L’analisi

Coronavirus, così sono a rischio privacy e altri diritti individuali

Il diritto alla protezione dei dati personali non è assoluto e può essere limitato ai fini del perseguimento di un obiettivo di interesse pubblico generale preminente o per proteggere diritti e libertà altrui. L’epidemia del Coronavirus non fa eccezione. Vediamo il contesto e cerchiamo di inquadrare le misure intraprese

Pubblicato il 05 Mar 2020

Barbara Calderini

Legal Specialist - Data Protection Officer

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Tra le vittime del coronavirus rischiano di esserci anche i diritti fondamentali e tra questi la privacy. E’ evidente la difficoltà dell’apparato pubblico nel coordinare aspetti organizzativi e gestionali divenuti oggetto di infinite riunioni.

Chiusure scolastiche frutto di decisioni non uniformi e non concertate a livello nazionale e conseguenti impugnazioni; uffici pubblici che hanno sospeso i front office per l’utenza, mascherine vendute a prezzi esorbitanti, assalti ai supermercati e piazze vuote, discriminazioni varie e mancanza di tutele. Cancellazione di voli da parte di compagnie aeree per mancanza di prenotazioni verso il nostro Paese.

Tra Regioni, Protezione Civile, Asl e Ministero, i cittadini di fatto si perdono nella confusione tra chi realmente è incaricato di gestire l’emergenza e per quali aspetti e chi no.

Inevitabile dunque domandarsi fino a che punto un contagio, in una nazione libera, può minare i diritti e le libertà degli individui e condizionare il reciproco bilanciamento tra essi.

Al di là degli aspetti sanitari, vogliamo quindi approfondire quelli legati alla possibile violazione dei diritti individuali che può scaturire dalla richiesta di controlli sanitari, dalla pesante limitazione dei movimenti, dall’obbligo di quarantene.

Siamo tutti d’accordo sul fatto che poter disporre di informazioni sanitarie attendibili assicura analisi scientifiche affidabili, consente agli epidemiologi di monitorare l’evoluzione della malattia, ai ricercatori di poter sviluppare vaccini e terapie, agli operatori sanitari di alimentare efficacemente la macchina dei soccorsi; non ultimo agli individui di proteggersi.

E dunque, in tale contesto, tra i diritti fondamentali a rischio compressione, anche il diritto alla protezione dei dati personali, specie se quest’ultimi sono di particolare natura, assume un ruolo strategico importante tanto quanto delicato.

Vediamo perché.

Il parere del Garante privacy sulla bozza di ordinanza della protezione civile

L’occasione ci viene data dal parere che il 2 febbraio 2020, Antonello Soro – Presidente del Collegio Garante per la protezione dei dati personali – ha emesso sulla bozza di ordinanza del dipartimento della Protezione Civile, conseguente alla delibera del Consiglio dei Ministri del 31 gennaio 2020 e recante “disposizioni urgenti di protezione civile in relazione all’emergenza sul territorio nazionale relativo al rischio sanitario connesso all’insorgenza di patologie derivanti da agenti virali trasmissibili”.

Ciò ha infatti contribuito ad alimentare il dibattito intorno al tema dell’equilibrio “mobile” che contraddistingue il bilanciamento tra interessi pubblici, libertà e diritti fondamentali tra cui il diritto alla protezione dei dati personali.

Il provvedimento, esprimendosi in senso favorevole a quanto previsto nell’art 5 della “bozza” di ordinanza, ha riconosciuto le misure previste dal Dipartimento, idonee a rispettare le garanzie previste dalla normativa in materia di protezione dei dati personali nel contesto dell’attuale situazione di emergenza epidemiologica da coronavirus.

Nello specifico, il Presidente Soro ha ritenuto adeguate ed attuabili le attività di trattamento dei dati personali, connessi allo svolgimento delle attività di protezione civile come previste dall’ordinanza, allo scopo di assicurare la più efficace gestione dei flussi e dell’interscambio dei dati personali.

