VIDEOGAME CULTURE

Cosa rimane di The Last of Us, dopo la serie tv

Cosa rimane dopo la conclusione di The Last of Us la serie tv? Forse la cosa più bella, ossia non solo un legame fecondo tra interattiva del videogioco e fruizione proiettiva cinematografico-televisiva ma la consapevolezza che i due mondi non collidono ma anzi che i due universi si arricchiscano. Ecco perché

Pubblicato il 16 Mar 2023

Luca Federici

Investigatore antiriciclaggio; esperto di comunicazione, autore di Mafia e mafie: Cosa nostra e la dote vincente

last of us

“Scrivere per la TV è come giocare a Call of Duty, realizzare videogiochi è come andare in guerra”, disse Halley Gross, la sceneggiatrice della fu blasonata serie TV Westworld (specificatamente della bellissima stagione inaugurale; 17+), subito dopo aver concluso (2020) da co-writer la sua prima esperienza videoludica con The Last of Us Part II, il sequel del videogioco appena conclusosi anche nella sua prima season serial televisiva.

Una relazione, quella con i videogiochi, tra piccolo e grande schermo, retrodatata di decenni: fatta di bassi (moltissimi) e di alti (davvero rari),ma che da quest’anno può propriamente annoverarsi tra le perle del genere The Last of Us, la serie TV.

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Un rapporto complicato e forse, proprio per questo, molto interessante

Per quanto il videogioco abbia ormai superato il mezzo secolo di vita come medium e il suo impatto nell’industria, ancora più che nella cultura di massa, possa annoverarsi nella TOP 3 dell’intrattenimento universalmente compreso, è epidermico constatare di come e di quanto le sue figure di riferimento artistico-culturali, a mero titolo esemplificativo, di Dan Houser, Hideki Kamiya, Hideo Kojima, Ken Levine, Shigeru Miyamoto, Hidetaka Miyazaki, Hironobu Sakaguchi, Yoko Taro, Fumito Ueda e Warren Spector possano ritenersi quasi completamente subalterne, almeno nell’immaginario collettivo e nella percezione della stragrande parte del panorama intellettuale mondiale, dinanzi ai registi e agli sceneggiatori della proiezione lato sensu intesa come per esempio Stanley Kubrick, Alfred Hitchcock, Federico Fellini, Charlie Kaufman, Akira Kurosawa, Lars von Trier, Francis Ford Coppola, Aaron Sorkin, Quentin Tarantino e Woody Allen.

Ma questo non deve spaventare e forse è anzi connaturato a quasi ogni media e persino (sotto)categoria di medium affacciatosi nell’esperienza umana, pure come evoluzioni consequenzialmente redenti: come la «licenziosità» dei romanzi rispetto la seriosità dei tomi religiosi, per poi divenire la “levità” cinematografia dinanzi la «cultura» letteraria classica (e parlando di recenti storie di riscatto, ciò è lapalissiano nel monumentale Babylon (17+) di Damien Chazelle), quindi il «trash» del piccolo dinanzi l’«arte» del grande schermo e, ora, tra l’«infantile» prodotto videogioco a cospetto di «opere» in format serial televisivo.

Inoltre, soffermandosi alla cinepresa, perché tra i grandi registi e sceneggiatori della storia noi oggi annoveriamo per lo più individui che produssero i loro capolavori ben oltre i primi cinquant’anni di vita della cinematografia (quindi dopo il periodo 1895-1945) principianti con la proiezione su schermo dei due fratelli Auguste e Louis Lumière di un treno a vapore in movimento.

Anche perché, come quasi ogni “rivoluzione” comunicativa, il videogioco ha sue proprie forme di ingaggio, date dall’interazione, che sono uniche: per cui nella lista di cui sopra sarebbe altrimenti difficile per non dire impossibile inserire nomi segnanti e seminali come quelli di Will Wright (game designer di archetipi propriamente videoludici come SimCity (PEGI 7+) e The Sims (PEGI 12+)), John Carmack (l’«inventore» dei FPS: First Person Shooter), Kazunori Yamauchi (il “padre” del «real driving simulator» via Gran Turismo; PEGI 3+), Markus (Notch) Persson (il creatore di Minecsraft; PEGI 7+) e forse prematuramente ci azzardiamo di annoverare anche Palmer Luckey (lo “sdoganatore” della realtà virtuale mainstream; il «prematuro» di cui sopra si riferisce al mezzo della realtà virtuale che potrebbe essere molto più di una “mera” estensione del videogioco e non già all’innegabile e assodato impatto dell’allora giovanissimo e letteralmente fortunato disruptor indossante improbabili camicie hawaiane).

