rischio burnout

Contro l’infelicità da lavoro serve una nuova cultura aziendale: come costruirla

Lo smart working sì o no non è il vero problema che le moderne organizzazioni (ma anche i nostri governi) devono affrontare, il tema è più ampio su come affrontiamo un malessere sociale diffuso.

Pubblicato il 07 Dic 2022

Paolino Madotto

manager esperto di innovazione, blogger e autore del podcast Radio Innovazione

burnout

Nel post-pandemia sono diventati di uso comune termini come smartworking, “Great Resignation”, “burnout”, “quiet quitting”. Le aziende fanno sempre più fatica ad assumere e trovare personale e sempre più spesso devono offrire modalità di lavoro ibrido per attrarre i candidati, soprattutto quello più preparato.

Sembra, insomma, che l’epidemia di covid abbia fatto scoppiare un’altra “epidemia” più subdola a cui a prima vista è difficile dare una spiegazione. Una delle letture di questo fenomeno è quella di una scarsa voglia di lavorare: anche lo smart working è stato accusato di essere uno strumento ad uso dei “fannulloni”, anche se i dati dicono il contrario visto tutte le recenti indagini dimostrano un aumento della produttività con il lavoro ibrido.

Battling Burnout with Just the Right Type of Compassion

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Eppure, guardando meglio il fenomeno si intravede una possibile spiegazione nella necessità di ridisegnare i comportamenti nelle organizzazioni, offrire flessibilità a chi lavora, eliminare le figure di manageriali negative che usano il loro potere per stressare le persone, esercitare un controllo eccessivo o metterle nelle condizioni di sudditanza più che coordinarle nelle attività.

Le figure manageriali e l’intera attività organizzativa dovrebbero vedere i “knowledge workers” come le componenti più importanti per costruire servizi e prodotti innovativi, eliminare gli ambienti sociali tossici, e occuparsi di più delle persone e dell’ambiente in cui esse vivono.

Come e perché cresce l’infelicità: l’indagine Gallup

Una recente analisi dell’istituto Gallup ci dice che nelle nostre società sta crescendo sempre più l’infelicità. Nel 2006 Gallup ha iniziato a misurare il benessere soggettivo in modo periodico per comprendere come stava andando la vita dei cittadini dal loro punto di vista.

Figura 1 La crescita globale dell’infelicità

Come si nota, l’indice ha cominciato a crescere e non sembra fermarsi. Esiste nelle nostre società un malessere sempre più alto che porta insoddisfazione. Gallup nota che è anche aumentato il divario tra chi è soddisfatto e che non lo è.

Nel 2006, quando Gallup ha iniziato la rilevazione, il 3,4% delle persone dichiarato che la propria vita era un 10, la migliore vita possibile, e solo l’1,6% ha affermato che la propria vita era zero, la peggiore vita possibile.

Dopo 15 anni di monitoraggio, quei numeri sono cambiati in modo significativo. Il numero di persone che vivono la loro vita migliore è più che raddoppiato (al 7,4%), mentre il numero di persone che vivono la loro vita peggiore è più che quadruplicato (al 7,6%).

Nell’indagine, sempre di Gallup, “State of the global workplace – 2022 Report”, il prestigioso istituto di indagine è andato ad esaminare come si vive nei luoghi di lavoro.

Dal rapporto sui luoghi di lavoro emerge che il 44% degli intervistati sperimenta stress e che stress e preoccupazione sono cresciuti anche rispetto al pre-pandemia.

Figura 2 le emozioni negative sul luogo del lavoro

Lo stress sui luoghi di lavoro ha raggiunto il suo apice

Quando misura il benessere, Gallup, pone agli intervistati due domande: 1) come valutano la loro vita attuale e 2) come si aspettano che la loro vita sia tra cinque anni. Nel sud-est asiatico e in Europa, entrambe queste valutazioni sono diminuite. Ciò significa che non solo i lavoratori di queste regioni hanno sentito che la loro vita attuale era peggiore, ma anche la loro speranza per il futuro è diminuita. Inoltre, i problemi di salute segnalati sono aumentati di 4 punti percentuali in Europa, anche se sono diminuiti nella maggior parte delle regioni del mondo, sempre secondo un’ulteriore ricerca Gallup.