Ha altresì reputato giustificabili i trattamenti, effettuati per il tramite dei soggetti operanti nel Servizio nazionale di protezione civile, di cui agli artt. 4 e 13 del d.lgs. 2 gennaio 2018, n. 1, citato, nonché di quelli indicati all’art. 1 della bozza di ordinanza, “ivi compresa la comunicazione tra loro, di dati personali anche relativi agli artt. 9 e 10 del Regolamento (UE) 2016/679, che risultino necessari per l’espletamento della funzione di protezione civile a al ricorrere dei casi di cui agli articoli 23, comma 1 e 24, comma 1, del d.lgs. 2 gennaio 2018, n. 1, citato, fino al 30 giugno 2020”. Un’ampia gamma di soggetti, dunque, sia pubblici che privati.

Unica raccomandazione rivolta agli Enti interessati è stata quella relativa alla “necessità che, alla scadenza del termine dello stato di emergenza, siano adottate da parte di tutte le Amministrazioni coinvolte negli interventi di protezione civile di cui all’ordinanza, misure idonee a ricondurre i trattamenti di dati personali effettuati nel contesto dell’emergenza, all’ambito delle ordinarie competenze e delle regole che disciplinano i trattamenti di dati personali in capo a tali soggetti.”

Il diritto alla protezione dei dati personali non è un diritto assoluto e può essere limitato qualora ciò si riveli necessario ai fini del perseguimento di un obiettivo di interesse pubblico generale preminente o per proteggere i diritti e le libertà altrui.

Stati di emergenza, interessi strategici nazionali ed eventi eccezionali sono già stati in passato tutte circostanze che hanno consentito l’ingresso nell’ordinamento di una temporanea limitazione giuridica dei diritti fondamentali: dai dissesti idrogeologici, ai fenomeni meteorologici gravi e alle alluvioni; dagli eventi sismici, alla minaccia terroristica. Dalla Giornata mondiale della gioventù cattolica, ai Campionanti mondiali di nuoto.

Tra queste istanze, la tutela della salute pubblica in particolare è apparsa molto spesso un interesse preminente rispetto ad altri diritti fondamentali degli individui.

L’epidemia derivante dal nuovo coronavirus non fa dunque eccezione. Vediamo il contesto e cerchiamo di inquadrare le misure intraprese.

L’epidemia in atto

Il virus 2019-nCoV, o COVID-19 (dove “CO” sta per corona, “VI” per virus, “D” per disease-malattia e “19” indica l’anno in cui si è manifestata) o più semplicemente coronavirus – così chiamato per la caratteristica forma a coroncina – ha iniziato a diffondersi dal mercato del pesce di Wuhan, nella Cina centro-meridionale, nell’ultimo giorno del 2019, quando le autorità sanitarie cinesi hanno annunciato la presenza di un “focolaio” di sindrome febbrile, con polmonite di origine sconosciuta, tra gli abitanti.

Il 31 dicembre 2019, la Cina ha quindi segnalato all’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) un cluster di casi di polmonite definita “ad eziologia ignota”, poi identificata come un nuovo coronavirus, nella città di Wuhan, nella provincia cinese di Hubei.

Febbre, tosse, raffreddore, mal di gola e affaticamento polmonare sono stati descritti come sintomi comuni di quello che, stando ai dati Oms, pare costituire un nuovo ceppo virale con un tasso di mortalità ridotto a fronte di una contagiosità molto pervasiva.

Da Wuhan, l’epidemia, in pochi giorni ha colonizzato altre province cinesi, fino ad estendersi in altre parti del mondo, Italia compresa.

Al 25 febbraio 2020 la situazione era la seguente:

Fonte Immagine

L’ Italia è risultata il più grande focolaio al di fuori dell’Asia. Alla data di oggi, 5 marzo, risultano contagiate oltre 3 mila persone; 276 quelle guarite e 107 decessi.

La dichiarazione di emergenza internazionale dell’OMS

A fine gennaio il Direttore Generale Tedros Adhanom Ghebreyesus dell’ Organizzazione mondiale della Sanità (Oms), ai sensi dell’art 12 del Regolamento sanitario internazionale, ha dichiarato l’emergenza globale per il Coronavirus riconoscendo ufficialmente lo stato di “emergenza in fatto di salute pubblica di interesse internazionale (PHEIC, Public Health Emergency of International Concern)”.

