Siamo entrati nell’era della complessità dei processi socio-economici, dell’incertezza circa gli esiti possibili della loro evoluzione, dell’ansietà conseguente al futuro imprevedibile, della paura di eventi inattesi, ma prevedibili, come la pandemia.
Uno degli ambiti cruciali in cui, più che in altri, si addensano ansie, timori e aspettative dense di incognite è certamente quello del lavoro, che nella nostra cultura è stato sempre considerato –giustamente- espressione delle capacità individuali, sia in termini di dotazioni naturali che di attitudini sviluppate mediante processi di formazione individuale e sociale.
Il futuro della produttività, col digitale: trend e scenari possibili
Elementi di riflessione per la ricerca e l’esplorazione dell’ignoto sul tema del lavoro
Lo sviluppo esponenziale delle tecnologie dell’informazione, le performance ottenute dai sistemi di software con agenti artificiali[1] e dalla combinazione dinamica tra hardware e software della robotica evolutiva[2], le tecniche di manipolazione genetica che vanno oltre la rivoluzionaria CRISPR-Cas9[3], costituiscono avanzamenti decisivi, i quali aprono spazi di conoscenza impensabili.
Siamo quindi di fronte a mutamenti profondi e di portata non immaginabile sul piano delle potenzialità, cui l’umanità potrebbe attingere per risolvere vecchi e nuovi problemi, che la affliggono: fame, sete, epidemie, catastrofi naturali ed eventi catastrofici emergenti in seguito a comportamenti umani inconsapevoli degli effetti sistemici da essi generati.
Non è infondato ritenere che siamo di fronte ad una serie di potenziali “biforcazioni evolutive” nell’evoluzione socio-tecnica, nel senso che le ramificazioni possibili delle nuove traiettorie conoscitive sono “a portata di mano” ma tutte da scoprire e da esplorare. Saremmo dunque in presenza di un campo di potenzialità teoricamente accessibili, il che induce a chiamare in causa il concetto di “adjacent possbile”, concetto introdotto da Stuart Kauffman in At Home in the Universe (1995) e sviluppato in Investigations (2000, p. 22) per indicare l’insieme delle possibilità, latenti in un determinato momento storico, nell’evoluzione dell’umanità e della vita sulla terra. Non a caso egli in At Home (cit., p. 14) assimila l’evoluzione ramificata dell’”albero della vita” all’analoga “branching evolution in the tree of technology”, entrambe accomunate da “the evolution of complex organisms and the evolution of complex artifacts (that) confront conflicting ‘design criteria’” (ivi). In altri termini, per dirla con Steven Johnson[4], il “possibile adiacente” comprende i limiti e il potenziale creativo di mutamenti e innovazioni accessibili in un dato contesto: “The adjacent possible is a kind of shadow future, hovering on the edges of the present state of things, a map of all the ways in which the present can reinvent itself” (2010, p. 28).
In una fase storica di grandi incertezze, le affermazioni precedenti costituiscono indicazioni preziose per orientare la ricerca esplorativa al fine di catturare informazioni rilevanti per elaborare strategie. È però necessario sottolineare un punto fondamentale: le caratteristiche del processo di acquisizione delle informazioni sono decisive per comprendere quali sentieri evolutivi si profilano nello shadow future e quindi prendere le decisioni più appropriate nel “reinventare sé stessi, all’interno di in una dinamica complessa e combinatoria come quelle descritte da Borges nei due racconti “La Torre di Babele” e “Il giardino dei sentieri che si biforcano” (J.L. Borges, Finzioni, Adelphi; rispettivamente a p.68 e 88).
