il quadro

Cosa succede quando un’impresa chiude: gli effetti di lungo termine

Quando un’azienda chiude le conseguenze dirette e indirette si manifestano in un arco temporale piuttosto lungo e a varia scala geo-economica. Tra queste, c’è l’erosione delle competenze lavorative che risiedevano nell’azienda: maggiore è la complessità della produzioni, più grave è l’impatto. Cosa dovrebbe fare la politica

Pubblicato il 18 Lug 2019

Marcello Baroni

Regione Toscana

Mauro Lombardi

Scienze per l’Economia e l’Impresa, Università di Firenze

fallimenti

La chiusura di aziende ad elevata complessità determina non solo la perdita diretta posti di lavoro e quella derivata nell’indotto, ma, nel medio periodo, erode la base conoscitiva condivisa a livello di paese mettendo a rischio anche altre produzioni ad analoga complessità.

Più il nodo che viene a mancare è centrale e possiede elevate prossimità con altre produzioni, maggiori saranno gli effetti negativi nel medio lungo periodo.

In questo breve articolo ci interroghiamo su un problema che potrebbe sembrare scontato, ma non lo è: cosa succede quando un’azienda chiude? Proponiamo, quindi, una riflessione che tenga conto di aspetti comunemente non trattati nei dibattiti sugli effetti delle chiusure aziendali, anche in merito al ruolo e alla funzione delle politiche pubbliche.

Cosa succede quando un’azienda chiude

Quando un’azienda chiude, evento purtroppo non infrequente nel nostro Paese, come testimoniano i 138 tavoli di crisi aperti al ministero, vi sono una serie di conseguenze dirette e indirette che si manifestano in un arco temporale piuttosto lungo e a varia scala geo-economica.

Tra quelle più manifeste e immediate vi sono: la perdita occupazionale diretta e quella riguardante l’indotto, ulteriori perdite per la collettività che sopporta l’onere degli strumenti pensati per salvaguardare i redditi di coloro che hanno perso il lavoro, e –elemento essenziale- erosione delle competenze lavorative che risiedevano nell’azienda.

A tutti questi elementi da tempo noti ne va aggiunto uno indiretto il quale tende a manifestarsi non immediatamente e di cui si sente parlare poco.

L’elemento mancante nella discussione deriva dall’evoluzione socio-tecnica che ha portato alcune produzioni ad avere un elevato grado di complessità. Tali produzioni sono pienamente parte di un universo digitale e assumono quali elementi portanti la multidisciplinarietà e la natura combinatoriale dei processi.

Le origini dell’universo digitale quale motore evolutivo

Per comprendere tale evoluzione è necessario fare un passo indietro nel tempo, andando per così dire alle origini dell’universo digitale quale motore evolutivo.

Lo scrittore e storico della scienza George Dyson (Turing’s Cathedral, 2013, cap. 1) pone l’atto di nascita dell’universo digitale nel 3 Marzo 1953 (ore 10:38 di sera), quando il biologo e matematico Nils Aall Barricelli, norvegese di origine italiana, “riversa in universo digitale di 5 kilobyte” (ben lontani dai zettabyte odierni!) numeri casuali generati prendendo carte da gioco mescolate alla rinfusa su un tavolo, con l’intento di simulare l’evoluzione di sistemi viventi mediante esperimenti numerici. La rappresentazione numerica dell’informazione mediante coppie di lettere è stata ipotizzata per la prima volta dal Bacone nel 1623 e successivamente individuata in coppie di numeri (0/1) da Leibniz.

Il grande dibattito internazionale tra logici e matematici nella prima metà del XX secolo ha poi portato a definire in termini teorici macchine in grado di effettuare sequenze logico-matematiche (la “macchina di Turing”, 1936), la cui realizzazione operativa è stata poi sviluppata dal genio versatile di von Neumann, al quale dobbiamo l’architettura basilare dei computer odierni. Le componenti elettroniche più idonee per realizzare i nuovi dispositivi computazionali, disponibili dalla metà degli anni ’40, erano l’eccezione più che la regola, come spiega Dyson. In ogni caso l’esperimento di Barricelli costituisce la prima embrionale “rappresentazione digitale” di un processo reale.

Le conseguenze del passaggio alla produzione multi-disciplinare

Molti decenni sono passati, i dispositivi computazionali e la loro potenza di elaborazione hanno mostrato un’accelerazione evolutiva di tipo esponenziale. In tutto questo tempo si è passati dalla produzione “mono-disciplinare” di beni e servizi (meccanica, elettro-meccnica, chimica, biologia) a produzioni “multi-disciplinari”: meccanica, elettronica, biologia, chimica, linguistica, e così via, sono combinate ed evolvono incessantemente nel realizzare nuovi output.