Negli ultimi dieci anni si sono verificati altri cinque eventi classificati PHEIC: la pandemia di H1N1 (o influenza suina) nel 2009, la polio del 2014, l’Ebola sempre nel 2014, l’epidemia virale Zika nel 2015 e 2016 e, l’epidemia di Kivu Ebola nel 2019.

La diffusione del nuovo Coronavirus, è stata valutata, dunque, alla stregua di un evento “straordinario che costituisce un rischio per la salute pubblica per altri Stati attraverso la diffusione internazionale delle malattie e che richiede potenzialmente una risposta internazionale coordinata ed immediata”.

E da qui, le conseguenti raccomandazioni temporanee previste dall’art 15 del Regolamento sanitario internazionale.

In pratica provvedimenti urgenti (da rivedere, da parte dell’OMS, con cadenza almeno trimestrale) e vincolanti seppur nei limiti dell’art 43 del medesimo Regolamento, che possono includere specifiche misure sanitarie e che devono, a loro volta, essere implementate dallo Stato Parte in cui si è verificata l’emergenza di sanità pubblica o da altri Stati Parti interessate, al fine di prevenire o ridurre la diffusione internazionale dell’epidemia; sempre evitando per quanto possibile interferenze non pertinenti con il commercio e i viaggi internazionali.

Nel caso specifico del Coronavirus, sulla base di un criterio definito di “massima precauzione”, 72 stati tra cui l’Italia hanno, in realtà, introdotto diverse misure unilaterali di restrizione agli spostamenti, alcune rivelatesi peraltro molto utili. Dalla sospensione dei voli aerei alle quarantene imposte.

La dichiarazione di emergenza internazionale del 31 gennaio 2020, può ritenersi, nel contesto specifico, il primo atto in ordine cronologico e a valenza internazionale, che ha “consentito” le conseguenti limitazioni dell’esercizio dei diritti fondamentali.

Relativamente, alle persone le raccomandazioni potevano, infatti, prevedere:

  • verifica della storia dei viaggi nelle aree affette;
  • verifica degli esami medici e delle analisi di laboratorio;
  • richiesta di esami medici;
  • verifica della prova di vaccinazioni o altra profilassi;
  • richiesta di vaccinazioni o altra profilassi;
  • osservazione per scopi di sanità pubblica di persone sospette;
  • quarantena o altre misure di sanità pubblica per persone sospette;
  • isolamento e terapia, quando necessari, per le persone affette;
  • individuazione dei contatti delle persone affette o sospette;
  • rifiuto dell’ingresso nello Stato di persone affette o sospette;
  • rifiuto dell’ingresso nello Stato di persone non affette in aree affette;
  • screening in uscita e/o restrizioni su persone provenienti da aree affette.

E in particolare, le misure sanitarie da applicare ai viaggiatori internazionali ai sensi degli articoli 23, 31 e 43 del Regolamento Sanitario Internazionale potevano includere la richiesta di informazioni all’arrivo a alla partenza dei singoli viaggiatori in merito ai relativi programmi, per accertare o prevenire la permanenza in aree infette o a rischio di infezione. Le autorità sanitarie avevano la possibilità, inoltre, di invitare, nei punti di scalo, le persone a sottoporsi a test medici purché non invasivi. E avrebbero potuto altresì negare l’ingresso a coloro che pur ricorrendone i presupposti si fossero rifiutati di adempiere alle indicazioni sanitarie prescritte dalle autorità nazionali.

Il rispetto dei diritti umani e della dignità, oltre alla giustificabilità, su base scientifica, delle suddette misure costituiscono, in ogni caso, i principi in base ai quali operare l’analisi della legittimità e liceità delle stesse.

L’Italia è stato il primo paese europeo ad aver bloccato, dal primo febbraio, tutti i voli da e per la Cina.

British Airways ha sospeso tutti i voli diretti da e verso la Cina continentale. Iberia, ha ugualmente dichiarato di sospendere temporaneamente tutti i voli per Shanghai “a causa del coronavirus”. E anche Lufthansa e le sue controllate Swiss e Austrian Airlines hanno deciso di sospendere tutti i propri voli di linea verso la Cina. Seguono sulla stessa scia Air Canada, Air France, Seoul Air, Lion Air, e molte altre.

