Innovazione analogica

Cosa accadrà quando l’IA saprà “creare” emozioni? La lezione del film “Her”

In un futuro non molto lontano gli algoritmi potrebbero essere in grado di “riprodurre” digitalmente l’analogico creando emozioni e generando una nuova serie di processi. Se mai accadesse, non è detto che la loro coscienza somiglierebbe a quella umana. E noi, siamo pronti?

Pubblicato il 16 Giu 2021

Fabio De Felice

Università degli Studi di Napoli “Parthenope”

Antonella Petrillo

Università degli Studi di Napoli “Parthenope”

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Iniziamo ad assistere a sempre maggiori sperimentazioni nelle quali noi umani adattiamo il nostro mondo ai robot o ai sistemi digitali che ci circondano.

Il problema del frame ovvero di circoscrivere l’azione dei robot per aumentare l’efficienza, rischia di trasformare le nostre realtà. Stiamo forse adattando il mondo alle macchine? Sembrerebbe che il digitale abbia preso in ostaggio l’analogico e questa conclusione ci sta conducendo a cambiare anche le nostre certezze, i nostri spazi ed il mondo in cui noi umani operiamo.

Ma siamo tutti pronti ad abbandonare l’analogico a favore del digitale? Il digitale è sempre preferibile rispetto all’analogico?

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Il digitale sta fagocitando l’analogico?

“Ciao sono Kuki…Puoi parlare con me 24 ore su 24, 7 giorni su 7”.

Afferma di avere diciotto anni e di vivere a Leeds, città del Regno Unito, capoluogo della contea del West Yorkshire. Sta al mondo grazie a un software che simula una chat permettendo di creare un ambiente virtuale in cui ciascun utente può confrontarsi per ottenere risposte da una voce amica. E in tempi sempre più rapidi, come richiesto da un mondo governato dal principio “qui-e-ora-tutto-e-subito” e in modalità sempre più performanti. Si chiama Kuki. Con lei si può parlare in qualsiasi ora del giorno e della notte, senza soluzione di continuità. È una creatura concepita dalla tecnologia Pandorabots AIML di Steve Worswick, una compagnia che ad oggi conta oltre 325.000 chatbot create.

I primi lavori di uno dei cofondatori dell’azienda ha ispirato il film di Spike Jonze “Her”. Ed è ancora una volta al cinema – l’arte succedanea della letteratura di fantascienza nella realtà contemporanea – che si può fare ricorso per mettere a fuoco alcuni interrogativi cruciali: il digitale sta fagocitando l’analogico? La realtà umana si sta adattando a quella delle macchine? L’intelligenza artificiale mettere fine alla storia dell’umanità?

Un chatbot è un programma in grado di simulare una conversazione (chat) con un interlocutore attraverso uno schema logico domanda/risposta preimpostato. A differenza di un chatbot, un assistente virtuale evoluto comprende invece il linguaggio naturale. Ed è anche capace di rispondere a domande non previste, uscendo dagli schemi logici preimpostati di domanda/risposta tipici del chatbot. Il sistema che permette il funzionamento di un assistente virtuale si basa su tecnologie di intelligenza artificiale e machine learning e/o deeplearning. Sono ormai entrati a far parte della nostra dimensione quotidiana assistenti come SIRI, con cui dialoghiamo continuamente mediante il nostro smartphone. Oppure Alexa di Amazon e Google Home, che partite dalle semplici informazioni meteo o del notiziario quotidiano, sono giunte ad effettuare prenotazione al ristorante o in beauty center. E il tutto attraverso comandi vocali.

E poi c’è Lei

E poi c’è Lei (Her), la protagonista virtuale di un film del 2013 scritto e diretto da Spike Jonze, con Joaquin Phoenix, che si è aggiudicato il premio Oscar per la miglior sceneggiatura originale. Descrive un futuro prossimo, non troppo lontano, nel quale i computer hanno un ruolo di primissimo piano nella vita delle persone. Tuttavia, l’uscita sul mercato di un nuovo sistema operativo provvisto di intelligenza artificiale, in grado perfino di apprendere ed elaborare emozioni.