Le possibili diramazioni evolutive delle conoscenze tecnico-scientifiche odierne sono dunque tutte da scoprire ed esplorare, tenendo presente che occorre partire da un assunto fondamentale: l’intersezione di molteplici dinamiche (sociali, economiche, culturali, tecnico-scientifiche) richiede l’adozione di schemi di analisi non riduzionistici, cioè fondate su analisi di micro-processi ed entità senza prendere in considerazione le interdipendenze sistemiche e multi-scala
Le considerazioni fin qui svolte in merito allo scenario complessivo, che -per usare un termine “mainstream”-possiamo chiamare disruptive, valgono in particolare per gli studi della dinamica economico-produttiva, dove da tempo tendono a prevalere le seguenti tendenze analitiche, viste in progressione logica:
1) Imparare dal passato per comprendere il futuro, ovvero l’assunzione che l’astratta formalizzazione dei trend più e meno recenti indichi con sufficiente precisione direzioni future.
2) Elaborare ricerche empiriche mediante rappresentazioni quantitative di un set di processi “isolati”, in modo tale da consolidare ciò che possiamo definire “propensione estrapolativa”, intesa come tendenza a proiettare nel futuro quanto emerge dall’accumulo di dati, informazioni e riflessioni, a cui vengono assegnati valori numerici ben definiti. Il tutto viene realizzato sulla base di raffinate tecniche probabilistiche, con il supporto di agenti artificiali molto potenti e –è doveroso riconoscerlo- affascinanti.
3) Proporre infine modelli e interpretazioni del futuro con esplicitazione di cautele e limiti sia dell’analisi che dei risultati.
Questa metodologia, sintetizzata nelle componenti essenziali, sembra appropriata per periodi storici caratterizzati da turbolenze di relativa entità e comunque tali da non alterare i meccanismi basilari di funzionamento dei sistemi di cui si analizza l’evoluzione. Quando siamo di fronte a fasi con numerose turbolenze, inerenti a mutamenti sistemici, possono crearsi veri e propri cortocircuiti teorico-empirici perché, nonostante la comune metodologia impiegata- da punti di partenza differenti (il tipo di fenomeni presi in esame), emergono scenari evolutivi utopici o distopici, tutti più o meno accreditati di consolidata autorevolezza scientifica. La molteplicità dei risultati ottenuti non è in questo caso sinonimo di ricchezza, bensì di alterazione dell’analisi, in quanto nei momenti di profonda trasformazione, prima descritto in termini “borgesiani”, sarebbe più utile non indulgere nella propensione estrapolativa e analizzare con maggiore sistematicità i fenomeni, ponendo al centro della riflessione il tema di come sviluppare fattori di adattamento sistemico a discontinuità evolutive. Questo è peraltro ciò che l’umanità ha fatto nel corso della sua evoluzione sulla Terra, del cui corso essa è addirittura diventata la specie maggiormente in grado di influenzare la dinamica mediante la sua creatività (A. Brandt, D. Eagleman, 2017, The Runaway Species. How Human Creativity Remakes the World, Catapult). Le considerazioni svolte non mettono quindi radicalmente in discussione le metodologie standard e cercano solo di mettere in luce come sia necessario farne un differente utilizzo, sulla base di un mindset alternativo, basato su una visione sistemica e adattativa. Ciò è reso necessario dal fatto che nelle fasi di profonda transizione, come quella odierna, mutano elementi fondamentali dei sistemi, insieme alle componenti, che devono evolvere e co-evolvere, generando così “giardini di sentieri che si biforcano” indefinitamente, pena la sopravvivenza.
Uno dei campi dove balzano in evidenza quasi tutti i temi sollevati è appunto quello del futuro del lavoro, al centro di una vasta letteratura internazionale, con risultati interpretativi non di rado contradditori e limitati, che danno adito a previsioni improntate sia all’ottimismo che al pessimismo, entrambe fonti di disorientamento
Il futuro del lavoro nello spazio combinatoriale
È da quasi due secoli che il problema della disoccupazione conseguente alla dinamica tecnologica è oggetto di studi e analisi, oltre che di tensioni socio-economiche. I momenti di profonda crisi sono quelli in cui è da ritenere fecondo l’approccio di Keynes, che nel 1930[5], nel pieno della Grande Crisi e di livelli elevati di disoccupazione, esortava a guardare verso il futuro e non al passato. La gravità della crisi e della disoccupazione lo spingevano a sostenere che il problema economico (“la lotta per la sussistenza”) sarebbe stato risolto entro un secolo (p. 366). Il fondamento della sua analisi era la considerazione che l’umanità si trovava in un’era di progresso e innovazione senza pari nella storia umana documentata (ivi, p. 361).