Attualmente oltre 70 Stati hanno introdotto misure unilaterali variamente restrittive degli spostamenti, relative alle diverse aree del mondo classificate come “zone ad alto rischio” tra cui, oltre alla Cina e alla Corea del Sud, anche l’Italia.

Non stupisce che tali azioni abbiano immediatamente suscitato opinioni e critiche contrastasti nella comunità scientifica come tra i giuristi e attivisti dei diritti civili.

Restrizioni ai viaggi, voci critiche e giudizi favorevoli

Tra le tante voci critiche, è interessante quella riportata nella rivista medica Lancet, secondo cui alcuni studiosi di diritto sanitario globale e tra questi anche Gianluca Burci, già consulente giuridico dell’Oms ed attualmente docente presso il Graduate Institute of International and Development Studies di Ginevra, hanno condotto uno studio teso a dimostrare la non legittimità dei provvedimenti di restrizione ai viaggi, assunte dai vari Stati, ritenendole contrarie alla corretta interpretazione del Regolamento Sanitario Internazionale, e degli art.li, 43.2 e 31 in particolare.

Il Regolamento Sanitario Internazionale è il sistema legalmente vincolante per i 196 paesi firmatari, inclusi tutti gli Stati membri dell’OMS ed è finalizzato a proteggere le persone, in tutto il mondo, dalla diffusione globale delle malattie. Gli articoli menzionati, in sostanza prevedono che le determinazioni di limitazione degli spostamenti si debbano necessariamente basare su principi e prove scientifiche o, in mancanza, in determinati consigli resi dall’OMS che ne giustifichino l’adozione, e sempre “nel pieno rispetto della dignità, dei diritti umani e libertà fondamentali delle persone” (art 3.1 del Regolamento Sanitario Internazionale).

Stando alle conclusioni degli studiosi, al contrario, molte delle restrizioni di viaggio applicate durante l’epidemia COVID-19 non sono state adeguatamente gestite dai singoli paesi perché non supportate dalla scienza o dall’OMS.

“Di per sé, non rispettare le raccomandazioni dell’Oms non è illegale”, sostiene Gian Luca Burci “Ma il Regolamento impone agli stati membri di giustificare le misure assunte sulla base di evidenze scientifiche.” E ancora: “Queste misure possono generare una diffidenza contro un gruppo etnico, come sta avvenendo con i cinesi (…); inoltre, come si è visto nell’epidemia di Ebola del 2014-2016, fermare i voli rende più difficoltoso il trasporto di materiali sanitari verso l’epicentro dell’epidemia. Infine, inducono le persone a rischio a nascondersi per aggirare le restrizioni”.

Di diverso parere, il virologo Roberto Burioni, Professore di Microbiologia e Virologia all’Università Vita-Salute San Raffaele di Milano – Direttore scientifico Medical Facts – secondo il quale per fermare il coronavirus bisogna inevitabilmente isolare i focolai di contagio in Cina anche con la sospensione totale dei voli.

La risposta delle istituzioni europee

In una recente conferenza stampa, il Commissario europeo per la salute Stella Kyriakides e Janez Lenarčič, Commissario per la gestione delle crisi hanno annunciato – oltre allo stanziamento di 230 milioni di euro per finanziare ricerca e misure prevenzione, e alla previsione di una missione congiunta dell’Ecdc (Centro europeo per il controllo delle malattie) e dell’Oms focalizzata sulla situazione in Italia – anche la possibile valutazione, delle restrizioni ai movimenti all’interno dell’area Schengen che in ogni caso dovranno essere “proporzionate e coordinate tra i Paesi Ue”, diretti responsabili dei controlli alle frontiere e sempre sulla base della preventiva “valutazione del rischio e di consulenze scientifiche”.

“Non abbiamo ricevuto nessuna richiesta di sospensione del trattato di Schengen, tutte le decisioni devono essere prese in base a una rigorosa valutazione scientifica, devono essere proporzionate e coordinate”. Così ha affermato Lenarcic, secondo cui “La questione dei divieti di viaggio e dei controlli alla frontiera è di competenza dei diversi paesi”. Che “finora si sono coordinati bene, ma si può sempre migliorare e non parlo solo della cooperazione tra paesi Ue, ma anche extra Ue”.

