Mentre l’Europa fa i conti con la seconda, violenta ondata della pandemia, il lavoro terziario o consulenziale migra al sicuro, e si sposta nel tinello di casa. Ma in questi mesi intercorsi dalla prima fase dell’emergenza sanitaria, le criticità del lavoro che abbiamo imparato a chiamare “smart” non sono state mitigate, anzi.
Certo, non mancano le esperienze positive – spesso frutto di lungimiranti accordi sindacali e protocolli aziendali siglati da management e rappresentati dei lavoratori. Tuttavia, emerge prepotente il fiato corto delle politiche di organizzazione del personale, in bilico tra la necessità di minimizzare il rischio, l’incapacità di evolvere e il desiderio di stanare i lavativi.
Di “agevole” o “agile”, checché se ne dica, c’è dunque ancora molto poco. E in più c’è anche un altro aspetto meno rassicurante del lavoro in tempi di Covid19. Al cospetto di una fuga di massa dagli spazi aziendali, ma anche in vista delle riaperture nella fase meno problematica, molti manager e dirigenti hanno reagito in preda al panico tentando di affermare un’impostazione organizzativa tutta centrata sul controllo.
Molte organizzazioni, incapaci di disegnare piani di lavoro fondati su obiettivi flessibili, consegne verificabili e mutua fiducia, si sono catapultate ad acquistare a rotta di collo software di sorveglianza digitale (per misurare il tempo speso online, il numero di battute sulla tastiera, la cronologia dei siti visitati). Un fallimento in molti casi, che contribuisce alla deriva da panottico in salsa digitale, testimoniando un grave ritardo in fatto di cultura aziendale, che si riverbera sui livelli soddisfazione e benessere e quindi sui risultati economici.
Altrove, nelle imprese in cui si erano già disegnati flussi organizzativi imperniati sulla responsabilità e sulla flessibilità, le cose vanno meglio. Non sono stati registrati cali di produttività, anzi le statistiche rivelano una tendenza tutta in positivo, sebbene molti lavoratori si siano trovati in situazioni di equilibrismo ai limiti dell’estremo. Il ricorso agli strumenti digitali di controllo, tra le altre cose, accomuna “smartisti” e lavoratori in prima linea. A tutti è toccato scaricare l’ennesima app.
Lavoro in sicurezza o deriva da panottico?
Chi si reca sul posto di lavoro ha installato un software con cui esibire il proprio “passaporto sanitario” all’ingresso, o prenotare gli spazi disponibili a turno. La società “Enlighted” si è reinventata e oggi offre “soluzioni” per spazi più sicuri. Tutto in un’app: un trillo serve a segnalare una vicinanza col collega oltre i limiti di sicurezza, una notifica informa sugli orari di sanificazione, un sensore dialoga col termoscanner all’ingresso, un altro traccia gli spostamenti in funzione anti-contagio, un RFID misura e ottimizza il tasso di occupazione degli spazi, un SMS sollecita il rispetto delle istruzioni igieniche, un chip consente di entrare in fabbrica senza contatto.
Sebbene questi aggeggi abbiano reso semplici molte azioni imposte dalla “strana normalità” che ci troviamo a vivere, non si può trascurare la deriva da panottico.
Non va meglio fuori dai cancelli. Chi resta a casa si ritrova il fiato sul collo del manager ansioso, che non può fare a meno di verificare se il sottoposto sia alle prese con Excel o si distragga con i video di gatti. Per mantenere il controllo, ci sono “Activtrack”, “HubStaff”, “TimeDoctor”, “Teramind”, “Interguard”, “Sneek”, strumenti efficacissimi per coordinare squadre frammentate. Dal minutaggio del tempo speso su ogni compito alla replica virtuale della pausa caffè davanti alla macchinetta (se volete fare gossip, ecco “Pragli”, per simulare una caccia al tesoro basta “BaseCamp”). Il principio è sempre lo stesso: mai perdere di vista il lavoratore, autonomo o dipendente che sia, per tenerlo motivato, sempre appeso al guinzaglio digitale.
Tool di controllo, tutela dei dati aziendali e cyber sicurezza: le regole ci sono
In sintesi, l’esodo dalla scrivania ha amplificato il ricorso a strumenti in grado di tracciare i messaggi di posta, contare i minuti spesi negli ambienti collaborativi, immortalare scatti del consulente in pigiama ogni quarto d’ora per scongiurare un’evasione (fuggire sì, ma dove?), riprodurre il caos creativo degli open space tenendo le telecamere perennemente accese. Sono tante le società di servizi che si sono date in pasto a questi sistemi rassicuranti, chiudendo un occhio in fatto di tutela dei dati aziendali e cyber sicurezza (vale anche per la pubblica amministrazione, con i pericoli che si possono immaginare). Si tratta di uno smottamento senza precedenti. Proprio mentre il lavoro invade gli spazi privati, si presta il fianco a un lento processo di mutazione genetica delle prerogative di comando e controllo.
Eppure, le regole non mancano. Dal 2018 il Regolamento UE relativo alla protezione delle persone fisiche con riguardo al trattamento dei dati personali impone uno standard di tutela rafforzato, pur in una prospettiva di promozione libera circolazione di tali dati. A livello nazionale, con il Jobs Act, gli strumenti di controllo che siano impiegati per rendere la prestazione di lavoro non sono sottoposti al regime di autorizzazione sindacale o amministrativa – che invece resta in piedi tutte le volte che si intenda installare sistemi di sorveglianza per esigenze organizzative e produttive, per tutelare la sicurezza o anche solo il patrimonio aziendale.
Conclusioni
Certo, restano molti aspetti su cui lavorare: non solo il diritto alla disconnessione, ma anche modelli premiali che tengano conto della disponibilità prolungata e dell’uso delle risorse personali, ma si può dire che il quadro normativo sia chiaro. Com’è possibile, allora, che si assista alla “tempesta perfetta” per chi realizza e mette in commercio strumenti di controllo a distanza? Da un lato, la responsabilità va attribuita all’idea distorta di efficienza e produttività, a cui troppi pochi manager sono disposti a rinunciare. Dall’altro, non manca una certa postura conformista, forse anche nichilista, che fa di noi degli utenti disciplinati, con il clic “accetto” facile.
Attenzione però: le conseguenze di una tolleranza troppo morbida degli strumenti di controllo, oltre a tradire lo spirito emancipativo delle tecnologie, ci consegna a una china scivolosa, specie nel contesto di lavoro dove le asimmetrie informative sono sempre problematiche.
In più, la rincorsa al digitale scatenata dalla pandemia rischia di esportare queste pratiche in campi molto delicati: dall’istruzione al settore finanziario, dalla medicina a distanza fino all’amministrazione della giustizia. Le soluzioni esistono e passano da un approccio critico in fatto di condivisione dei dati personali. È altrettanto importante che istituzioni e parti sociali, anche a livello decentrato, inaugurino una nuova stagione di contrattazione sulle strumentazioni di controllo, per aprire le scatole nere e costruire un rapporto sano con le opportunità offerte dalla tecnologia.