Quindi, si è agli albori più che di un Rinascimento videoludico, di un vero e proprio (potenziale e mirabile) periodo di maturazione in cui non soltanto i videogiochi adottano, copiano e si ispirano agli altri media e su tutti quello cinematografico e serial televisivo, ma che si possano permettere anche di condizionarlo, contaminarlo e farlo evolvere. Producendo non solo ammirazione ma pure un “egoistico” salto evolutivo, e in questo caso del videogioco in quanto tale: come medium finalmente affrancatosi e indipendentemente valoriale dal cinema, come Outer Wilds (2019; PEGI 7+) da ultimo ha evidenziato attraverso la sua genomica narrazione ambientale.

Ma in questo articolo si parla di «rapporto» (e non già di emancipazione) e come ogni rapporto, intrinsecamente, esso si fonda tra due parti e pertanto l’analisi né può né deve focalizzarsi esclusivamente sull’una o sull’altra, ma su entrambe, in quanto tali: quivi quella videoludica e cinematografico-serial televisiva, mediata appunto dal caso di specie rappresentato da The Last of Us.

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L’originale, il sequel, l’adattamento serial televisivo e il cambiamento dei tempi

Chissà quanto scherzasse, la co-sceneggiatrice Halley Gross, quando proferì quella frase in quella lontana tardo-primavera del 2020, tra il videogiocare a Call of Duty (PEGI 18+) e l’effettivamente prendere parte a un conflitto: in un mondo già sconvolto dalla COVID-19 (una variante virale non troppo distante da quella fungina che rappresentò l’inizio della fine in The Last of Us) e che in quei mesi di tre anni or sono veniva proprio definita «guerra contro il virus» ma lungi dall’aspettarsi anche una guerra d’aggressione combattuta a suon di piombo sul suolo d’Europa (e annessi sentimenti viscerali di cui essa è intrisa: la violenza, la vendetta, l’altruismo, l’amore, il potere) e con l’allora eccitazione del pubblico per l’imminente uscita del seguito di The Last of Us. Prima che una consistente per quanto minoritaria parte della fanbase dell’originale, si scagliò proprio contro i creatori del brand per aver “tradito” il senso del capostipite e aver fatto prendere al prosieguo delle avventure di Joel Miller ed Ellie Williams una “piega” politicamente liberal-progressista se non addirittura woke.

Infatti, The Last of Us Part II (PEGI 18+) attorno ed ex post l’uscita venne pesantemente contestato e chi vi ci aveva lavorato addirittura minacciato, con l’inquisizione di avere trasformato un videogioco in un costoso (€75,00 da listino al day one per copia venduta) mezzo di propaganda LGBTQQIA+ e forzata rappresentazione etnico-sociale (erano le settimane del riacutizzarsi di Black Lives Matter (BLM) a seguito della morte di George Floyd) per potenzialmente plagiare giovani menti e finanche condizionare l’esito delle incandescenti cinquantanovesime elezioni presidenziali negli Stati Uniti d’America (Donald Trump vs Joe Biden: quelle che poi si conclusero con l’assalto (2021) a Capitol Hill).

Un’acredine che soltanto parzialmente s’è vista con la prima assoluta della serie TV di The Last of Us (14+), forse perché l’età media e il livello culturale di chi fruisce di cinematografia latamente intesa è più elevato; forse perché i tempi sono (davvero) cambiati, forse per entrambi i motivi. O, forse, perché ormai ci si è abituati.