Il Governo italiano, in coordinamento con la Protezione Civile ed alcuni governatori ha risposto che, per il momento, “sebbene ci sia una praticabilità giuridica, non sussiste la sostenibilità pratica per una tale sospensione” che peraltro stando alle dichiarazioni della Protezione civile non garantirebbe nessuna efficacia cautelativa.

La dichiarazione di emergenza del Consiglio dei ministri e l’ordinanza 630 della protezione civile

In Italia, il 31 gennaio 2020, il Consiglio dei ministri, su proposta del Presidente Giuseppe Conte, ha deliberato lo stanziamento dei fondi necessari all’attuazione delle misure precauzionali conseguenti alla dichiarazione di “Emergenza internazionale di salute pubblica” da parte della Organizzazione Mondiale della Sanità.

È stato quindi ufficializzato, anche in Italia, lo stato d’emergenza, per la durata di sei mesi, al fine di consentire l’emanazione delle necessarie ordinanze di Protezione Civile. Proprio al Capo del Dipartimento della Protezione Civile, Angelo Borrelli, viene infatti affidato il coordinamento di tutti gli interventi nazionali necessari a fronteggiare la conseguente emergenza, compresi i provvedimenti d’urgenza.

E il 3 febbraio, a seguito della dichiarazione dello stato di emergenza, e dopo aver ricevuto parere favorevole del Garante per la protezione dei dati personali, Borrelli, ha firmato l’ordinanza che disciplina i primi interventi urgenti relativi “al rischio sanitario connesso all’insorgenza di patologie derivanti da agenti virali trasmissibili”.

L’ordinanza n. 630 del 3 febbraio 2020 è il provvedimento in base al quale, in Italia, l’esercizio dei diritti civili fondamentali dei soggetti coinvolti nell’emergenza Coronavirus, compreso il diritto alla protezione dei dati personali, può subire limitazioni in virtù dell’interesse pubblico generale alla tutela della salute pubblica, nel caso specifico.

L’Articolo 5 (Trattamento dati personali) della stessa ordinanza prevede infatti che nell’ attuale circostanza emergenziale “i soggetti operanti nel Servizio nazionale di protezione civile di cui agli articoli 4 e 13 del decreto legislativo 2 gennaio 2018, n. 1, nonché quelli individuati ai sensi dell’art. 1 della presente ordinanza, possono realizzare trattamenti” – dunque dalle Forze dell’Ordine ai Comuni, compresi i soggetti privati autorizzati privati, che agiscono sulla base di specifiche direttive “ ivi compresa la comunicazione tra loro, dei dati personali, anche relativi agli articoli 9 e 10 del Regolamento del Parlamento europeo 27 aprile 2016, n. 2016/679/UE, necessari per l’espletamento della funzione di protezione civile al ricorrere dei casi di cui agli articoli 23, comma 1 e 24, comma 1, del decreto legislativo 2 gennaio 2018, n. 1, fino al 30 luglio 2020.”

Continua poi al numero 2 specificando ulteriormente che “La comunicazione dei dati personali a soggetti pubblici e privati, diversi da quelli di cui al comma 1, nonché la diffusione dei dati personali diversi da quelli di cui agli articoli 9 e 10 del Regolamento del Parlamento europeo 27 aprile 2016, n. 2016/679/UE è effettuata, nei casi in cui essa risulti indispensabile, ai fini dello svolgimento delle attività di cui alla presente ordinanza”.

Le limitazioni del diritto alla privacy per ragioni di interesse pubblico prevalente

Preliminarmente va ricordato il parere favorevole a monte della suddetta ordinanza ha richiesto che il Garante fosse consultato avvalendosi della procedura disciplinata all’art. 35 del GDPR nota come “Consultazione preventiva” ed il Presidente Soro si è conseguentemente pronunciato, ai sensi di cui all’art. 5, comma 8, del Regolamento n. 1/2000 sull’organizzazione e il funzionamento dell’ufficio del Garante, adottando il provvedimento con le modalità previste “nei casi di particolare urgenza e di indifferibilità che non permettono la convocazione in tempo utile del Garante”.

Tale pronunciamento cesserà di avere efficacia con effetto retroattivo se non sarà ratificato dal Collegio nella prima riunione utile, “da convocarsi non oltre il trentesimo giorno”.

