, Roma-Bari, Laterza, 2018. Per alcuni spunti d’analisi si possono vedere anche M. Faioli, “Mansioni e macchina intelligente”, Torino, Giappichelli, 2018; I. Senatori, “Remoto” e “multilocale”: l’impatto della trasformazione digitale nei mondi del lavoro, in Th. Casadei, S. Pietropaoli (a cura di), “Diritto e tecnologie informatiche. Questioni di informatica giuridica, prospettive istituzionali e sfide sociali”, Milano, Wolters Kluwer, 2021, pp. 91-104. ↑
- L’immagine della “lights-out production” (fabbrica a luci spente) ha conosciuto grande diffusione grazie a Jeremy Rifkin e al suo libro “La fine del lavoro. Il declino della forza lavoro globale e l’avvento dell’era del post-mercato” (Milano, Baldini&Castoldi, 1995), ma se Rifkin è forse l’esempio recente più eclatante, non è stato certamente il primo, né tanto meno l’ultimo a teorizzare la sostituzione “totale” del lavoro umano ad opera della tecnologia.In misura e forme diverse anche la pubblicistica successiva fino a quella attuale (si pensi a Martin Ford, “Il futuro senza lavoro”, Milano, il Saggiatore, 2017 o a Paul Mason, “PostCapitalismo”, Il Saggiatore, 2015) è fortemente animata da questa suggestione e parte della letteratura scientifica (e non solo divulgativa) di carattere socioeconomico ragiona delle nuove tecnologie in termini sostitutivi (Mckinsey & Company periodicamente pubblica rapporti su questo tema), non arrivando magari a sostenere proprio che si arriverà al “buio in fabbrica”, ma arrivando a sostenere, proseguendo una metafora che si vorrebbe si tramutasse in realtà, che dentro la fabbrica del futuro ci sarà al massimo una lanterna per permettere ai pochi lavoratori residui di vedere quel che resta dei processi all’interno della struttura.Va aggiunto che quest’idea è diffusa sia negli “apologeti” del progresso tecnologico sia nei “catastrofisti”, tanto nelle posizioni neoliberiste, quanto in una certa sinistra critica (si pensi, in particolare, a certe letture deterministiche diffuse tanto in passato quanto oggi, del pensiero marxiano, ma anche alla contrapposizione, centrale negli anni Settanta del Novecento, tra “liberazione del lavoro” e “liberazione dal lavoro”).
Si tratta del resto di una questione dalle radici profonde. Andando indietro nel tempo e prendendo in considerazione i classici del pensiero economico, sociale, organizzativo, politico, si tratta di una suggestione ricorrente: si pensi, a titolo esemplificativo a John M. Keynes (1883-1946) e alla “disoccupazione tecnologica” (che, a suo avviso, rappresentava una “fase temporanea di disadattamento”) o al fondatore della “Scuola delle risorse umane” Elton Mayo (1880-1949) e alla sua idea di uno sviluppo tecnologico che sostituisse i lavoratori.
Ringrazio Matteo Rinaldini che in un dialogo per me assai proficuo mi ha illustrato gli aspetti essenziali di questo dibattito, di cui si dà in parte conto nel secondo capitolo del libro. ↑
- Su questi aspetti e su una prospettiva di rilancio del diritto della contrattazione collettiva sono certamente suggestive le pagine di Alain Supiot, “La sovranità del limite. Giustizia, lavoro e ambiente nell’orizzonte della mondializzazione”, a cura di A. Allamprese, L. D’Ambrosio, postfazione di O. De Leonardis, Milano-Udine, Mimesis, 2020, in part. pp. 71-102. Sulle logiche economiche della società plasmata dalle piattaforme digitali e sui loro effetti in termini di sfruttamento si può vedere A.A. Casilli, “Schiavi del clic. Perché lavoriamo tutti per il nuovo capitalismo?”, Milano, Feltrinelli, 2020. Cfr., anche, M. Marrone, “Rights Against the Machines! Il lavoro digitale e le lotte dei rider,” prefazione di F. Chicchi, Milano-Udine, Mimesis, 2021.↑