L’epidemia di COVID-19 – meglio noto come coronavirus – ha scatenato nel mondo un’escalation di comportamenti individuali e collettivi dissennati. Ovviamente il virus esiste, sta diffondendosi nel mondo, sta contagiando e sta avendo le sue vittime. Ma gli effetti più a lungo termine saranno dovuti alla reazione sociale all’epidemia, più che all’epidemia stessa.
La reazione sociale al coronavirus e l’epidemia informativa
Reazioni scomposte da parte delle autorità politiche mondiali e locali, esplosione di razzismo e comportamenti collettivi irrazionali in tutte le parti del mondo, crisi economica globale, attivazione di cordoni sanitari, reazioni di panico incontrollato spesso attivate dalla stampa e dai social media, fake news, meme, e atteggiamenti blasé da parte del villaggio globale metropolitano: ci sono tutti gli ingredienti perché si delinei un panorama distopico che ricorda tantissimi racconti – cinematografici e letterari – che hanno messo al centro dell’attenzione le conseguenze sociali e culturali delle epidemie.
C’è un termine prima sconosciuto ai più che adesso sta entrando nell’opinione pubblica, una buzzword come si dice in gergo: infodemia ovvero una epidemia che prima ancora di essere biologica è anche – verrebbe voglia di dire soprattutto – informativa. È questa la parola meglio in grado di descrivere cosa stia succedendo e perché la situazione, ad una analisi superficiale, sembra fuori controllo.
Per questo motivo può essere interessante delineare un quadro di analisi che usando gli strumenti delle scienze sociali provi a rispondere alla seguente domanda: com’è stato possibile che da una pressoché sconosciuta per quanto enorme metropoli cinese si sia attivato un processo che ha portato al saccheggio dei supermercati in Lombardia e in Italia? Come può un mercato di Wuhan decidere la fine delle scorte di pasta a Codogno?
Per rispondere a questa domanda servono quattro passaggi.
Primo passaggio: un mondo piccolo e ristretto
Come può essere che ciò che accade agli abitanti della Cina si ripercuota sui cittadini italiani? Ma soprattutto come può un virus presente in un mercato cinese infettare un manager lombardo? Per capire quanto siamo tutti connessi a livello globale può essere utile la teoria del piccolo mondo. In base a questa teoria – verificata sperimentalmente nel 1967 dal sociologo Stanley Milgram – ognuno di noi è connesso a qualunque altro individuo presente sulla faccia della terra da una media di sei passaggi. È il principio dei sei gradi di separazione: bastano in media sei contatti per connettere le persone tra loro. Questa teoria dimostra non solo la velocità di diffusione del virus, ma anche che fra un contadino del mercato di Wuhan e il manager di una azienda con sede a Codogno ci sono solo sei persone: da qui la capacità del virus di viaggiare rapidamente al di là di qualsiasi confine. Grazie anche all’infrastruttura degli aeroporti. Un’altra teoria diffusa negli studi sulla geografia della globalizzazione è l’effetto restringimento del mondo, ovvero il mondo si è rimpicciolito grazie alla compressione spazio-temporale resa possibile dai mezzi di trasporto. All’epoca delle scoperte geografiche per fare il giro del mondo ci volevano due anni di navigazione, negli anni ’30 bastavano 8 giorni in aereo, fino ad arrivare alle 31 ore che un Concorde a metà degli anni ’90 impiegava per circumnavigare il globo: un mondo più stretto è un mondo in cui tutto è facilmente raggiungibile.
Secondo passaggio: la realtà è una costruzione sociale
Il coronavirus è contagioso ma relativamente poco mortale, ma noi abbiamo l’impressione che sia pericoloso e che attenti alla nostra sicurezza e incolumità: perché? Per via della percezione sociale. Noi non vediamo il mondo per com’è oggettivamente, ma per come lo percepiamo soggettivamente. Pertanto, le persone agiscono nel mondo a seconda della percezione che ne hanno. Provate a dire a chi ha paura dell’aereo che è un mezzo di trasporto sicuro: riceverete un sorriso accondiscendente per poi affidarsi alle preghiere durante decollo e atterraggio. Dite a qualche cittadino estremista che gli sbarchi dei migranti – dati alla mano – sono limitati: sarete accusati di essere buonisti e bugiardi. Noi non viviamo nel mondo reale, ma nel mondo così come ci viene rappresentato dalle persone che sono intorno a noi. Qual è il mondo del coronavirus? Un mondo in cui dicono di stare calmi ma poi chiudono l’hinterland milanese, un mondo in cui dicono che non c’è pericolo e poi sospendono gite scolastiche, feste di Carnevale, chiudono scuole e università. A nulla serve quando dicono che non c’è da avere timore: questi sono atti eccezionali che rompono la tranquilla quotidianità del nostro mondo sociale. Il sillogismo – fallace – è presto fatto: per essere delle azioni così eccezionali, sicuramente c’è qualcosa che non va. La nostra tranquilla vita fatta di abitudini e tran-tran improvvisamente è sospesa, si comincia ad avere ansia e timori. Cerchiamo conferme che comunque la situazione è sotto controllo e che tutto comunque sta seguendo un percorso preciso. Cerchiamo notizie e conferme nei media.