Detto ciò è noto che il nostro ordinamento preveda specifici mezzi straordinari volti a fronteggiare situazioni eccezionali.

L’ordinanza rientra tra questi, purché la fonte attributiva ne delinei con accuratezza i contorni, stabilendone i presupposti, l’oggetto, la durata, compresi i meccanismi di riordino di quanto l’emergenza ha “messo in disordine”.

In Europa, ciò che il Parere del Garante e la conseguente Ordinanza della Protezione Civile hanno inteso attuare, si traduce in quella preminenza che all’art 52, paragrafo 1 e 3 della Carta UE, viene attribuita in determinate circostanze agli obiettivi di interesse generale, sanciti nell’articolo 3 del Trattato sull’Unione europea (TUE) e, nel caso specifico, all’interesse alla protezione della salute pubblica, contenuto nell’articolo 35 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea. Quest’ultimo bilanciato rispetto agli altri diritti tra i quali il rispetto della vita privata e della vita familiare (art. 7 Carta) e la protezione dei dati di carattere personale (art.8 Carta).

L’obiettivo perseguito, ovvero la gestione dell’emergenza sanitaria in corso, nonché la “stretta” necessità e proporzionalità delle limitazioni sono ovviamente fortemente collegati e costituiscono il nucleo fondamentale della ponderazione alla base delle misure attuate. Proprio la definizione del “contenuto essenziale” del diritto da salvaguardare assume un rilievo centrale nell’ottica dell’imposizione del minor sacrificio possibile.

Per intenderci, potrebbe ritenersi giustificabile comprimere, entro certi limiti e nelle specifiche circostanze emergenziali epidemiologiche accertate, la portata del diritto alla riservatezza dei propri dati personali a vantaggio del diritto di informazione o del dovere di cronaca delle testate giornalistiche, ma solo se rispondente al confine dettato dall’essenzialità e pertinenza dell’informazione e solo laddove i conseguenti trattamenti siano sottoposti ad adeguate misure di cautela, sicurezza e verifica della veridicità. Per i dati relativi alla salute il nostro Codice attuale prevede un regime di comunicazione e diffusione particolarmente rigoroso ben delineato nell’art 2-septies.

Stesso discorso per quanto previsto all’art 5 par 2 dell’Ordinanza della Protezione Civile dove si legge che “la comunicazione dei dati personali a soggetti pubblici e privati, diversi da quelli di cui al comma 1, nonché la diffusione dei dati personali diversi da quelli di cui agli articoli 9 e 10 del Regolamento del Parlamento europeo 27 aprile 2016, n. 2016/679/UE è effettuata, nei casi in cui essa risulti indispensabile, ai fini dello svolgimento delle attività di cui alla presente ordinanza”.

I provvedimenti regionali

Un’attenta analisi meriterebbero invece i vari provvedimenti regionali che in questi giorni si sono succeduti in maniera più o meno giustificabile e coordinata ma comunque incidenti sempre in varia misura su diversi diritti umani. Per intenderci, parliamo di misure restrittive che si estendono dalla chiusura delle aule scolastiche a quelle dei tribunali ricadenti in diverse zone del Paese.

Anche il decreto-legge approvato il 23 febbraio 2020 nel corso di una seduta straordinaria, dal Consiglio dei Ministri e concernente le prime misure per fronteggiare l’emergenza epidemiologica Covid-2019, ha introdotto specifiche disposizioni che coinvolgono la sfera dei diritti civili, stabilendo ad esempio l’obbligo di chiusura delle attività commerciali e d’impresa ricadenti nelle aree individuate da apposita ordinanza (fatte salve quelle inerenti ai servizi pubblici essenziali), come anche le previsioni sulla sospensione dal lavoro per residenti extra-territorio ma con sede di lavoro entro i confini della zona di quarantena.

E certamente non passano inosservate, neppure, le varie “autodichiarazioni” apparse dal nulla e in modo piuttosto “improvvisato ed inopportuno” nelle aree di ingresso delle organizzazioni aziendali. Di fatto un’arbitraria rappresentazione non proprio legittima di diritto emergenziale che, sono certa, le Autorità preposte avranno modo e motivo di approfondire.

Nulla può lasciar pensare ad iniziative iniziative “fai da te” nella raccolta dei dati.