Dopo quasi un secolo dall’esortazione keynesiana siamo ancora alle prese di studi economici che, tranne rare eccezioni, si fondano su modelli mentali rivolti al passato anche quando affermano di studiare il futuro e di effettuare proiezioni con un solido apparato statistico-probabilistico. È questo il caso delle analisi e del dibattito tra studiosi nel cercare di rispondere ad una serie di domande quali: 1) How susceptible are our jobs to computerisation? (C.B. Frey, M.A. Osborne, 2017, Technological Forecasting and Social Change, 254-280). 2) Quali sono le conseguenze dell’impiego di Intelligenza Artificiale e robotica nei vari Paesi (Graetz e Michaels, 2018; Bessen et al. 2019; Koch et al. 2019; Acemoglu e Restrepo, 2020; Aghion et al., 2020; Dixon et al., 2020; Wolters, 2020; Bannò et al., 2021). 3) Robots will destroy our jobs – and we’re not ready for it (The Guardian, 17-1-2017). È reale il rischio di elevati livelli di disoccupazione in conseguenza dell’automazione e dell’impiego di robot? (Nedellkoska e Quintini, 2018)[6].
In questo contributo non effettueremo una ricognizione sistematica della letteratura[7], ma ci limiteremo a indicare alcuni passaggi fondamentali del dibattito a livello internazionale e ad aggiungere delle considerazioni di prospettiva, ispirate all’impostazione di Keynes (1930).
2.1 How susceptible are our jobs to computerisation?
Il punto di partenza non può che essere il saggio di Frey e Osborne (2017), che ha influenzato molti studi successivi[8] con la stima che il 47% delle professioni negli USA potevano essere automatizzati. I due autori hanno elaborato un elenco di 702 lavori, che include sia attività di routine che non di routine, escludendo quelle non suscettibili di automatizzazione, perché costituiscono “colli di bottiglia ingegneristici”, cioè basati su capacità allora (nel 2017) non codificabili in software per robot, quali: percezione e manipolazione di materiali, intelligenza creativa, interazione sociale. La metodologia di stima impiegata da Frey e Osborne è soggetta a critiche sostanziali da parte di Wolters (2020), che mette in luce due elementi discutibili: 1) la stima delle professioni automatizzabili si basa su una rilevazione effettuata presso un numero imprecisato di esperti di nuove tecnologie durante un workshop svoltosi presso il Dipartimento di Ingegneria dell’Università di Oxford (Frey e Osborne, 2013, p. 263). 2) I “colli di bottiglia” da essi ipotizzati sono carenti e, aggiungiamo, eludono aspetti sistemici rilevanti. L’esempio adotto da Wolters (2020, p. 5) è questo: tra le professioni automatizzabili sono quelle dei “taxi drivers and chauffers”, senza tener conto del data bottleneck, cioè della quantità e qualità di dati necessari che– ai fini dell’automatizzazione- occorre raccogliere, accumulare e rendere accessibili, specie per affrontare situazioni “irregolari”. Questo collo di bottiglia attiene precisamente alle interrelazioni sistemiche della circolazione di un’automobile, che vanno oltre il GPS, la rappresentazione dei flussi di traffico ecc. Questa, come altre questioni, sono escluse dagli esperti, i quali si basano su quello che conoscono ed è stato in qualche modo realizzato, proiettandolo in un futuro ignoto.
