I Digital Right Management System (DRMS o DRM) sono delle tecnologie software che servono a impedire che il legittimo acquirente di una licenza di utilizzo di opere protette dal diritto d’autore possa fruirne in modalità diversa da quella decisa unilateralmente dal titolare del copyright.
Pensati inizialmente per musica, film e software applicativo (sistemi operativi, suite di produttività ecc.) i DRM vennero utilizzati in ambiti sempre più lontani dalle “opere creative”, come per esempio i firmware che controllano apparati elettronici, installati in oggetti di uso comune e che nulla hanno a che vedere con la “pirateria multimediale”. E si sono tradotti in uno strumento di limitazione della concorrenza oltre che nell’ennesimo tassello di controllo globale.
Questo è, in sintesi, il problema denunciato dalla EFF che ha portato in giudizio il governo americano, contestando la norma che punisce chi prova ad aggirare i sistemi di protezione delle opere tutelate dal Digital Millennium Copyright Act.
Anche l’Europa ha una norma analoga: la direttiva comunitaria sul diritto d’autore e il suo recepimento italiano, puniscono chiunque aggiri o elimini le misure di protezione che il titolare dei diritti d’autore ha installato sulle opere di sua proprietà. E questo, anche se chi “sprotegge” lo fa per esercitare, ad esempio, il proprio diritto alla copia di riserva garantito dalla stessa legge sul diritto d’autore.
Ma, come abbiamo visto, il vaso di Pandora è stato aperto e i DRM non sono più un (pericoloso) sistema di controllo sulla diffusione della cultura a danno degli utenti onesti che comprano le opere delle quali vogliono fruire. Sono diventati una componente essenziale della pervasiva strategia commerciale di invasione della sfera individuale con strumenti in grado di “ribellarsi” contro il proprio utente.
Con la scusa di proteggere il diritto d’autore, dunque, USA e UE hanno creato il più massiccio, invasivo e pericoloso “kill switch” e lo hanno messo nelle mani di società private che lo possono utilizzare a loro piacimento.
Basta pensare al fatto che l’Internet of (no)Thing è fondamentalmente fatto di software: condizionatori, frigoriferi, termostati, infissi, telecamere, macchinette del caffè, televisori… tutto collegato e raggiungibile dall’esterno della rete domestica, senza che l’individuo possa entrare nel merito del “perchè” il suo televisore può essere controllato da qualcun altro e a sua insaputa.
Basta un cambio unilaterale nelle condizioni di licenza d’uso, o il mancato pagamento di qualche rata di un canone di manutenzione (condizionatore-as-a-service) perchè le macchine che popolano la vita di una persona smettano semplicemente di funzionare.
Scenario apocalittico? Mica tanto.
Qualcuno ha fatto degli studi seri ed analitici sui vari “smart”oggetti che ci vengono venduti? E’ stato verificato quanto sono “sicuri” e quanto sono “resistenti” ad attacchi esterni? Sono stati definiti degli strumenti a tutela degli utenti? Nulla di tutto questo, grazie non tanto ai DRM (che, come insegna la storia, presto o tardi vengono superati) ma dalle norme che impediscono a ricercatori indipendenti di esaminare i software proprietari e mascherati che fanno funzionare la nostra vita quotidiana.
Anche in Italia non sono mancati gli allarmi sull’utilizzo distorto dei DRM e sui paradossi legali che generano a danno dei cittadini onesti (uno per tutti: la denuncia presentata nel 2005 da ALCEI al Gruppo anticrimine tecnologico della Guardia di finanza per la presenza di un DRM potenzialmente pericoloso all’interno di un CD prodotto dalla Sony BMG Entertainement).
Ma nessuno mosse un dito, nè politici e legislatori pensarono minimamente di preoccuparsi dell’impatto di lungo periodo di quello che stavano facendo.
Dunque, la nostra società fatta di “smart”, “social” e “broadband” si scopre incaprettata più che connessa grazie alla miopia di chi ha avuto e ha il potere/dovere di garantire i diritti individuali e non solo quelli dei signori del copyright.
Immancabilmente, la politica dello struzzo presenta il conto e come sempre – putroppo – saremo noi a pagarlo. E anche molto caro.