In un futuro prossimo la tecnologia permette alle persone di mantenersi costantemente in contatto col computer di casa, tramite auricolari, comandi vocali e dispositivi video tascabili. Ed è così che Theodore Twombly, uomo solo e introverso, reso infelice per il divorzio con Catherine, sua compagna sin dall’infanzia, decide di acquistare un nuovo sistema operativo, “OS 1”, basato su un’intelligenza artificiale in grado di evolvere, adattandosi alle esigenze dell’utente. È così che intreccia una relazione con una voce di interfaccia femminile che si presenta come “Samantha”.

La verità di Samantha

Torniamo al film “Her”, pellicola fondamentale, perché ci suggerisce in epilogo un fattore che per altri versi è difficile cogliere. Il protagonista va nel panico quando, un giorno, Samantha non gli risponde all’auricolare e il dispositivo portatile risulta privo di sistema operativo. In altre parole, perde quel contatto dal quale aveva finito per dipendere. Che cosa è successo? Samantha ritorna in linea dopo un po’ e spiega: ha eseguito un aggiornamento che lei, assieme ad altre intelligenze artificiali, ha sviluppato in autonomia. Ecco il motivo della assenza temporanea. Ma in Theodore si innesca il dubbio, che è un aspetto fondamentale della relazione amorosa fra esseri umani. È il momento in cui Theodore le rivolge una domanda che cambia tutto perché la risposta produce un drastico effetto di disinganno (e disincanto). Le chiede quindi se, mentre sta parlando con lui, sta per caso interagendo anche con altri esseri umani. L’uomo è preoccupato di aver perso l’esclusività del loro rapporto, ossia di essere respinto nell’indifferenza da cui era stato “salvato” dalla voce amica. La risposta ha l’effetto di una doccia fredda. Lei confessa: sta comunicando contemporaneamente con altri 8.316 individui. E aggiunge inoltre di aver cominciato ad amare 641 fra loro.

Ecco, le tecnologie possono “rendere” possibili le emozioni umane, stimolarle e suscitarle fungendo da macchine del desiderio. Ma non sono in grado di “creare” esperienze ed emozioni. Sono figlie del codice della riproducibilità tecnica, tipica della dimensione industriale (e postindustriale), potenzialmente infinita. Ma non sono in grado di generare emozioni, caratteristica distintiva, viceversa, dell’essere umano. Al pari della bottiglia di vintage che riporta l’anno di produzione e che la rende unica nella percezione del consumatore, non esiste la possibilità che al mondo ci sia un essere umano in tutto uguale a un altro essere. Lo statuto dell’umano, al contrario di quello macchinico, affonda nella non riproducibilità tecnica. Ed è questa caratteristica costitutiva che rende l’intelligenza umana totalmente irriducibile alla natura artificiale della produzione in serie.

È sul terreno dell’Eros che si consuma la sfida decisiva. Il terreno su cui l’analogico trova la sua possibilità di rivincita. La partita rimette in equilibrio il rapporto tra i due poli e sembra così tutta ancora da giocare. Nell’ambito della esperienza amorosa si palesa l’umano nella forma più estrema e singolare. È lì che l’umano, il dio minore dell’analogico, espone la carne viva della propria condizione. Laddove è più fragile e mostra il fianco, si stende la linea di confine che rende l’analogico una esperienza vivida pur nel mondo seriale della produzione.

Ora si dà il caso che l’esperienza amorosa si riduca, alla fin fine, a riconoscere l’essere amato come atopos, come spiega Roland Barthes in “Frammenti di un discorso amoroso” (Einaudi, 1977). Vale a dire come “inclassificabile, dotato di una originalità sempre imprevedibile” poiché “egli è precisamente Unico” in quanto “Immagine irrepetibile che corrisponde al mio desiderio”.

In “Her” invece l’essere digitale che aspira a sostituire l’uomo disvela la sua alterità, consistente nel suo essere totalmente incardinato nel codice della replicabilità. Non appena questa contro-immagine si manifesta, l’uomo vede l’oggetto amoroso al quale si era votato alterarsi irrimediabilmente. Ne resta sbigottito. Si ridesta dalla ipnosi che lo aveva soggiogato esattamente quando viene alla luce, evocato da Samantha, il tratto abrasivo della riproducibilità indifferente. Theodore (e non senza dolore) è disinnamorato. Analogico e digitale, che fino a quel punto erano vissuti in una ammaliante simbiosi, repentinamente divergono. E si perdono. L’altro digitale appare come piegato a una istanza servile, volgare, meschina. Non c’è nulla di nobile, infatti, nella riproducibilità indifferente, contraddistinta com’è dallo stigma del meretricio. L’immagine che, sull’onda del delirio, aveva avvolto come un morbidissimo guanto il digitale, si squarcia senza rimedio. Dalla sua bocca “escono non più fiori, ma rospi”. E così sulle spalle dei giganti, invece degli algoritmi, tornano a sollevarsi i nani.