La finalità di prevenzione dalla diffusione del Coronavirus richiede l’intervento coordinato di  quei soggetti che istituzionalmente esercitano queste funzioni in modo qualificato e non può essere arbitrariamente svolta da datori di lavoro ancorché animati dalle migliori intenzioni.

La salute è valore preminente su qualunque altra istanza individualistica

In particolare per quanto riguarda le informazioni relative agli individui, l’articolo 23, paragrafo 1, e il considerando 4 del Regolamento 697/16 (GDPR), introducono delle possibili limitazioni all’applicazione dei principi in materia di protezione dei dati personali.

Ovvero, queste sono possibili laddove si dovessero rendere necessarie norme funzionali alla salvaguardia di interessi generali valutati come prevalenti nella cornice delle tutele espresse nell’art 8 della Convenzione Europea dei Diritti Umani (CEDU) e nell’ art 52 della Carta UE. E dunque nel rispetto del principio di proporzionalità, necessità, sicurezza e, laddove rispondano a finalità di interesse generale riconosciute dall’Unione o altrimenti all’esigenza di proteggere i diritti e le libertà altrui.

Completano il quadro, l’art 6.1 lett. e) del GDPR, che prevede che i trattamenti siano leciti qualora “necessari per l’esecuzione di un compito di interesse pubblico o connesso all’esercizio di pubblici poteri di cui è investito il titolare del trattamento”; e – nel caso dei dati personali concernenti la salute e dei dati biometrici dell’interessato, appartenenti a quella particolare categoria di informazioni qualificabili come “sensibili” – l’art 9, paragrafo 1 del GDPR (e anche dall’articolo 6 della Convenzione n. 108 in vigore).

Relativamente ai dati sulla salute, quando il trattamento è necessario per motivi legati alla tutela della sanità pubblica, e tra questi la protezione da gravi minacce per la salute a carattere transfrontaliero o le garanzie da implementare per assicurare elevati standard di qualità e sicurezza dell’assistenza sanitaria e dei medicinali e dei dispositivi medici, la base giuridica del trattamento dei suddetti personali risiede sullo specifico interesse pubblico nel settore della sanità pubblica come previsto all’art. 9.2 lett. i del Regolamento Europeo 679/16 e nel consideramdo 54. I trattamenti connessi e non “strettamente necessari”, diversamente, richiedono una distinta base di legittimazione da individuarsi, se pertinente anche nel consenso.

Conclusioni

Gli aggiornamenti relativi all’estensione dei contagi dell’epidemia di Coronavirus continuano a confermare l’evidente gravità dell’emergenza ed è certamente apprezzabile e condivisibile l’esortazione dell’Organizzazione Mondiale della Sanità ad agire di concerto per fronteggiare e gestire l’avanzata del virus.

L’epidemia secondo i conteggi ufficiali ha provocato più di 81.800 contagi e almeno 2.770 decessi.

L’immagine è tratta da Centro europeo per la prevenzione e il controllo delle malattie in data 26 febbraio 2020

Le attuali condizioni di eccezionalità rendono pertanto evidente quanto le soluzioni eticamente più accettabili messe in atto dalle varie Istituzioni per fronteggiare la crisi sanitaria, Italia compresa, siano anche quelle che si sono rivelate più utili al maggior numero di persone.

In tali contesti emergenziali proprio il corretto bilanciamento dei diritti umani con le istanze di tutela degli interessi generali preminenti assume un ruolo centrale determinante.

Tuttavia, riconoscerne l’inevitabilità non significa diventarne ostaggi come è capitato di pensare vedendo alcune “esasperazioni” dell’ultimo periodo.

Al contrario, proprio perché il carattere eccezionale e contingente della situazione si accompagna inevitabilmente ad elementi discrezionali e intuitivi, è più che mai opportuno un uso “controllato e consapevole” della tecnica del bilanciamento tra diritti.

Il primo passo è sicuramente il recupero della centralità attribuita alla garanzia della dignità di ogni persona umana, diritto fondamentale che non tollera limitazioni neppure in situazioni di estrema emergenza. Perché non sempre i canali attraverso i quali, in democrazia, gli individui possono in seguito riaffermare i propri diritti e chiedere la responsabilità degli abusi, rappresentano la soluzione ottimale.

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