Nel 2017 è stato pubblicato anche lo studio di Manyika et al. (2017), dove -con una metodologia simile- si analizza la probabile evoluzione occupazionale in vari settori di 46 Paesi OECD per un totale di quasi l’80% della forza lavoro mondiale (ivi, p. 69). Individuati cinque fattori che influenzano l’automazione delle attività lavorative (fattibilità tecnica, costi di sviluppo delle innovazioni, dinamica del mercato del lavoro, benefici economici, accettazione sociale e normativa), gli autori esaminano le possibili variazioni nella composizione delle mansioni (task) per 800 professioni, partendo dall’individuazione di 18 capabilities[9]. Manyika et al. impiegano un algoritmo di Machine Learning, elaborato sulla base di keywords e l’opinione di non ben precisati esperti, per classificare 2000 attività lavorative in relazione alle 18 capabilities. L’esito è la seguente rappresentazione delle probabilità di automatizzazione potenziale nei Paesi analizzati
Fig. 1
Fonte: Manyika et al. (2017), Exhibit 10.
La procedura di analisi e stima, già di per sé un po’ “opaca” (Wolters, 2020), diviene ancor più aleatoria se si pensa al fatto che le proiezioni verso il futuro si basano sulle interviste a un numero imprecisato di esperti e su valutazoni ancorate a recenti esperienze, relative al tempo che intercorre tra l’inizio di una ricerca, il lancio dell’output e la sua diffusione.
Osservazioni critiche verso la metodologia e le stime di Frey e Osborne (2017, al centro anche di Frey e Osborne, 2013) sono state in realtà proposte immediatamente da altri studiosi (Arntz et al., 2016, 2017), che hanno sollevato due obiezioni di fondo: 1) la classificazione del potenziale di automazione sulla base del parere di esperti in robotica e IA trascura le grandi differenziazioni, esistenti tra le mansioni incluse nelle tipologie professionali indagate. 2) Vi è il rischio di confondere il potenziale di automazione con la perdita di occupazione effettiva, perché la possibilità teorica di sostituire attività umane con macchine non significa che ciò necessariamente avvenga. 3) Molti fattori possono “interferire” con il processo di sostituzione: etici, sociali, legali, tecnici (come quelli già visti prima), variazioni delle mansioni in differenti professioni, evoluzione delle competenze degli addetti.
L’azione di un approccio diverso (dall’occupation-level al job-level) porta Arntz et al. a unforte ridimensionamento delle stime di Frey e Osborne: circa il 9% (anziché il 47%) dell’occupazione USA è a rischio di automazione (con una probabilità superiore al 70%, Arntz et al. 2016, 2017), con un’ampia variazione tra Paesi (dal 12% dell’Austria al 6% della Corea, mentre per l’Italia il rischio riguarderebbe intorno al 10% degli occupati[10]). Eterogeneità delle mansioni, evoluzione delle competenze, specifiche strategie poste in essere nei vari Paesi, sistemi adattivi specifici sul piano regolamentare e normativo, oltre che i livelli conoscitivi di partenza dei lavoratori e i processi formativi, devono essere presi in considerazione al fine di evitare il pericolo di sovrastimare gli effetti e indurre così conseguenze socio-economiche ingiustificate, se non addirittura dannose.
Quali sono le conseguenze dell’impiego di tecnologie per l’automazione in vari Paesi?
Vi sono molti studi anche sugli effetti dell’introduzione di robot sui posti di lavoro. Un primo lavoro in materia nel secondo decennio di questo secolo è certamente quello di Graetz e Michaels (2018), dove si utilizzano i dati forniti dall’International Federation of Robotics (IFR) in merito alla vendita di robot[11]. Tenendo presente che nel periodo analizzato (1990-2007) i robot industriali sono stati utilizzati in un terzo dell’economia e in misura molto minore nel terziario, nel lavoro si calcola che negli anni in questione il prezzo dei robot industriali sia diminuito approssimativamente della metà. È conseguentemente aumentata la “densità di robot per ora lavorata” in tutta una serie di attività: in 17 Paesi lo stock di robot per milioni di ore lavorate è aumentato del 150%, soprattutto nei mezzi di trasporto e in Germania, Danimarca e Italia. È di notevole interesse il fatto che la crescita della densità di robot è associata un aumento significativo della produttività del lavoro, insieme ad un altro fenomeno di rilievo: l’incremento dell’impiego di robot oltre una soglia genera piccoli incrementi di produttività, il che significa che si hanno rendimenti decrescenti (ivi, p. 754). L’impatto sull’occupazione appare irrilevante, sulla base del panel al centro della ricerca, in quanto le ore aggregate di lavoro non sembrano influenzate, ma ciò è unito ad implicazioni differenti per tipologie di impiego: la quota di ore lavorate per low-skilled workers si riduce se rapportata a quella dei middle e high-skilled workers. Ultimi due elementi degni di riflessione sono il dato che all’introduzione dei robot ha fatto seguito una diminuzione dei prezzi degli output, con conseguenti vantaggi per gli acquirenti finali e le catene di subfornitura.