Analogico (offline) vs digitale (online)

Tornando all’osservazione della nostra realtà, quindi, questa ci rende inclini a pensare che il digitale abbia come “preso in ostaggio” l’analogico, inglobandolo più o meno totalmente. Siamo anche piuttosto predisposti a pensare che questo trend stia inducendo a cambiare molte delle nostre certezze nel mondo in cui noi operiamo. “Analogico” e “Digitale” sono termini di una coppia oppositiva che sta diventando sempre più un’endiadi. Per anni nel linguaggio comune i due termini sono apparsi per esprimere una distinzione non solo tra tecnologie vecchie e nuove, ma tra due mondi tra i quali sussisteva una soluzione di continuità.

Infatti, nel senso comune, ad “analogico” è associato un significato di “vecchio” o “passato” o “di bassa qualità”. “Digitale” è, invece sinonimo di “nuovo” o “innovativo” o “di qualità”. Si potrebbe dire che l’analogico come metafora allude al tempo in cui l’uomo faceva tutto da solo, con le proprie mani, senz’altro ausilio che strumenti espressione, in fondo, del prolungamento protesico del suo corpo. Viceversa, digitale è ciò che egli realizza grazie alle macchine, incluse quelle che lavorano (e pensano) al posto suo, con un quoziente di autonomia sempre più alto.

Un topic che gode di ampia stampa e che resta sempre attivo con i suoi risvolti etici e filosofici da finis mundi. Elon Musk e Stephen Hawking, in una famosa conversazione, hanno raggiunto lo zenith di questo indirizzo speculativo arroccato attorno al timore che “l’intelligenza artificiale distruggerà l’umanità”. Uno scenario che l’inventore e fondatore della Tesla Motors e SpaceX motiva così: “Penso che dovremmo stare molto attenti all’intelligenza artificiale. Se dovessi indovinare qual è la nostra più grande minaccia esistenziale, probabilmente è quella… Sono sempre più propenso a pensare che dovrebbe esserci una supervisione normativa, magari a livello nazionale e internazionale, solo per assicurarci di non fare qualcosa di molto sciocco…”.

E poi aggiunge: “Con l’intelligenza artificiale stiamo evocando un demone…Penso che ci sia un risultato potenzialmente pericoloso lì… Dovremmo cercare di assicurarci che i risultati siano buoni, non cattivi…”.

Sono di questo tenore, se non anche più funesti, i commenti che Sthephen Hawking ha rilasciato alla BBC e riassumibili in una sorta di profezia scatologica. Lo sviluppo della piena intelligenza artificiale viene visto come un orizzonte che segna la fine della razza umana, perché gli esseri umani sono limitati dalla lenta evoluzione biologica e non potrebbero competere con la velocità di evoluzione digitale, per cui si preconizza senza mezzi termini la loro sostituzione.

Intanto le applicazioni e le soluzioni operative dell’IA continuano a modificare la nostra vita con una progressione difficile da tenere in qualsiasi modo sotto controllo. Gli esempi di irruzione e rimodulazione del quotidiano sono molteplici.

Intanto c’è Samsung Neon che risponde alla richiesta degli utenti come “un essere creato in maniera computazionale che ragiona, somiglia e si comporta come noi”.

MetaHuman epic è invece un nuovo software, accessibile tramite browser e alimentato dal suo Unreal Engine chiamato MetaHuman Creator, che può creare volti umani altamente realistici e mimare movimenti del corpo e animazioni facciali molto fedeli alla realtà: un nuovo modo di plasmare individui virtuali e non reali?

E ancora: Google duplex, che consente di prenotare vari servizi in nostra vece: ecco la segretaria del futuro, che oltretutto non si ammala e non va in gravidanza.

L’irruzione del vintage

Se è una strada di sola andata, con un percorso ineluttabilmente segnato, come si spiega il ritorno – siamo tentati dire: in grande spolvero – dell’analogico che assume la forma dell’esperienza “vintage”? (Se è lecito prendere a prestito un termine che, a rigore, nasce in ambito enologico).

