Spesso si sente parlare di indie games come se, ormai, fossero un genere a sé. Mi chiedo se davvero esista una caratteristica comune in tutti i giochi non mainstream? Un nucleo che le triple AAA potrebbero e dovrebbero imitare? Lo capiamo attraverso la testimonianza dell’artista King Napalm e del suo videogioco indipendente genere metroidvania, Cookie Cutter.
Il periodo d’oro dei giochi indie
Sembra effettivamente il periodo d’oro dell’indie, eppure, nonostante il mercato più vasto (a cui si è aggiunto da poco quello cinese), una più semplice possibilità di sviluppare videogame in proprio e un pubblico più attento ai videogame alternativi al mainstream, spesso ci si trova a fare i conti con la difficoltà di ottenere finanziamenti e con l’obbligo di piegarsi alle richieste dei mercati. Per sopravvivere, molti sviluppatori indipendenti scelgono di portare avanti i loro progetti solo nel tempo libero, così da mantenersi con la prima attività senza la preoccupazione di non riuscire a raccogliere il budget necessario per la propria sopravvivenza anche in itinere. Diventare freelance e investire (e investirsi) totalmente nei progetti indie è coraggioso, ma spesso, come mostra anche l’articolo di The Verge, comporta sacrifici spesso troppo grandi.
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King Napalm, siciliano, è da cinque anni in Inghilterra, dove, grazie al suo lavoro, è riuscito a comprarsi una casa. Anche lui, come molti altri creativi, sceglie di dividersi tra la stabilità di un lavoro come artista in Unity e portare avanti parallelamente il suo progetto indie, Cookie Cutter. Tuttavia, ammette che il suo sogno sarebbe quello di produrre totalmente del materiale proprio.
Mentre parliamo, lui è alla scrivania e continua i suoi lavori di grafica. Mi faccio raccontare come nacque e si sviluppò Cookie Cutter, anche per comprendere cosa significa “videogame indipendente” e quali sono le difficoltà e i piaceri di sviluppare un progetto totalmente proprio. Alle definizioni non ho mai creduto, ma è proprio per questo che bisogna chiarire i termini. E’ la sfumatura, la regione di incertezza ai margini che va definita: insomma un’impresa impossibile, o meglio, possibile solo accettando che questa sia un divenire continuo, una sfida a cui tutti gli interlocutori e gli utilizzatori del linguaggio devono partecipare. Prima, però, si deve riconoscere che non ci sarà mai una linea netta a circondare i termini e a dividerli uno dall’altro. “E provatelo, voi, a circoscrivere il rosso del tramonto…”, mi verrebbe da dire. Proprio nell’atto di delimitarlo, perderebbe il suo fascino e il suo senso. Wittgenstein lo diceva e in questo caso più che mai è evidente: i significati sono giochi e ognuno si intrattiene con il suo.
Come nasce un indie: il caso Cookie Cutter di Subcult team
Il personaggio principale del gioco, Cherry, era stato disegnato da King Napalm per un progetto che il suo direttore artistico bocciò. Napalm decise di non eliminarlo, ma di continuare le animazioni nel tempo libero, per trasformarlo nel protagonista di quello che oggi è Cookie Cutter.
Cherry, by King Napalm, fig. 1.
L’artista mi spiega che il tema generale di questo metroidvania nacque quando lui aveva 14 anni ed ebbe l’idea di un mondo che ai tempi chiamò Capitolo Zero. Fu allora che presero forma personaggi e storie. Così, quando Cherry uscì dalla sua penna, pensò fosse la protagonista perfetta per quel sogno, tra il cyber e il fantasy. Scuro e fluo. Ma non bastava l’idea: era necessario chi programmasse e chi si dedicasse allo storytelling e alle musiche.