Un esito del tutto opposto, per quanto riguarda gli Stati Uniti, produce la ricerca di Acemoglu e Restrepo (2020), che analizzano gli stessi dati IFR 1993-2007. Il quadro generale nei vari Paesi è rappresentato nella seguente figura, tratta dal lavoro dei due economisti
L’analisi dei dati porta all’elaborazione di un modello da cui si deduce che un robot addizionale per ogni 1000 lavoratori comporta una diminuzione di 3,3 lavoratori nell’aggregato, ovvero tenendo conto di effetti diretti e indiretti, quali: spiazzamento dei lavoratori, riduzione dei salari, minori prezzi al consumo e incremento della quota di capitale rispetto al lavoro nei vari mercati locali USA.
Risultati del tutto contrastanti con questi riferiti agli USA emergono per la Francia, in relazione alla quale Aghion et al. (2020) mostrano come dati concernenti imprese francesi dal 1995 al 2015 indichino correlazioni positive in media, anche se con significative eterogeneità, tra automazione, crescita dell’occupazione aggregata anche per i lavoratori a bassa qualificazione, aumento dei profitti, Ciò avviene soprattutto per le imprese esportatrici, che riescono così a beneficiare di vendite ed economie di scala. Occorre osservare, però, che la definizione di tecnologie per l’automazione impiegata dai due autori è davvero molto ampia, perché si basa sui dati di bilancio delle imprese (“industrial equipment and machines in euros”) e su quanto scrive l’Encyclopedia Britannica[12].
Una definizione più ristretta di tecnologie per l’automazione è adottata da Acemoglu et al (2020), che calcolano gli effetti dell’introduzione di robot in 55.390 imprese francesi. Sono individuati risultati differenti a livello di singole imprese e in aggregato. Per quanto riguarda le prime, l’adozione di robot è correlata a diminuzioni delle quote di reddito da lavoro, crescite del valore aggiunto e della produttività, mentre diminuisce il numero di lavoratori addetti alla produzione. A livello aggregato, però aumenta l’occupazione delle imprese che automatizzano, ad indicare che forse si tratta soprattutto di aziende ad alto potenziale, le quali per questa via acquisiscono quote di mercato, mentre quelle che non automatizzano mostrano valori opposti degli stessi indicatori e perdono quote di mercato.
Queste informazioni spingono a ritenere che si debba approfondire l’esame dei dati a livello micro, come faremo nella sezione successiva.
Sempre in riferimento a contributi concernenti le economie nel loro insieme, riferiamo quanto emerge dall’analisi di Dauth et al. (2017) dell’impiego di robot dal 1994 al 2014 in 53 industrie manifatturiere e 19 altre attività, sulla base di dati IFR, arricchiti da micro-dati relativi a 1 milione di lavoratori solo in parte coinvolti nella robotizzazione. Bisogna tenere presente che gli effetti si misurano soprattutto a livello locale, connesso alle localizzazioni dell’industria automobilistica. La ricerca mostra aspetti interessanti, perché la robotizzazione non influisce sull’occupazione aggregata, in quanto la diminuzione dell’occupazione manifatturiera è compensata dagli incrementi nei servizi. L’elemento più atipico emerge però dall’esame delle biografie individuali: “We find – quite surprisingly – that workers from more robot-exposed industries have indeed a substantially higher probability to remain employed. In fact, they are even more likely to keep a job in their original workplace, i.e., robot exposure has increased job stability for them”. I lavoratori incumbent conservano il posto di lavoro, ma i nuovi ingressi sono ridotti: “Put differently, robots do not destroy existing manufacturing jobs in Germany, but they induce manufacturing firms to create fewer new jobs for young people” (Dauth et al., 2017, p. 8). A differenza di altri studi, infine, da questo emerge che aumentano i salari per gli high-skillled (scientific and management positions) e diminuiscono per i middle- e low-skilled workers.