Un altro indicatore rilevante nell’indagine di Gallup è l’impegno (engagement) e il benessere. L’impegno e il benessere interagiscono tra loro in modo rilevante. Spesso pensiamo all’impegno come a qualcosa che accade al lavoro e al benessere come a qualcosa che accade al di fuori del lavoro, ma l’analisi di Gallup suggerisce che si tratta di una falsa dicotomia. Il modo in cui le persone sperimentano il lavoro influenza la loro vita al di fuori del lavoro. Dipendenti che sperimentano costantemente alti livelli di burnout sul lavoro affermano che il loro lavoro rende difficile adempiere alle loro responsabilità familiari. Hanno anche il 23% in più di probabilità di finire al pronto soccorso.

Il benessere generale influenza la vita sul lavoro. I dipendenti che sono impegnati al lavoro ma non crescono in termini di carriera o riconoscimenti hanno una probabilità maggiore del 61% di burnout continuativo rispetto a quelli che sono impegnati e soddisfatti.

I dati dicono che a livello globale l’engagement è al 21%, negli Usa al 33%, in Europa al 14%. In Italia (dati Politecnico di Milano) 11%, cresciuto rispetto al 7% del 2021. Il report ci dice anche che in Europa è calato del 5% l’indicatore di benessere.

Gallup ci dice che lo stress sui luoghi di lavoro ha raggiunto il suo apice.

Figura 3 Stress nei luoghi di lavoro (Gallup)

Gallup afferma che le organizzazioni dovrebbero curare tutta la persona, non solo il lavoratore in quanto tale. Le Direzioni aziendali dovrebbero aggiungere misure di benessere ai loro indicatori di direzione. Dovrebbero dare la priorità al benessere dei dipendenti come parte integrante della vita aziendale. Quando le aziende si assumono la responsabilità del benessere dei loro lavoratori il risultato non sono solo organizzazioni più produttive, ma individui, famiglie e comunità soddisfatte.

Anche gli executive piangono

Un altro studio interessante è quello del Future Forum, in questo studio intitolato “Executives feel the strain of leading in the ‘new normal’” viene analizzato con cadenza periodica viene analizzato il sentimento dei dipendenti e della cosiddetta “C-suite” (i livelli manageriali più elevati).

In questa indagine gli intervistati sono tutti impiegati a tempo pieno (30 o più ore alla settimana) e hanno uno dei ruoli elencati di seguito o hanno dichiarato che “lavorano con i dati, analizzano le informazioni o pensano in modo creativo”: gestione esecutiva (ad esempio presidente/partner, CEO, C-suite, C-suite), senior management (ad esempio vicepresidente esecutivo, senior VP), middle management (ad esempio responsabile di settore o gruppi). Per brevità, l’indagine si riferisce alla popolazione del sondaggio come “desk-based” o “desk-workers”.

L’educazione che serve contro i vizi della cultura ipertecnologica

Tra gli executives la soddisfazione nel lavoro è calata del 15% e l’indagine indica che il 20% ha una peggiore work-life balance e il 40% una maggiore ansia e stress sul lavoro.

Il burnout è incrementato a livello internazionale del 40% in questo periodo (ottobre 2022), in quello di maggio del 8%, il 49% della fascia 18-29 vive il burnout paragonato al 38% tra quelli maggiori di 30 anni.

Il dato interessante è che quelli che hanno una maggiore flessibilità sul lavoro (di orario e in generale) sperimentano una maggiore produttività del 29% e una maggiore capacità di focalizzazione sul lavoro (53%) e maggiore capacità di rispettare le scadenze.

Chi lavora in modalità ibrida o remota si sente maggiormente connesso ai suoi manager e ai valori dell’azienda. Il lavoro ibrido è citato come il principale fattore di sviluppo della cultura aziendale dei passati due anni.

La tendenza al ribasso del sentimento della C-suite è presente tra i dirigenti delle piccole e medie imprese, ma è ancora più pronunciata tra i dirigenti di organizzazioni con più di 1.000 dipendenti.

Analizzando ulteriormente i dati in base al livello professionale, lo studio rivela che i team leader stanno faticando ma mantengono le posizioni precedenti. I dirigenti hanno mostrato il più grande calo del sentimento nei confronti dell’azienda in quest’ultimo anno, malgrado abbiano complessivamente ancora livelli più alti rispetto ai dirigenti senior, ai middle manager e ai singoli collaboratori. I leader che vedono livelli più bassi di sentimento ed esperienza sul lavoro sono i middle manager, in particolare i middle manager delle aziende di grandi dimensioni, che mostrano livelli più bassi per l’equilibrio tra lavoro e vita privata insieme ai più alti livelli di stress e ansia.