Anche se di ragioni, questa volta, i “puristi” dell’indimenticabile The Last of Us ormai uscito dieci anni fa ne avrebbero avuto teoricamente ben donde (si fa per dire): perché la serie TV di quest’anno per molti aspetti richiama, ricalca e addirittura si adagia sull’opra interattiva riproponendola trasposta uno-a-uno con tanto di inquadrature, citazioni, manierismi, ovvie ambientazioni e storytelling ma anche prendendosi licenze, ora per ragioni contingenti (tra il 2013 e il 2023 s’è vissuta una vera pandemia e la consapevolezza sul cambiamento climatico è ben più popolare), di appeal (un attore e un’attrice come coprotagonisti blasonati (e bravi!) come Pedro Pascal e Bella Ramsey anziché le controparti (certamente senz’altro all’altezza) che hanno dato vita ai personaggi digitali originari, rispettivamente Troy Baker e Ashley Johnson – anche se ambedue faranno parte di brevi ma non meno gradite comparse nel serial: con la seconda pure con uno spiccato ruolo dalla pregevole performance ), ora di marketing (cambiare il modo di propagazione dell’infezione (ufficiosamente) per evitare che gli alti cachet pagati finissero comunque oscurati dalle maschere che i protagonisti avrebbero dovuto altrimenti indossare per proteggersi dalle spore infettive e (ufficialmente) certamente anche per evitare che il magistrale livello recitativo del neo-duo venisse lenito da un così stupido ingombro), ora “politico”-sociali (personaggi secondari, laterali e comparse rappresentativi di quasi ogni spettro umano, se necessari anche imbruttiti e invecchiati rispetto l’opera originale) e ora di puro amore per l’espressività artistica in ogni sua forma (grandi parentesi narrative nonché piccoli o rilevanti cambiamenti di storia – comunque il fulcro sempre rimando tale, dall’inizio alla fine – tra l’opera videoludico-originale e la serie tv).

Tutte caratteristiche che noi accogliamo, più o meno entusiasticamente, perché comunque permettono di riflettere.

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Il design che “vince” sulla rivoluzione

Nel 2013 The Last of Us (PEGI 18+) non inventava nulla nel mondo dei videogiochi, ma lo ridefiniva. Nel 2023, l’omonima serie TV non è forse quel capolavoro che potrebbe far ricredere sulla bontà televisiva (e tantomeno quella videoludica) al «quanto di più vicino al Grande Romanziere Americano», Jonathan Franzen, come invece gli hanno permesso di fare serial à la The Wire (18+), Friday Night Lights (14+), Breaking Bad (17+), Nurse Jackie (18+) e Silicon Valley (16+), né The Last of Us si avvicina alla precedente e, quella sì mirabile miniserie, Chernobyl (16+) di Craig Mazin, ma nondimeno The Last of Us la serie tv è un tassello che sdogana, emancipa e valorizza i videogiochi in quanto tale. E rappresenta un fulgido esempio di ottima, più costosa e di maggior successo trasposizione cinetelevisiva di un videogioco, con valore aggiunto per ambo i media (che è valsa puro il pubblico plauso del CEO of Microsoft Gaming, Phil Spencer, pure nelle more di una causa giurisdizionale dal valore di €65 miliardi che vede Sony all’attacco di Microsoft per l’acquisizione di Activision Blizzard nel settore videogaming, con il “capo” della diretta concorrente di PlayStation, Xbox, che tributa: «È incredibile. Hanno fatto un ottimo lavoro con l’adattamento di un fantastico videogioco sullo schermo televisivo: complimenti a tutte le squadre che ci hanno lavorato»).

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Perché fu proprio l’ineffabile Craig Mazin a cercare un primo contatto con il creatore di The Last of Us, Neil Druckmann, per realizzare la serie tv, diventandone poi in tandem sia ideatori che sceneggiatori: dopo che l’autore del videogioco, ormai volto divenuto riconoscibile e annoverabile tra i “grandi” del settore, era riuscito a fare “saltare” persino i contratti cinematografici (2014) della trasposizione del videogame perché, a dir suo, da un programmato lungometraggio con quel tipo di dirigenza multinazionale e di manager orientati all’incasso facile, avrebbero compromesso la “sua” opera artistica. Per un risultato che in formato videogioco era riuscito perfettamente a coniugare l’opera artistica con il prodotto da vendersi, ma che con quei professionisti a bordo avrebbe inevitabilmente sacrificato la prima sull’altare della seconda. Cosa che, a pensarci bene, è praticamente quasi sempre avvenuto per le trasposizioni su pellicola di videogiochi, a volte essendo puramente fallimentari e altre almeno producendo un ritorno economico. E ciò, si badi, anche se le premesse del videogame fossero state buone, perché magari nel materiale originario c’era l’ambientazione (Assassin’s Creed; 13+), la mascotte (Sonic; 8+), l’azione (Doom; 18+) l’immaginario (Resident Evil; 18+), i protagonisti (Super Mario Bros.; 10+), la superstar (Angelina Jolie in Lara Croft [e l’inverso]: Tomb Raider; 14+), il brand (Warcraft; 14+) o l’accanita fanbase (Max Payne; 16+).