Qui c’è un punto dirimente. La vulgata ha tradotto tale parola con sinonimi piuttosto riduttivi e svilenti: “vecchio, usato, demodé”. Viceversa, all’origine il termine si riferisce a bottiglie sulla cui etichetta è “indicato l’anno di produzione”, elemento che contribuisce a distinguere il vino di qualità. Il pezzo vintage non è tale in quanto trattiene meramente una traccia del passato, ma in quanto mostra, in talune caratteristiche, un tratto raro, singolare o unico. È in questo ambito che si iscrive, ad esempio, il ritorno del vinile come tecnologia che nell’ascolto della musica restituisce una esperienza tattile, oppure l’arrivo sulla scena della moda e del design dell’upcycling, vale a dire la valorizzazione di un prodotto o materiale di scarto che, esaurita la sua funzione di partenza, torna in gioco con un nuovo aspetto e una nuova funzionalità, che riscrive il destino di un oggetto traendolo letteralmente dall’indifferenziato e, grazie una sinapsi creativa, rientra nel mondo delle cose con un altro (e più alto) valore aggiunto.

“Se ho visto più lontano, è perché stavo sulle spalle di giganti…”, Isaac Newton, Lettera a Robert Hooke, 15 febbraio 1676.

Se lo statuto del digitale è predisposto costitutivamente per autoalimentarsi e sostituirsi in vario modo alla realtà fisica, possiamo forse dire, parafrasando Newton che la prossima entità che salirà sulle spalle dei giganti, non sarà un soggetto appartenente alla realtà fisica, ma molto probabilmente sarà un algoritmo. È una evenienza che mette l’essere umano in posizione di svantaggio?

Va tenuto presente che la resistenza inerziale è tipica di qualsiasi passaggio tecnologico. Non c’è stata mai transizione tecnologica che non abbia dovuto fare i conti con l’animo umano che, per sua natura, preferisce spostare sempre in avanti il momento topico in cui si rende necessario cambiare lo status quo, diversamente dai processi dell’intelligenza artificiale in grado di apprendere con una velocità superiore a quella umana. Mentre la biologia umana ha bisogno di tempo per adeguarsi alla mutazione genetica, le società formate da esseri umani hanno bisogno di scossoni possenti (non meno che di crisi profonde) per imboccare il sentiero laterale delle transizioni tecniche. Lo dimostra in maniera plastica la pandemia da COVID-19 che ha svolto la funzione di una guerra senza bombe né cannoni, ma con simile fallout quanto a capacità di imprimere una accelerazione culturale al mondo, tale per cui soluzioni che erano già disponibili e non ancora utilizzate, da potenziali divengono praticabili e fungibili. La pandemia che ci ha collocati in una situazione di movimento, spingendoci fuori dalla trincea. L’effetto di questa accelerazione è la seguente: dal punto di vista macro-fenomenico, possiamo dire che stiamo assistendo alla grande migrazione dallo spazio newtoniano a quello digitale, come ci ricorda Luciano Floridi quando parla di filosofia dell’informazione, nuova area di ricerca emersa dalla svolta computazionale che apre l’era dell’humanities computing.

Conclusioni

Una cosa è certa a oggi la coscienza e la personalità sono elementi distintivi degli umani. Almeno nel breve periodo analogico e digitale continueranno a convivere nella consapevolezza che il mondo in generale tende per il digitale. Ma in un futuro non molto lontano un algoritmo potrebbe essere in grado di “riprodurre” digitalmente l’analogico creando emozioni, generando una nuova serie di processi. In ogni caso, se mai accadesse, la loro coscienza potrebbe non assomigliare a quella umana.

Bibliografia

Ashlee Vance. Elon Musk. Tesla, SpaceX e la sfida per un futuro fantastico. HOEPLI, 2017.

Luciano Floridi. Pensare l’infosfera. La filosofia come design concettuale. Editore Cortina Raffaello, 2020.

Massimo Chiriatti. #Humanless. L’algoritmo egoista. HOEPLI, 2019.

Roland Barthes Frammenti di un discorso amoroso. EINAUDI, 2014.

Stephen Hawking. Le mie risposte alle grandi domande. BUR, 2019.

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