I risultati del Future Forum mostrano che i dirigenti e i non dirigenti stanno andando verso il lavoro ibrido, con il 65% di tutti i lavoratori che afferma che preferirebbe lavorare parte del tempo dall’ufficio e in parte del tempo da remoto.

Mentre entrambi i gruppi vogliono un approccio ibrido, i dirigenti vogliono trascorrere più tempo in ufficio e meno tempo da remoto, mentre il contrario è vero per i non dirigenti. Quasi il doppio dei dirigenti (38%) afferma che preferirebbero lavorare dall’ufficio da tre a quattro giorni alla settimana, rispetto al 24% dei non dirigenti. E i non dirigenti hanno espresso più di tre volte di più di voler lavorare completamente da remoto rispetto ai loro capi.

Lo smart working aumenta la produttività

Gli individui coinvolti nell’indagine e che lavorano in smart working hanno visto incrementare del 6% anno su anno della produttività, dell’11% l’equilibrio tra lavoro e vita privata, il 12% in più la soddisfazione complessiva per il lavoro e hanno vissuto il 25% in meno di stress e ansia.

L’indagine svela che molti dirigenti di alto livello credono anche che promuovere i legami tra i dipendenti e costruire una cultura organizzativa possa essere fatto solo di persona, in un ufficio. Il 25% dei dirigenti intervistati ha dichiarato che offrire ai dipendenti maggiore flessibilità è il maggior rischio di influenza negativa della cultura del team. E rispetto ai non dirigenti, i dirigenti danno più del doppio di importanza agli incontri di persona con la direzione e hanno maggiori probabilità di valutare positivamente le riunioni di persona. Una visione molto diversa da quella delle altre figure.

Nonostante le preoccupazioni che il lavoro flessibile crei danni al legame con i dipendenti, i nuovi dati dimostrano che non è vero. I lavoratori remoti e ibridi hanno ugualmente o più probabilità di sentirsi legati ai loro gruppi di lavoro più vicini come i lavoratori completamente in ufficio. È anche più probabile che si sentano collegati al loro manager diretto e ai valori della loro azienda.

I numeri e le ragioni della Great Resignation

L’errata percezione dei dirigenti sulla produttività dei lavoratori, sempre secondo lo studio, potrebbe avere conseguenze disastrose. I dati del report rileva che le “Grandi Dimissioni” non mostra segni di rallentamento. Il numero di lavoratori che affermano che probabilmente cercheranno un nuovo lavoro nel prossimo anno è passato dal 55% al 57% in questo trimestre.

Figura 4 i livelli di barnout a livello globale

Il burnout a livello globale è in forte crescita. Il management dovrebbero tenerne conto poiché esso è strettamente associato al deterioramento dell’esperienza dei dipendenti, alla mancanza di impregno e all’aumento della conflittualità:

● I dipendenti che sono esauriti segnalano stress e ansia sul lavoro 22 volte maggiore rispetto ai dipendenti che non lo sono;

● Il burnout è strettamente associato al degrado delle prestazioni dei dipendenti, tra cui il 32% di produttività e il 60% di capacità di concentrazione minore;

le persone in burnout si sentono molto meno legate. Hanno 2 volte più probabilità di sentirsi lontane dai valori aziendali, dai manager diretti, dal loro team e dalla direzione aziendale;

Il burnout è un importante fattore di conflitto con l’azienda. Le persone che sono esaurite riferiscono di avere 3 volte più probabilità di cercare un nuovo lavoro nel prossimo anno.

L’80% dei lavoratori ha dichiarato di volere maggiore flessibilità di luogo e il 94% di orario. I lavoratori che hanno flessibilità hanno dichiarato di avere il 26% in meno di probabilità di andare in burnout.

Il report conclude che “non puoi ideare strategie future-of-work guardando al passato. Il futuro del lavoro è flessibile, inclusivo e connesso e i dipendenti richiedono ambienti di lavoro che promuovano la capacità di lavorare insieme tra località e fusi orari. I dirigenti che abbracciano il cambiamento delle aspettative sul posto di lavoro guidando con fiducia e trasparenza formeranno un futuro più produttivo e più appagante che sia migliore per le loro persone e le loro imprese.”