Quindi il turning point non è tanto il reinventare la ruota (rivoluzione), ma l’impiegare le ventisei lettere del nostro alfabeto componendole in righe sempre diverse nel miracolistico lavoro di narrare nuove storie (ecco la potenza del design!) in grado di far vivere avventure che parlino, che tocchino e che smuovano l’essere umano, oggi come ieri, soprattutto su differenti media come mezzo per veicolarle. Perché forse davvero l’epica fu raccontata interamente da Omero ma la fine di quelle storie non rappresentò la fine delle successive. Quindi sì, certamente il più letterato di noi dirà che, neh, però The Last of Us, il videogioco come la serie tv, è acqua riscaldata in quanto riecheggia sin quasi al plagio (ma che tale non è, perché gli stessi autori di The Last of Us pubblicamente lo tributano) il culminare romanzo The Road di Cormac McCarthy (2006), poi oltretutto magistralmente adattato nell’omonimo lungometraggio (2009; 16+) diretto da John Hillcoat e scritto da Joe Penhall.

E questo fa The Last of Us: raccontare una storia semplice e già sentita, ma attraverso personaggi verosimili e mai composti di assoluti bensì di sfumati chiaroscuri; creando o distruggendo legami atavici ma sinceri attraverso i naturali sentimenti, anche in situazioni inverosimili (tipo il recupero risorgivo di Joel nell’ottava puntata, When We Are in Need) comunque quasi sempre egregiamente adottati al meglio per il formato scelto come mezzo di veicolazione, sia esso quello interattivo-videoludico (narrazione ambientale e attiva) o quello linear-cinematografico (narrazione passiva).

Il tandem potenzialmente interessante e sconfinato tra videogioco e proiezione

Dove The Last of Us stupisce come videogioco, infatti, è nel far essere il videogiocatore il protagonista: per un’immersività sconosciuta alla macchina da presa e che perciò nemmeno è sfiorata dal settimo e omonimo episodio della serie TV, Left Behind, calco di cinquantatré minuti di girato della rispettiva espansione videoludica (di circa due ore e mezza; PEGI 16+) rilasciata su PlayStation nel 2014 ed estendente la narrativa del primo capitolo in una maniera dolceamara, quasi unica nell’industria del gaming e quanto più in concezione di downloadable content (DLC). Perché quell’episodio della serie tv è forse il più noioso e meno interessante dell’intera prima stagione (persino per i non videogiocatori), ma tra i videogiocatori, come estensione di videogioco, Left Behind videogiocato è ricordato a ragione come uno degli spezzoni tra i più riusciti dell’intera saga: perché lì non si vede (fruizione lineare e passiva) sbocciare il sentimento d’amicizia ch’è poi d’amore tra Ellie e Riley Abel, ma la si conduce (fruizione interattiva e ambientale) sino all’apice raggiunto con uno dei baci meglio riusciti della storia dei videogiochi.

D’altro canto, però, dove la serie TV surclassa il videogioco è in una delle storie collaterali sviscerate durante questa prima stagione di The Last of Us, quando nell’arco di settantadue velocissimi minuti si dipana l’intitolata terza puntata di Long, Long Time: questo forse davvero sì essendo l’episodio capolavoro del e sul piccolo schermo (regia di Peter Hoar) e pacificamente il punto più alto e più denso capitolo della trasposizione The Last of Us marchiata HBO.