Chiese subito ai colleghi, che, ogni volta, nonostante l’entusiasmo, si trovarono costretti ad abbandonare il progetto. Ad un certo punto, Napalm scoprì che il suo vecchio capo si era messo freelance. Allora, di tasca sua, pagò il professionista e insieme, per la sesta volta, ricominciarono Cookie Cutter, portando finalmente a compimento il prototipo.
Oggi Subcult team è fatto da quattro teste. Il cuore sono lui e il ragazzo che programma, Tabuto. Poi ci sono Romanov, lo storyteller, e un musicista, C-Bow. La scelta di chiamarsi attraverso pseudonimi è voluta: una decisione ben ponderata da questo team di creativi. King Napalm è un personaggio e non è dissimile da quelli che disegna e a cui non a caso riesce a conferire una personalità di cui tanti “nome e cognome” sono manchevoli. Mi chiede: “Quante domande in più riesce a suscitare uno pseudonimo rispetto a Signor Nome e Cognome ?” Non posso che essere d’accordo.
Subcult team by King Napalm, fig. 2.
Il rapporto con i publisher e il mercato
Ora che il prototipo è pronto, Napalm sta approcciando ai publisher, per venderlo. Mi dice essere stato fortunato, dato che Cookie Cutter ha attirato tanti possibili finanziatori, anche molto importanti. Certo, Napalm per far ciò deve reinventarsi. Deve diventare figura commerciale e interfacciarsi a publisher e a logiche di mercati (al plurale). Mi ammette che imparare a parlare e vendere è stata una delle sfide più grandi di tutta questa avventura.
Nell’indie, dato che i team di sviluppo sono più piccoli, salta la divisione del lavoro. È così che i membri si trovano necessariamente alle prese con attività che normalmente non competono loro. È mettersi in gioco, imparando qualcosa in più. Inoltre, seguendo la lezione di sociologi come Durkheim, superare la parcellizzazione dei mestieri, tipica delle società attuale, è combattere l’anomia e il senso di non appartenenza al gruppo che un’eccessiva divisione in competenze può comportare.
King Napalm è aperto ad accettare le richieste dei publisher, modificando il gioco. Oltre a non pensare di avere la verità in tasca, l’obiettivo è comunque vendere; pertanto, non sarebbe possibile non ascoltare la committenza e il pubblico a cui il videogioco sarà destinato. In questo, i giochi indie hanno comunque più libertà rispetto al mainstream. Non avendo come fine la massa tutta, possono accettare il rischio di non piacere a chiunque. Questo si traduce in libertà di sperimentare. Anzi, sembra proprio questa la caratteristica comune ai giochi non mainstream: fare del rischio il proprio motore propulsivo.
In altri contesti, come quello asiatico, i compromessi si fanno più stringenti. I team di sviluppo di Taiwan o di Hong Kong, non avendo alternativa alla Cina, il cui potere economico e di sorveglianza è pressoché invalicabile, si trovano costretti ad accettare le regole di censura del governo mandarino, pena il licenziamento o la prigione. Non si può creare un gioco in cui le istituzioni non siano il bene. Addirittura, certi ambienti di sviluppo hanno dovuto eliminare dalla propria palette cromatica il giallo, per non richiamarsi al Movimento degli Ombrelli reclamante la democrazia a Hong Kong. Se pertanto anche l’Occidente si volesse aprire a quel mercato, dovrebbe adeguarsi esso stesso. Per fortuna, però, la possibilità di scegliere ed essere scelti da gruppi, di nicchia, ma dislocati nel tempo e nello spazio, dà modo agli sviluppatori di conservare intatta la propria autonomia. Questa possibilità di avere un supporto comunque notevole dà piena libertà ai piccoli team di creare ed essere volutamente spigolosi. Non è un caso che il personaggio di Napalm nasca da un rifiuto e si faccia forza in virtù di quel no, per diventare l’eroina un action-adventure in pieno stile Castelvania.