Questi dati di studi internazionali confermano ciò che emerge dalle indagini nazionali quali quella del Politecnico di Milano dove emerge chiaramente che i lavoratori hanno maggior benessere organizzativo, work life balance e maggiore produttività all’aumentare della flessibilità di orario e luogo di lavoro.

Figura 5 dati Politecnico di Milano

Il fenomeno del Quiet Quitting

Un altro dato rilevante del malessere che si vive sul luogo del lavoro è il fenomeno del “quiet quitting. I lavoratori sempre più spesso combattono il malessere limitandosi a fare solo ciò che gli viene chiesto, il minimo indispensabile. Questo atteggiamento è un grosso problema nelle aziende che hanno bisogno sempre più di persone creative, knowledge workers in grado di assumersi responsabilità e svolgere compiti di più alto livello.

Il quiet quitting è una delle risposte al malessere che si vive nei luoghi di lavoro ma anche un indicatore del malessere generale che si vive nelle nostre società.

I lavoratori vivono in modo alienato il lavoro, sono distanti dal loro lavoro e dall’azienda, non danno alcun contributo aggiuntivo. Uno stato tossico sia per loro ma soprattutto per l’organizzazione dove lavorano.

Se associamo i risultati di queste indagini alla crescita di attività o pratiche di miglioramento personale come lo yoga (che ha avuto un enorme crescita in questi anni e si calcola che un italiano su cinque lo ha praticato ma non ci sono studi precisi), la meditazione e perfino la diffusione della droga vediamo che potremmo riportarle ad una via individuale per superare un malessere sociale.

La malattia mentale

Un altro dato interessante che emerge dalle ricerche sopra citate è quello della malattia mentale che colpisce in particolare i giovani della generazione Z.

Una indagine di Mckinsey approfondisce il tema della malattia mentale rilevando che il 59% dei lavoratori a livello internazionale ne sarebbero colpiti. Ormai il tema è all’ordine del giorno nelle aziende USA, gli psicologi aziendali si cominciano a diffondere sempre di più per arginare il fenomeno.

Nelle nostre organizzazioni e nella nostra società sta accadendo qualcosa di più profondo di un confronto tra “fannulloni” e “furbetti” dello smart-working. Sta emergendo sempre di più che le nostre organizzazioni sono pensate con strutture gerarchiche e meccanismi di comando che non sono più funzionali ad una società che ha bisogno di lavoratori sempre più formati e preparati, abituati a lavorare in autonomia durante gli studi che poi si sentono “costretti” o in “cattività” in orari e luoghi rigidi. Ma sta cominciando ad evidenziarsi sempre un diffuso malessere per manager con uno stile manageriale da “capi”, senza leadership ma nominati in base alla fiducia che ripongono in loro i loro superiori senza relativi meriti o capacità, come sta emergendo che lo stile manageriale “duro” è deleterio mentre serve uno stile “gentile” o comunque diverso dal passato.

Un lavoro che non dà più soddisfazioni

Ma dagli studi citati emerge anche che nelle organizzazioni si paga lo scotto di un modo di vivere che sembra non offrire soddisfazioni. Mentre negli anni passati i lavoratori potevano lavorare in fabbrica le loro otto ore molto dure e poi tornare a casa e potersi sentire soddisfatti, con salari e prospettive in miglioramento oggi questo non succede.

La generazione Z in particolare vede il suo futuro con preoccupazione, uno studio Mckinsey segnala le difficoltà dei più giovani ma che in qualche modo colpiscono tutta la popolazione.

Gli intervistati della Generazione Z occupati riferiscono che la retribuzione che ricevono per il loro lavoro non consente loro una buona qualità della vita (26%, rispetto al 20% degli altri intervistati) e sono meno propensi degli altri a dichiararsi equamente riconosciuti e premiati per il loro lavoro (56%, rispetto al 58% degli altri intervistati). Il 77% degli intervistati della Generazione Z dichiara di cercare un nuovo lavoro (quasi il doppio rispetto agli altri intervistati). Solo il 37% degli intervistati della generazione Z crede che la maggior parte delle persone negli USA abbiano opportunità economiche di crescita, questo suggerisce un profondo malessere riguardo alle proprie prospettive e a quelle degli altri statunitensi. Il 45% dei giovani è più preoccupato per la stabilità del lavoro rispetto al 40% delle altre fasce di età, molti giovani dubitano di arrivare a diventare proprietari di una casa o a percepire la pensione.