Infatti, essa è una puntata in cui un altrimenti videoludicamente appena abbozzato Bill e giustappunto allusa relazione con Frank, viene ora integralmente riscritta per alzare la posta in gioco e magistralmente interpretata fino a esplodere in faccia al (solo) telespettatore grazie l’ineccepibile interpretazione dei suddetti personaggi, rispettivamente, degli attori Nick Offerman e Murray Bartlett. Questa puntata è stata pure la più contestata e vilipesa di woke culture da parte del pubblico con retroterra gamer, quando invece qui la serie tv supera il videogioco e lo fa perché forse davvero «i personaggi televisivi e cinematografici che amiamo sono spinti da sogni, paure, conflitti e legami complessi, quelli di un videogioco sono spesso degli enigmi imprevedibili, la cui sola funzione è quella di portare a termine dei compiti. È questa caratteristica che ha portato Steven Spielberg ad affermare che ‘quando si prende in mano il controller, il cuore si spegne’». Perché in quest’episodio Mazin e Druckmann hanno preso la strada più complicata e consapevole di soffermarsi su una storia collaterale di due personaggi che non sono i due coprotagonisti, ossequiando la regola che, come scrittori, si erano imposti per la serie tv: rispettare il videogioco ma osare e cambiare narrativamente l’originale ogniqualvolta ciò fosse ritenuto da loro stessi come autori, una migliore versione del videogioco. Anche se ciò avrebbe comportato malcontenti del pubblico videogiocatore.

E queste libertà sono proprio il sale cui i media nel passaggio trans-mediatico e di multiverso (anche espanso) debbono compiere. Avvalorare ogni singola versione di opera facendo leva sulla forza del medium cui si trova (rap)presentata. Rispettando il capostipite ma osando, in specie per scelte artistico-narrative. Perché in quell’episodio vi è un’intima e tragica rappresentazione della contraddizione umana (in quanto a sopravvivere e anzi a vivere ben più che dignitosamente v’è un reazionario, complottista e survivalista che da sempre davvero si preparava alla fine del mondo); l’amore (persino un burbero maschio alpha armato fino al collo nel cuore d’America prova puri sentimenti, intensamente innamorandosi, dipendendo, sessualmente desiderando un’altra persona, un uomo, nella sua vita); il cambiamento-compromesso (a cambiare sono ambedue i partner: come individui – prima persona singolare: io – e come coppia – prima persona plurale: noi – per un nuovo status di compromesso al rialzo) e il fine vita (la dignità di vivere una malattia incurabile (sarebbe quella la vera fine del mondo persino in un’apocalisse di “non-morti”), la consecutiva sentita necessità di finirla: anche attraverso l’etimologicamente definita buona morte eutanasica).

Ma l’output più straordinario offerto da questi due esempi è nel fare capire al videogiocatore-spettatore e allo spettatore-videogiocatore la potenza e l’unicità intrinseca dell’uno e dell’altro medium. Perché Left Behind esiste in primis come videogioco, in quanto è l’interazione tra Ellie e Riley a garantire quel quid che solo chi ha videogiocato quel frangente della tragedia può davvero “vivere”; mentre, forse, davvero chi solo ha visto e si è lasciato letteralmente trasportare dalle sequenze video di Bill e Frank della serie tv, pur essendo videogamer, ha colto di come difficilmente esse sarebbero potute essere altrettanto persuasive, spontanee ed emozionanti al di fuori d’una narrazione passivo-lineare.

Dove invece si ha potenzialmente una quasi perfezione per ambedue i format è nel climax ascendente dell’ultimissima puntata del serial con la parte finale del videogioco (e viceversa).