Il rapporto con la community
Attorno a Cookie Cutter si è creata una bella community di appassionati (tra cui la sottoscritta, in effetti) che segue e partecipa alle fasi del videogioco. Napalm aggiorna costantemente i follower con novità, dirette, sketch, animazioni straordinarie, il tutto sempre con quella vena punk rock che contraddistingue sia l’artista sia l’ambiente del gioco.
Altra caratteristica degli indie game è il fatto che la community partecipi nelle scelte. I fan vengono coinvolti in modo più o meno attivo, a seconda che siano anche i finanziatori del progetto, attraverso pratiche consolidate di crowdfunding. In ogni caso non sono mai spettatori passivi, destinatari di un prodotto concluso. Napalm li aggiorna quotidianamente o quasi attraverso i canali social, mostrando il work-in-progress del suo progetto. Le persone commentano e quando le considerazioni sono intelligenti, vengono prese in considerazione. Tuttavia, ci tiene a ribadirlo, è Napalm il creatore: lui fa il lavoro, lui ci sta anche 20 ore consecutive sopra e lui deve essere soddisfatto.
Se si vuole che il videogioco sia onesto, è necessario che in primis il team sia sincero nelle scelte compiute, amando un risultato che si sente ancora proprio. È pertanto necessario non farsi andare bene direttive di cui non si è davvero convinti. Insomma, la regola è ascoltare, ma non essere guidati ciecamente dal pubblico.
A volte i commenti sono aggressivi o troppo accondiscendenti, ed è facile, dice Napalm, venirne influenzati. Eppure, se si finisce per dare retta sempre e solo alla community, si piega l’indie alla logica pubblicitaria. Se si dà al pubblico quello che il pubblico vuole, si finisce ingabbiati nel visto, stravisto cento volte. Si tradisce il progetto, mutilando il clinamen della creatività. Fare del rischio una virtù, si diceva, come caratteristica centrale dei videogame indie. È un aspetto a cui, in realtà, dovrebbero rifarsi anche le AAA, per abbandonare la finta sicurezza dei sequel. I videogiochi troppo esplorati stanno perdendo appeal: testimone di ciò è il graduale declino delle vendite di Call of Duty di anno in anno.
Negli indie il budget e il tempo risicati sono vissuti come un’opportunità. I piccoli team si fanno forza del poco, rispondendo con la forza dell’arte e del pensiero laterale. Gli indie sono arte pura, creatività, deviazione perché rischiano e non si fermano di fronte all’incertezza. La sfruttano per creare un ambiente a cui altrimenti non avrebbero pensato. La grande motivazione a conseguire il risultato li porta a fare di più con meno. Trovano soluzioni che non avrebbero pensato in altre condizioni di budget pieno. Attenzione, questo non significa che non investire adeguatamente sui piccoli team indipendenti sia la scelta giusta, anzi. Pensiamo a cosa farebbero gruppi di giovani appassionati se avessero tutte le risorse delle triple A!
Il design di personaggi non ipocriti
Secondo un’indagine condotta dall’associazione fondata dall’attrice Geena Davis, l’Institute on Gender in Media, è emerso quanto sia ancora preponderante la mascolinità nell’industria dei giochi e nelle comunità di gioco. Negli indie, invece, si trovano alternative ideologiche alla “man box”; messaggi e personaggi altri rispetto al solito proposto. Inoltre, siccome i giochi indie nascono dalla volontà di creare ciò in cui si crede, non sono viziati dall’ipocrisia di un’inclusione forzosa. Negli indie la tecno-diversità videoludica è a tutti gli effetti autentica: specchio della socio-diversità che crea e della comunità che partecipa.
Cherry, ad esempio, è un robot femmina. Non ha la fisicità della solita top model. Eppure, è talmente fiera, punk, tosta, da risultare sexy e fonte di ispirazione per tante e tanti. Nella storia nasce dall’ingegno della scienziata Shinji di cui finirà per per innamorarsi.
Genesis by King Napalm, fig. 4.