Terzo passaggio: dipendenza mediale
Abbiamo bisogno di informazioni su cosa sta succedendo: seguiamo avidi talk show, special televisivi, telegiornali, titoli dei quotidiani, cominciamo a dipendere dai media. La teoria della dipendenza mediale – sviluppata nel 1989 – sostiene che quanto più la società viene percepita come instabile, tanto più andiamo alla ricerca di informazione, qualunque tipo di informazione. Così qualunque media che parla di coronavirus trova un’audience disposta a seguirlo in maniera più o meno acritica perché lo scopo è tranquillizzarci, darci un contesto per capire cosa succede. Ma il problema delle notizie è il framing (cornice di significazione): io posso anche raccontare al Tg che il coronavirus non è pericoloso ma le immagini a commento sono farmacie con disinfettanti terminati, laboratori di ricerca, persone cinesi in quarantena, poliziotti con la mascherina. Gli esperti in televisione non sempre sono concordi tra loro: c’è chi dice che è un’influenza, chi invece dice che è più di influenza, chi dice di mettere le cose nella giusta prospettiva. I politici si accusano vicendevolmente. Nessuna certezza. L’orecchio sente inviti alla calma, l’occhio vede scene di ansia e paura. Poi ci sono media senza scrupoli che cavalcano i timori ben sapendo di trovare chi non avendo strumenti critici adatti è disposto ad ascoltare e a farsi convincere. Serpeggia la paura, non è più una sensazione: diventa concreta, si vede, si percepisce, si tocca. Allora ci guardiamo intorno e vediamo cosa fa il nostro vicino.
Quarto passaggio: la pressione dei nostri pari
Il coronavirus si diffonde: i telegiornali non parlano d’altro, la stampa apre con titoli strillati e non importa se inviti alla calma o al panico. Ci guardiamo intorno a noi e cerchiamo di capire cosa fa il nostro vicino di casa, lo sconosciuto che attende l’autobus, la persona in fila alla cassa del supermercato dietro di noi. Cominciamo a subire la pressione dei nostri simili, la peer pressure. Con questo concetto si definisce l’influenza sociale che esercitano le persone che consideriamo simili a noi (i nostri pari). Allora vediamo che in giro spuntano mascherine chirurgiche nonostante abbiano detto in televisione che non servono. Lo sconosciuto che attende il bus guarda arrabbiato un ragazzo dai tratti somatici orientali. La persona in fila alla cassa dietro di noi ha comprato dei disinfettanti, tanta pasta, tanta acqua. In giro in città le farmacie espongono cartelli indicando la fine delle scorte di detergenti per le mani e mascherine chirurgiche. Andiamo sui social media: i nostri contatti ironizzano con meme e battute, ma altri rimproverano il fatto che l’umorismo stia sottovalutando la minaccia. Altri amici con tono scherzoso mostrano la scorta di pasta e bibite caloriche appena acquistate. Qualcuno posta un video di supermercati presi d’assalto nelle zone con maggior numero di contagiati. Decidiamo di fare la spesa – comunque dovevamo farla – per scrupolo compriamo qualche pacco di pasta in più, qualche taglio di carne in più. Piano piano molti fanno lo stesso. Il direttore del supermercato ci dice di pazientare l’indomani per gli altri prodotti perché non si aspettavano una tale richiesta, ma in realtà abbiamo il sospetto che non avremo il nostro pacco di pasta così come non avremo il nostro disinfettante e la nostra mascherina. Ormai è isteria: allarmi televisivi, il baccano dei social si dibattono tra blasé e complottismo, in giro mascherine ovunque, aeroporti con controlli termici, scuole chiuse, ospedali presi d’assalto. La vita quotidiana di prima è pesantemente compromessa.
Come controllare la paura
E in tutto questo che fine ha fatto il coronavirus? Semplice: è scomparso.
Il problema adesso non è più se ammalarsi oppure no: il problema è diventato come controllare la paura nostra e di chi sta intorno.
La sociologia ha diverse specializzazioni che avrebbero potuto dare importanti indicazioni nella gestione di una crisi: il tono di voce da usare da parte delle istituzioni, il rapporto con la stampa e le testate giornalistiche, le strategie di accettazione delle misure eccezionali come i cordoni sanitari e il blocco di festività e raduni collettivi, i rapporti con la comunità cinese, l’attenzione sulle azioni legati al sistema sanitario nazionale e ai laboratori di ricerca, la comunicazione del rischio coronavirus. Ma tutto ciò non è stato possibile farlo perché hanno agito due diverse forze incontrollate: da un lato la paura che si è diffusa a tutti i livelli aiutata da un catalizzatore molto potente come la mancanza di fiducia diffusa nel sistema Paese.
Nel momento in cui sto scrivendo si parla del primo effetto concreto del coronavirus: la crisi economica in diversi settori produttivi nazionali. Ma solo nelle prossime settimane avremo modo di vedere effetti più a lungo termine sulla vita collettiva.
D’altronde come diceva Franklin D. Roosevelt: “l’unica cosa di cui dobbiamo avere paura è la paura stessa”.