Alcune delle conseguenze più rilevanti della dinamica degli ultimi decenni, soprattutto negli ultimi due, sono le seguenti:

  • sviluppo di sistemi di software che hanno creato le condizioni per la completa digitalizzazione di processi e prodotti. Ciò significa che dalla nano-scala a quella ordinaria e globale è oggi possibile realizzare la rappresentazione digitale (cosiddetto “digital twin”), per cui sistemi di algoritmi consentono di governare da remoto motori di aereo, locomotive, navi e aerei nella loro interezza, impianti petroliferi ecc.;
  • prodotti e processi assumono necessariamente una natura “combinatoriale”, in quanto derivano non solo dalla produzione di nuove conoscenze in alcune discipline specifiche, ma anche e sempre più dalla combinazione e ricombinazione di molteplici domini disciplinari, a loro volta in incessante evoluzione grazie alla disponibilità di una crescente potenza computazionale. È superfluo descrivere esempi che sono ormai nei modelli di consumo ordinari: orologi, racchette da tennis, tessuti che elaborano informazioni e controllano parametri corporei sono le evidenze a disposizione di tutti, così come trattori in grado di calcolare parametri ambientali (umidità dell’aria, proprietà del terreno, distribuzione per cm quadrato del seminato), in modo da ottenere risparmio nell’uso delle risorse ed efficienza di rendimento. Gli esempi sarebbero innumerevoli, ma ai nostri fini è rilevante soprattutto enfatizzare un aspetto: prodotti e processi sono l’esito imprevedibile degli sviluppi incessanti di domini disciplinari e delle interdipendenze tra di essi. Implicazione rilevante di quanto appena indicato è la dinamica morfologica delle imprese e delle competenze generatrici di output materiali e immateriali, a loro volta strettamente intrecciati.

Una conseguenza cruciale è che la crescente complessità di processi e prodotti comporta che nessuna impresa per nessuna tipologia di output può possedere tutte le conoscenze essenziali per realizzare le necessarie trasformazioni. Di qui discende il fatto che la forma organizzativa delle aziende tende ad assumere una configurazione a rete tra unità che operano e sviluppano conoscenze in ambiti conoscitivi molto diversi tra loro.

La morfologia a rete delle imprese evolve in modo rapido in un mondo caratterizzato da iperconnettività globale con la creazione continua di flussi informativi, generati da imprese e apparati produttivi che devono agire come sistema aperti, in continuo scambio di conoscenze con entità economiche e unità di ricerca distribuite a varia scala (locale e globale).

In questo scenario l’aumento della potenza computazionale a disposizione degli attori economico-sociali e lo sviluppo di sistemi hardware-software sempre più sofisticati hanno portato alla creazione di agenti artificiali in grado di svolgere vere e proprie funzioni cognitive quali: estrazione di segnali dai volumi di informazioni in continua crescita, individuazione di pattern e regolarità, capacità di delineare scenari e compiere simulazioni del livello atomico alla scale globale.

Tutto ciò si ripercuote sull’evoluzione quantitativa e qualitativa di processi e prodotti, unitamente all’espansione delle interdipendenze dinamiche tra domini di conoscenze e dalle interazioni tra una pluralità di attori. In questo universo digitale, enormemente più vasto dell’iniziale esperimento di Barricelli, è chiaro che la fabbricazione di ogni prodotto non necessita solo di macchinari, manodopera e materie prime, ma anche di un vasto, eterogeneo e mutevole bagaglio di conoscenze teoriche e pratiche. Più sono sofisticate le conoscenze richieste per produrre quel determinato bene, maggiore è la sua complessità e le interrelazioni tra agenti.

L’enorme varietà di prodotti che le moderne società offrono amplia enormemente la variabilità delle conoscenze richieste, le quali solo in alcuni Paesi si trovano distribuite nella società e nelle aziende che le utilizzano per i loro processi produttivi. All’aumentare della complessità del prodotto varia anche il numero dei Paesi in grado di produrlo, a seconda della capacità dei sistemi economici di tenere il passo di una “shifting techno-scientific frontier”.

La gerarchia della complessità di Paesi e produzioni

Un gruppo di studiosi del Center for International Development (Harvard University) ha elaborato un indice per misurare la complessità dei sistemi economici dei vari Paesi (Economic Complexity Index, ECI).