L’arte intrisa di marketing e il marketing artistico

Paradossalmente dove Neil Druckmann ha davvero vinto rispettando la sua migrazione di opera, non è stato quando l’ultima puntata della serie tv, Look for the Light, ha superato ogni record d’ascolto precedentemente auto-raggiunto; non è stato nemmeno quando s’è scoperto di come questa serie d’esordio fosse addirittura più vista di Game of Thrones: House of the Dragon; non è stato neppure quando è risultato che il numero di telespettatori medi nel brevissimo periodo, fosse di circa dieci milioni in più (per trenta milioni complessivi) della media di copie vendute per ogni singolo capitolo di gioco (venti milioni), quindi avendo indubitabilmente anche centrato l’obiettivo di allargare la platea di potenziali clienti. Ma, forse, Neil Druckmann ha davvero vinto per sottrazione, cioè a dire di quando si oppose sino a far naufragare il primo progetto di film che sarebbe stato realizzato da chi non capiva, perché non sapeva la differenza esistenziale tra un media interattivo e uno lineare, per una mancanza di comprensione del materiale di partenza (e non l’aveva perché ignorava il medium videoludico). Perché questa è stata forse la prima volta in cui un software developer è riuscito a imporre la sua versione ai suoi stessi proprietari (Sony) e ai manager “tutto-KPI-e-ROI” e probabilmente ciò gli è stato possibile perché Neil Druckmann è uno dei pochissimi game designer ad avere una pubblica notorietà mondiale anche al di là dei videogiocatori. La cartina tornasole di siffatta vittoria (quasi personale) per assenza è data dalla penultima proprietà intellettuale di Naughty Dog, il team sviluppatore del videogioco The Last of Us, quando soltanto pochi mesi prima della realese della serie TV di The Last of Us, ebbe a fare uscire (2022) nei cinema, per format, mood e struttura che Neil Druckmann aveva declinato proprio per The Last of Us, il film di Uncharted (12+; PEGI 15+), con Tom Holland a interpretare lo sbarazzino Nathan Drake scimmiottante l’Indiana Jones postcontemporaneo.

Risultato? Un 45/100 come votazione media su Metacritic basata su quarantaquattro recensioni della critica specializzata internazionale (per capirci The Last of Us (serie tv) sta a 84/100). Essendo così stato Uncharted un altro, semplicemente più recente, esponente della mediocrità trasposta in lungometraggio tratto da videogiochi e che ha fatto parafrasare a Wired «In qualche modo, un dieci assegnato su IGN [uno dei più noti portali di critica specializzata sui videogiochi] si trasforma immancabilmente in un 10/100 su Rotten Tomatoes [aggregatore di recensioni della critica su film e serie tv]» e traendone la conclusione che vi fosse una «maledizione delle serie tv [e film] tratte dai videogiochi».

A proposito di ciò, si può dire che la serie tv di The Last of Us è addirittura oltre il risultato produttivo, artistico e pure di marketing connesso delle serie di The Witcher (17+) e Cyberpunk: Edgerunners (17+; ambedue produzioni di Netflix) da ultimo tratte dai rispettivi videogame, perché se forse addirittura quest’ultima sopravanza in livello qualitativo la stessa prima stagione di The Last of Us (per quanto essa sia un original net anime e non già un live action), esse sono derivate da opere originarie su licenza e rispettivamente della Saga di Geralt di Rivia (Wiedźmin in originale) di Andrzej Sapkowski e del gioco di ruolo da tavolo, Cyberpunk, di Mike Pondsmith. Mentre The Last of Us è un’opera originale e originariamente eretta su di un videogame. Ma quello che li rassomiglia tutti è la loro leva di marketing atta a vendere il videogioco a distanza di anni con conseguenti rinnovati ritorni di fiamma e riconquistate prime posizioni di vendita nelle classifiche mondiali.

Infatti, se fino a 15 anni fa era auspicabile un’uscita quasi all’unisono tra videogioco e film, nell’ultimo lustro s’è affermato il trend dell’eco: in cui nel settore videoludico, per allungare la longevità commerciale del titolo, volutamente si fanno uscire le controparti serial televisive o filmiche come una sorta di campagna pubblicitaria post mortem e dal valore artistico innegabile. Per il gaudio di telespettatori, pubblico, videogiocatori, attori, sviluppatori e fatturati delle software house e delle case di Hollywood o piattaforme streaming. A oggi della “vecchia guardia” di videogiochi rilasciati in coincidenza di nuovi prodotti pressoché all’unisono rimane quasi solo l’inossidabile marchio Pokémon (8+), ma che con le recenti polemiche dell’ultimo triennio sul percepito scaduto livello qualitativo dei nuovi capitoli videoludici, potrebbe far ricredere anche gli sviluppatori Game Freak sul cambio di strategia. A proposito di ciò, in pochi sanno che odiernamente le tempistiche di sviluppo di un videogioco tripla A sono persino doppie e ben più turbolente (è proprio a questo che si riferiva Halley Gross tramite il paragone in epigrafe di articolo sulla guerra videogiocata a Call of Duty e quella reale) di un’equivalente produzione hollywoodiana (al netto di Avatar (13+) di James Cameron) e anche per questo le software house e le major cinematografiche hanno scoperto che mantenere disallineato il periodo di lancio delle due produzioni non è per ciò stesso una deficienza (insomma: di necessità in virtù). Giusto per capirsi: The Last of Us la serie tv ha richiesto un massimo di 4 anni di lavoro, The Last of Us: Part II ben 7 anni di sviluppo.