Violenza, eros, fluorescenze e sincerità ad ogni costo. In Cookie Cutter l’assenza di ipocrisie traspare tanto nel concept iniziale e quanto nel personaggio. Cherry, come l’ideatore, non ha mai peli sulla lingua. King Napalm ha dato vita a un personaggio che ha acquisito vita oltre lui: è quando si dice caratterizzazione perfettamente riuscita. Il design può trasformare il buon flow di gioco in un innamoramento vero e proprio, capace di scavalcare il singolo momento di game-play, invadendo identità e ambienti circostanti, fisici e virtuali. Un ottimo personaggio favorisce immedesimazione, identità, community, cosplay, cultura.
Cookie Cutter, by King Napalm, fig. 5.
Se si ascolta solo la massa, la maggioranza, si finisce per essere innocui, ma a Napalm l’arte innocua non piace. “Un personaggio che non dà fastidio, mi dà fastidio”. Ci tiene a sottolineare che il genere che ha creato è punk-rock: obbligatoriamente edgy e anarchico – ci possono chiarire il concetto “Prudenza mai”, di Ivan Graziani o Enrico Ruggeri con “Punk (prima di te)”.
Se qualcosa dà fastidio, in qualche modo ha attirato l’attenzione rispetto a tutto il resto: ha dirompenza e può resistere nel tempo. Nelle grandi mitologie ci sono sempre stati personaggi fastidiosi. L’antieroe è un archetipo, e spesso è proprio quello che ci fa mettere in discussione. Negli altri ci danno fastidio quei difetti che non vogliamo riconoscere in noi, come vuole la spiegazione junghiana. Pertanto il fastidio che possiamo provare per qualcuno dovrebbe essere un campanello di allarme con cui metterci in dubbio e riappropriarci di quell’intimità che cerchiamo in ogni modo di rimuovere dalla coscienza.
Non solo, l’imperativo che ci comanda di essere sempre in una posa pubblicitaria, è mutilazione. L’America tuona la non convenienza della tristezza. “Sparati l’antidepressivo e poi spacca il mondo con il sorriso”, ecco cos’è il diritto alla felicità americano. Se le emozioni di disgusto e disaccordo esistono e si sono mantenute nell’evoluzione, ci sarà un motivo. Limitarle o evitarle, anche nel gioco, è mutilare il personaggio e i gamer.
Cherry by King Napalm, fig. 6 e 7
Napalm mi spiega che i personaggi “cattivi” sono quelli che hanno un passato. Quando si caratterizza un soggetto va costruita anche la sua psicologia e quindi la sua storia. Ad esempio, i “cattivi” sono quelli che sono stati bullizzati alle elementari; non nascono dal nulla. L’innocuo, invece, è quello che nella vita sta bene e non ha mai avuto problemi. Ma è interessante un soggetto di questo tipo? Sopravvive nei nostri cuori? Il personaggio “innocuo” è anche quello che alle elementari disturbava il personaggio “cattivo”; quello edgy. Quindi ci si domanda chi sia il cattivo dei due. La società, forse. Questa, attraverso i suoi discorsi, caratterizza la normalità e dà giustificazioni al primo per essere escludente. Incentiva la vera cattiveria dell’innocuo e la marginalità del secondo. E’ un sistema auto-alimentante.
Conclusione
Insomma, a Londra è certamente più facile che in Italia. King Napalm, se non si fosse spostato oltre la Manica, sarebbe stato ancora a lavorare in nero chiedendo finanziamenti regionali per sviluppare il suo gioco. Quei finanziamenti sarebbero poi andati a un don Ciccio qualunque e non al giovane creativo. Il problema è che ancora i videogiochi sono intesi come una perdita di tempo e non un lavoro (e un’arte). Raccontare queste storie di successo, potrebbe, allora, servire a molti giovani per trovare ispirazione sul loro futuro. Non solo, queste testimonianze potrebbero ispirare la società stessa, riconoscendo nei videogame un’autentica ricchezza.