Per ampliare il quadro è chiaro che dobbiamo approfondire dati a livello di impresa.
Robots will destroy our jobs – and we’re not ready for it
La sostituzione del lavoro umano con robot a livello di impresa è analizzata da Koch et al. (2019), mediante dati disponibili per 1900 imprese manifatturiere spagnole relativamente al periodo 1990-2016. Le conclusioni più importanti degli autori sono tre (p.2583): 1) l’introduzione di robot avviene soprattutto in imprese più grandi, più produttive ed esportatrici, mentre quelle skill-intensive è meno probabile che introducano automazione. 2) Nei quattro anni seguenti all’introduzione le aziende realizzano incrementi di produzione del-20-25%, con una riduzione del costo del lavoro del 7% e un incremento dell’occupazione del 10%. 3) Le realtà che non adottano robot subiscono pesanti perdite e quindi avviene una riallocazione interindustriale dei lavoratori da esse verso quelle innovatrici.
Possiamo quindi dedurre che l’iniziale eterogeneità tra imprese genera circuiti di feedback tra la stessa eterogeneità e gli effetti dei progetti di automazione.
Un quadro differente e più articolato emerge da Dixon et al. (2020), che lavorano sui dati, forniti dalla Canadian Border Services Agency (CBSA) relativamente alle imprese canadesi importatrici di robot da una numerosa serie di Paesi negli anni 1996 -2017. I punti salienti sono i seguenti: 1) i robot riducono la varianza nei processi di produzione, riducendo le possibilità di errori e difetti, con maggiori strumenti di controllo delle attività dei lavoratori. 2) Per questa via sono create le condizioni per introdurre incentivi e sistemi di pagamento individuali, connessi alle performance. 3) I robot consentirebbero una maggiore capacità di adattamento delle strutture organizzative, favorendo al tempo stesso centralizzazione e decentralizzazione decisionale, a seconda dei task lavorativi. 4) I livelli manageriali intermedi tendono a ridursi, mentre aumentano le prestazioni low-skill e high-skill.
In definitiva, quindi, l’automazione in Canada porta a riorganizzazioni sostanziali dei modelli organizzativi e manageriali.
Un’osservazione sistematica delle relazioni dirette tra introduzione di tecnologie 2.0 (per es. tradizionali strumenti per Raggi-X, fax, fotocopiatrici ecc.), tecnologie 3.0 (computer, macchine a controllo numerico, robot industriali), tecnologie 4.0 (Artificial Intelligence, Augmented Reality, 3D printing etc.) e occupazione è effettuato da Genz et al. (2021) attraverso un’indagine del 2016 presso un campione rappresentativo di 2.032 imprese manifatturiere e dei servizi, operanti in Germania. I dati della rilevazione sono correlati ai dati individuali di 172.714 occupati nelle aziende indagate (database esistente). Per questa via si ricostruiscono gli andamenti di occupazione e salari nel periodo 2011-2016 e sono acquisite informazioni circa le variazioni a livello di lavoratori in risposta a investimenti tecnologici secondo le tre tipologie descritte, distinguendo le aziende tra adopters e non-adopters. I risultati ottenuti sono:
- accresciuta stabilità occupazionale complessiva, crescita salariale e guadagni cumulativi per i lavoratori occupati negli adopters. Vi sono però differenze tra le conseguenze delle differenti scelte tecnologiche. Le tecnologie 3.0 portano a prolungati periodi di occupazione e guadagni cumulativi, mentre le tecnologie 4.0 sono associate a più forti incrementi salariali, in assenza di analoghe variazioni occupazionali. Questo sembra peraltro riguardare più i servizi che il manifatturiero.