In particolare, l’importanza e il successo riscontrato dalla serie tv di The Last of Us è stato quello di riportare in vetta alle classifiche di The Last of Us su PlayStation 3; The Last of Us Remastered e The Last of Us Parte II su PlayStation 4; The Last of Us Part I (remake dell’originale non a caso rilasciato pochi mesi prima (settembre 2022) della release del serial) e The Last of Us Part II su PlayStation 5 e ravvivare le prenotazioni per l’imminente uscita di The Last of Us Part I su PC. E quest’ibrida per quanto artistica forma di marketing incrociato, non è affatto negata da Sony Interactive Entertainment, come da expressis verbis del direttore generale dell’Europa meridionale, Marco Saletta: «Grazie all’uso del cinema e delle serie tv riusciamo ad avvicinare al gaming anche chi magari al gaming non ha mai pensato». In quest’occasione, oltretutto, in coincidenza (febbraio 2023) della massiccia campagna pubblicitaria globale realizzata dalla compagnia giapponese per annunciare la fine del “shortage” di PlayStation 5 dovuto alla carenza di semiconduttori.

L’insensatezza oltranzista della paura di spoiler

Dall’avvento di Internet, per ogni genere di fruitore di media s’è insidiata la paura dello spoiler: ormai tutto e tutti debbono salvaguardarsi con annunci in sovraimpressione, richiami e avvisi anche a distanza di decenni qualora si parlasse approfonditamente di quanto dipanatosi e poi svelato in un’opera, con la conseguenza che, signora mia, davvero qui non si possa più dire niente. E soprattutto, avendo discussioni di critica e pubblico per lo più mediocri che mai si spingono oltre la superficie d’analisi di un’esperienza, quanto più se significante e significativa come il videogioco e la serie tv di The Last of Us. Ma se c’è una cosa che forse la serie tv di The Last of Us può avere insegnato e in specie alle nuove generazioni così sensibili agli spoiler, specialmente a chi di loro fosse un videogiocatore già ultimante la campagna in singolo del primo videogioco, è quello di aver colto come e quanto, se anche si conoscesse la meta, è l’infinita varietà del come ci si possa arrivare, a quel finale (o a quella fine), ad assumere tutto il significato del mondo.

Perché, forse, la vita (quella vera) stessa ha il più grande spoiler mai esistito: si terminerà tutti, nondimeno è il come la vita venga vissuta da ciascheduno a farle assumere quel quid unico nell’intero universo.

Quindi sì, infrangiamo ogni regola sugli spoiler e diciamolo già da ora: (fatto avulso dal contesto come furono i leak ai tempi dell’uscita del secondo episodio del videogioco) Joel perirà brutalizzato nella prossima stagione. Ma il come, il quando, il perché e cosa ne deriverà poi, non farà perdere un briciolo di quel che sarà. E sì, «Giuramelo! Giurami che tutto quello che mi hai raccontato […] è vero». Il «Lo giuro», in questo contesto, è da intendersi come amorevole spergiuro (mi farete sapere con l’uscita della seconda stagione di The Last of Us se avevo torto o meno).

Perché, come si diceva, l’alfabeto è sì finito ma è il come si dispongono quelle finite lettere a rendere infinite le storie che vi si narrano; la fine della vita è una (fatto avulso dal contesto), ma è il come la si vive che ci rende quel che siamo, unici. Anche essendosela “spoilerata”. Perché come diceva Tiziano Terzani, «La fine è il mio inizio».