Lo smart working sì o no non è il vero problema che le moderne organizzazioni (ma anche i nostri governi) devono affrontare, il tema è più ampio su come affrontiamo un malessere sociale diffuso.

Dietro alla resistenza da parte dei lavoratori a tornare in presenza si cela un malessere generale sia nei luoghi di lavoro (dove è più accentuato perché vi si vive la gran parte della giornata) sia in generale.

La maggiore flessibilità in orario e in luogo nel lavoro aiuta a trovare una via di fuga da un modo di lavorare “opprimente”, stressante e che porta moltissimi lavoratori in una condizione di burnout. L’altro “salvagente” a questa condizione è il “quiet quitting”, vivere alla giornata facendo il minimo indispensabile, rifuggendo qualsiasi responsabilità, vivere in metodo alienante con il solo obiettivo di uscire la sera da una condizione di “cattività”.

I programmi di benessere aziendale come risposta al malessere dei lavoratori

Negli Stati Uniti, dove il mercato del lavoro è più dinamico ed esiste una fortissima coscienza della scienza manageriale nelle aziende, la risposta delle organizzazioni è quella di venire sempre più incontro alle esigenze dei lavoratori con programmi di benessere aziendale da una parte ma dall’altra anche con una figura di manager più capace di cogliere il malessere e motivare le persone.

I programmi di benessere aziendale da soli non servono a molto se poi lungo le catene di comando si lasciano manager che utilizzano sistemi di comando autoritari, stressano le persone e vengono visti incapaci ma solo cooptati dai livelli più alti. La generazione Z, ma anche le altre, spesso sono fatte da persone che hanno una buona formazione e capacità di gestirsi in autonomia, non hanno l’esperienza e hanno bisogno di motivazione a focalizzarsi sulle priorità. Le figure manageriali diventano importantissime per cambiare la cultura aziendale, nessuna campagna di comunicazione potrà raggiungere qualcosa se poi nella vita quotidiana il lavoratore sente di non essere valorizzato e supportato. Soprattutto tra i knowledge workers.

Conclusioni

Il modo di lavorare è strutturalmente cambiato, la forza lavoro è cambiata, i prodotti e i servizi che si creano sono cambiati, gli stili manageriali devono evolvere verso approcci inclusivi, collaborativi e che fanno leva sulla motivazione. In teoria da alcuni anni questi stili sono il mantra di ogni politica aziendale ma le indagini ci dicono che nelle aziende si è ancora lontani dall’applicarle, che non bastano le iniziative sul benessere aziendale o maggiori salari a trattenere le persone.

Avere organizzazioni ordinate e focalizzate è indispensabile per il loro buon funzionamento, il rispetto delle gerarchie e delle linee di comando anche, quello che dovrebbe cambiare è la capacità di guidare le persone verso i loro compiti quotidiani attraverso stili manageriali capaci di offrire uno scopo, degli obiettivi, valorizzando gli sforzi delle persone su basi oggettive e non “simpatie”.

Viviamo in società che ci motivano poco, abbiamo il benessere ma lo viviamo come una condizione precaria, non percepiamo lo scopo e i valori verso i quali la società e le nostre organizzazioni si muovono. Tutto questo sfoga nel malessere e produce enormi danni sulle persone e sulla produttività aziendale, forse quello che stiamo sperimentando direttamente in questi anni è che il benessere delle persone è alla base della loro produttività e del loro impegno verso obiettivi generali.

Gli individui non esistono, esistono le persone che per vivere bene con sé stessi devono vivere in ambienti sociali positivi e stimolanti dove i legami tra persone siano solidali e collaborativi. Nei decenni passati abbiamo curato troppo l’individuo e poco le persone, dove questo mostrava delle crepe le abbiamo riempite con delle valvole di sfogo come pratiche nobili quali meditazione o yoga, o meno nobili come la diffusione di stupefacenti. Sarebbe troppo facile citare Adriano Olivetti come modello di gestione dell’impresa, la sua consapevolezza nella necessità di offrire “dei fini” ai lavoratori e gli interventi di benessere aziendale.

Una migliore politica manageriale aiuterebbe le organizzazioni ma esiste una emergenza sociale che impone a chi ha in mano le leve della politica di ripensare le nostre società e renderle più vivibili, distribuire con maggiore equità benessere economico e benessere personale.

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