- Vi sono differenze significative tra i vari gruppi di lavoratori, in quanto le migliori performance sono conseguite da coloro che svolgono compiti lavorativi complessi, attività analitiche non di routine e da lavoratori che hanno beneficiato del vocational training più che della frequentazione dell’Università.
- Le assunzioni da parte degli adopters sono più elevate per lavoratori con determinate caratteristiche: età, campo occupazionale, caratteristiche del lavoro richiesto, formazione. In questo modo la ricerca descrive i percorsi di adattamento dei lavoratori alla trasformazione tecnologica della Germania. Di rilievo è il dato concernente le capacità adattative maggiormente acquisite da coloro che hanno seguito corsi di vocational training, che conseguono ad ogni livello (.3.0, 4.0) migliori performance sotto tutti i punti di vista rispetto a chi è in possesso di titoli universitari. Risalta chiaramente l’importanza del sistema formativo duale, esistente in Germania, ma al tempo stesso la rilevanza crescente che negli anni esaminati hanno assunto le tecnologie dell’informazione, mentre tecnologie di frontiera (AI, AR) svolgono ancora un ruolo minore (pp. 29-33)[13].
Veniamo ora all’Italia, grazie a un recentissimo articolo di Bannò et al. (2021), nel quale vengono applicati i due approcci prevalenti nella letteratura internazionale esaminata finora, ovvero l’occupation-based (Frey e Osborne, 2017) e il task-based. (Nedelkoska e Quintini, 2018). Lo studio in questione conferma quanto emerge dai lavori precedenti: le stime derivanti dal secondo approccio generano probabilità di automazione inferiori a quelle del primo, a conferma degli aspetti di molti punti precedentemente evidenziati: eterogeneità della composizione delle diverse professioni nel mix di attività di routine, analitiche e basate su caratteristiche non riproducibili in robot o umanoidi che siano (manipolazione, percezione multimodale, intelligenza creativa e intelligenza sociale). La ricerca quantifica per l’Italia ciò che è emerso a livello internazionale (polarizzazione nella probabilità del rischio di sostituzione dei lavoratori, 33% per il primo e 18% per il secondo) e mette in luce un aspetto fondamentale: occorre distinguere tra automazione potenziale e automazione effettiva, perché non è detto che tutto ciò che è tecnicamente possibile sia poi realmente attuato. Aggiungiamo noi un ulteriore elemento di riflessione. Le affermazioni degli esperti non di rado contengono inconsapevolmente dosi differenziate di wishful thinking e di anticipazione incontrollata, proprio nel campo dell’Intelligenza Artificiale, come mostra lo scritto dii Amstrong e Sotala (2015), che argomentano la tesi secondo cui 95 previsioni di esperti in merito all’evoluzione dell’AI, tratte da un database del Singularity Institute, siano state sostanzialmente disattese, per non soffermarsi sulle profonde differenze rilevate tra la molteplicità di opinioni.
Tornando al saggio di Bannò et al. (2021), gli autori pongono in risalto una serie di fattori che possono incidere sui processi di automazione sostitutiva di lavoro e sull’evoluzione complessiva dell’occupazione: composizione settoriale e geografica, struttura dimensionale, modello di conduzione (familiare, manageriale), problemi da affrontare nell’introdurre automazione (adattamento delle tecnologie e dei lavoratori a seconda dei settori e delle attività specifiche interessate, complementarità tra tecnologie), insufficienza in Italia di entità che svolgano funzione catalizzatrici dei processi di automazione, infine la possibilità che i processi innovativi generino nuovi lavori e professioni, insieme a nuovi prodotti e servizi. Su queste basi sono proposte osservazioni convergenti con le nostre riflessioni iniziali: “La situazione attuale tuttavia non sembra essere una semplice replica del passato. La velocità del cambiamento è molto più rapida”, da cui seguono indicazioni di policy, che riprenderemo in un prossimo contributo.