Quello che ci aspetta

Cosa rimane quindi dopo la conclusione di The Last of Us la serie tv? Forse la cosa più bella, ovverosia non solo un legame fecondo tra interattiva del videogioco e fruizione proiettiva cinematografico-televisiva ma la consapevolezza che i due mondi non collidono ma anzi che i due universi si arricchiscano e possano fare capire e addirittura avvicinare due pubblici a lungo ritenuti distinti nell’apprezzare differenti media senza nulla togliere ma anzi esponenzialmente incrementare le potenzialità di ogni singola distinta esperienza.

Lo stesso Neil Druckmann dinanzi la scomoda domanda di Will Bedingfield su quale fosse la “figlia preferita”, su «la storia che avrebbe sempre voluto raccontare» di The Last of Us, tra videogioco e serie tv, il di suo creatore ebbe saggiamente a rispondere «Penso che siano due cose separate. Ognuna offre un tipo diverso di esperienza per la stessa storia, e le trovo entrambe avvincenti in modi molto diversi». Anzi, lo stesso per Vulture all’esito dell’ultimo episodio concluderà di essere sorpreso del rapporto simbiotico sviluppatosi tra videogame e di sua serie tv: «Si stanno arricchendo a vicenda in un modo che non avrei previsto».

Perché la congiunzione («e») è quasi sempre meglio dell’alternativa («o»): un mondo di sfumature è infatti più complicato ma pure più intrigante di un dicotomico bianco-nero.

Quindi, che si sia videogiocatori o telespettatori; che si avesse visto la serie tv ma non completato il gioco o viceversa è consigliato, senza un ordine prestabilito o preferenziale, perché ogni esperienza è auto-appagante e senza nulla togliere all’altra, di videogiocare e di vedere The Last of Us. In specie, si ricorda che la serie tv è integralmente visionabile su Now sia in lingua madre che nell’ottimo doppiaggio italiano (diciamolo: la scuola nostrana rimane indubitabilmente una delle migliori al mondo) e che la migliore versione videoludica è oggi integralmente giocabile su PlayStation 5 (l’alternativa compromissoria è su PlayStation 4). Inoltre, subito dopo l’uscita del capitolo finale è stato rilasciato, sempre su Now, un breve ma interessante contenuto bonus dal nome The Last of Us – Speciale in cui il creatore del videogame Neil Druckmann, il cast e il produttore Craig Mazin parlano della serie e di come sia fedele al videogioco ma al tempo stesso un prodotto nuovo.

Per chi si fosse invece innamorato sul rapporto letteralmente intrattenente tra Joel ed Ellie (perché «Il vero trucco di The Last of Us è che ti fa pensare che sia uno spettacolo di zombie. Ed è in realtà un dramma molto, molto emozionante e melodrammatico»), per quanto appartenenti a diversissimi generi rispetto The Last of Us, si suggerisce di videogiocare a ICO (PlayStation 2 e PlayStation 3; PEGI 7+), The Last Guardian (PlayStation 4 e PlayStation 5; PEGI 12+) e l’integrale serie (spin-off inclusi) di Life Is Strange (quest’ultima presente su innumerevoli piattaforme anche al di fuori del recinto PlayStation; PEGI 16+)

Sul futuro di The Last of Us: verosimilmente entro l’anno corrente uscirà The Last of Us: Factions (tuttora nome provvisorio), enorme esperienza videoludica in formato simil live-service con un prediletto gameplay online in multigiocatore ma dalla notevole ibridazione di conduzione in story-driven; nondimeno sono ufficiosamente già partiti i lavori per un una cosiddetta Parte III videoludica con ipotetica uscita nella seconda metà di questo decennio nonché a breve riprenderà la scrittura per la seconda stagione della serie tv con probabile finestra di lancio nel 2025 (che si può già preannunciare essere molto più cupa, violenta, horror e splatter della prima stagione).

In chiusura, recensendo il videogioco di The Last of Us Part II, Sam White, disse che fosse «un videogioco che potrebbe esistere solo come tale». Sarà davvero così? Lo si vedrà. Ma ormai, in questa conclusione d’articolo, si dovrebbe aver interiorizzato che il segreto non è nell’alternativa dicotomica ma nei ponti creanti ricchezza di unione di due punti, due media, così distanti, distinti, diversi e, proprio per questo, simil-mente bellissimi.

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