A ciascuno dei 128 Paesi presi in considerazione è stato attribuito un indice di complessità che varia da un minimo di -1,9 a un massimo di + 2,3; al primo e secondo posto troviamo Giappone e Germania, mentre al penultimo e all’ultimo Angola e Mauritania. L’Italia, secondo tale indice, ha un grado di complessità piuttosto elevato (16° posto), segnalando che le competenze accumulate le permettono di poter produrre molti prodotti aventi una complessità medio alta.

Oltre alla -per così dire- “gerarchia della complessità” a livello di Paese, ai nostri fini è ancora più interessante guardare alla complessità delle produzioni per comprendere l’elemento mancante nella discussione sulle conseguenze che derivano dalla chiusura di determinate aziende.

Stimare la complessità dei prodotti non è facile, ma si può tentare di misurarla in via indiretta partendo dalla constatazione che, se un’azienda ha le conoscenze e le competenze necessarie per produrre determinati prodotti complessi, probabilmente attinge da un serbatoio di competenze e conoscenze condiviso con altre aziende e istituzioni. Questo ragionamento si può estendere all’intero paese, assunto come un unico sistema di competenze in grado di produrre ed esportare, in uno spazio produttivo multi-scala (locale e globale), determinati prodotti aventi una certa probabilità di essere, gli uni dagli altri ad una certa prossimità intesa come probabilità che se un Paese ha la capacità di produrre determinati prodotti aventi una certa complessità può produrne di analoghi aventi un grado di complessità similare.

Attraverso questo ragionamento viene elaborato un indice (Product Complexity Index PCI), che desume la complessità di ciascun prodotto da ciò che un paese è in grado di esportare secondo la classificazione merceologica standard a livello internazionale (Sistema Armonizzato – Harmonized system HS07).

Tale indice mostra che tra i 6262 prodotti elencati[1] la forbice varia di un fattore moltiplicativo superiore a 10. Alcuni prodotti sono così sofisticati che solo pochissimi Paesi sono in grado di produrli ed esportarli. Per fare un esempio prendiamo il primo della lista “Gear cutting/gear grinding/gear finishing machines working by removing metal/cermets” (utensili per il taglio, la rettifica, la rifinitura e l’asporto) che è oggetto di un sostanziale oligopolio, infatti l’84% delle esportazioni provengono da soli tre Paesi (nell’ordine Germania, Svizzera e Giappone).

Andando ad analizzare in dettaglio le produzioni su cui l’Italia possiede competenze tali che le consentono di assumere una posizione di rilievo troviamo la produzione di macchine, quali ad esempio quelle multifunzionali per la preparazione dei filati (Textile Winding). Tali macchine sono, come indice di complessità, al nono posto (PCI 2,46 dove il massimo è 2,98), e i tre paesi principali produttori ed esportatori detengono una quota del mercato mondiale pari all’87%, nell’ordine: Giappone 36%, Germania 33%, Italia 18%. Analoga posizioni di forza la ritroviamo anche in altre produzioni di macchine quali le macchine per le lavorazioni di metalli, di pietre, di prodotti ceramici e altri materiali compositi.

Questo fattore di forza a livello di paese riveste una notevole importanza non solo per il fatto che queste aziende godono di un certo riparo dalla concorrenza asiatica, ma anche perché generano, in virtù della morfologia a rete delle imprese, uno scambio di flussi informativi con entità economiche e unità di ricerca aventi un grado di complessità simile.

Ruolo e funzioni delle politiche pubbliche

Le riflessioni sviluppate finora devono allora indurre a sollevare alcune questioni in tema di ruolo e funzioni che le politiche pubbliche possono e dovrebbero assumere per misurarsi con le implicazioni delle sfide poste dall’intensa dinamica tecnico-scientifica ed economico-produttiva.

È chiaro innanzitutto che la chiusura di un’impresa non può essere vista solo in termini dell’impatto quantitativo sull’occupazione diretta, ma deve essere analizzata sul piano delle conseguenze sistemiche connesse alla lacerazione delle reti e sotto-reti in relazione allo spazio produttivo globale.

Alle politiche pubbliche compete acquisire consapevolezza, attraverso un’azione di monitoraggio e di contrasto nei casi di situazioni aziendali che possono sfociare nella successiva chiusura o trasferimento all’estero di aziende ad elevata complessità, i cui effetti potrebbero propagarsi nelle varie reti produttive nazionali.

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  1. “The evolutionary trajectories of Countries within the Product Space of International Trade” di M. Lombardi, P. Salani M. Baroni 2009, The evolutionary trajectories of countries within the product space of international trade, “Oxford Journal of Business and Economics.

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