Riflessioni sul futuro del lavoro e l’ignoto da esplorare con intelligenza
La ricognizione, effettuata su una parte importante della letteratura internazionale, ha messo in luce una serie di temi e problemi che rendono piuttosto aleatorie le previsioni sul futuro del lavoro a breve e soprattutto nel medio-lungo periodo. Una serie di elementi rendono molto ardua l’individuazione di ben definite traiettorie evolutive: complessità delle dinamiche di processi innovativi multi-scala, eterogeneità dei contesti settoriali e sistemici; ruolo cruciale dei processi di adattamento dei lavoratori (Cfr la funzione del vocational training in Germania, come indicato nella sezione 2.3); diversità delle regole che disciplinano i mercati del lavoro; varietà di modelli manageriali e organizzativi in essere; elevata diversità delle tipologie imprenditoriali. A tutto questo si aggiunge la varietà di approcci, con la prevalenza di quelli basati su ciò che all’inizio abbiamo chiamato propensione estrapolativa, mentre occorrerebbe looking into the future, come affermava Keynes un secolo fa, che nello stesso scritto del 1930 indicava un tema su cui oggi la riflessione teorica è quasi assente, anche se vi sono tentativi di affrontarlo concretamente: la riduzione dell’orario di lavoro, su cui esistono prime esperienze a livello internazionale (Islanda, Francia), mentre proposte di ridurre la settimana lavorativa a 4 -5 giorni sono avanzate da Primi Ministri di Giappone e Nuova Zelanda, o addirittura da manager di imprese[14].
Conclusioni
Questi spunti e il recente fenomeno, emerso negli USA, della great resignation, ovvero la rinuncia a posti di lavoro, proprio in piena pandemia e crisi economica, per motivi tutti ancora da investigare (P. Clark, 2021, Money isn’t everything in the Great Re-evalutaion, Financial Times, October 3). Su questo tema la serie di pubblicazioni inizia ad essere consistente, ma il fenomeno induce a riflettere su uno più generale, in merito a cui bisognerebbe sviluppare contributi multi-disciplinari, nella fase storica di grandi e profonde trasformazioni a livello micro, macro, e planetario: Cos’è il lavoro?[15]. Da molti secoli è il perno intorno a cui ruota la vita umana nella ricerca di mezzi per soddisfare esigenze fondamentali di sopravvivenza. Il potenziale tecnico-scientifico ed economico-produttivo oggi esistente nel mondo dovrebbero indurci a guardare verso il futuro avendo presente forse la frase del grande economista della complessità Brian Arthur: “The main challenge of the economy is shifting from producing prosperity to distributing prosperity” (McKinsey Quarterly, 2011, October). Tenendo presente che proprio in questa fase storica una parte non irrilevante dell’umanità vive in condizioni ai limiti della sopravvivenza, l’avvio di nuove riflessioni sui due temi sono fondamentali ai fini di non considerare la dinamica tecnologica come una variabile esogena a cui adattarsi, bensì in termini di human-centered Artificial Intelligence e di “coscienza di specie” circa gli effetti a scala planetaria delle scelte di produzione e consumo dell’umanità. Sta poi all’intelligenza umana la responsabilità di esplorare l’ignoto partendo dal riconoscere le sfide da affrontare.
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Wolters L., 2020, Robots, Automation, and Employment: Where We Are, MIT Industrial Performance Center, Working Paper
- Ad esempio il sistema di Intelligenza Artificiale GPT-3 impiegato nel riconoscimento del linguaggio umano. ↑
- La ricerca in robotica genera continui avanzamenti nel tentativo di “umanizzare” entità artificiali fisico-cibernetiche, fino a far loro assumere espressioni “emotive”. Si veda: A New Humanoid Robot Has the Most Advanced and Realistic Facial Expressions Yet, Interesting Engineering, 13-12-2021. L’umanoide è visibile sul sito https://www.youtube.com/watch?v=IPukuYb9xWw. ↑
- Ci riferiamo alla tecnica RLR (Retron Library Recombinering), messa a punto dal WYSS Institute for Biological Inspired Engineering (Harvard University e Harvard Medical School), Cfr L. Brownell, 30-4-2021, More over CRISPR Retrons are coming, WYSS web site. ↑
S. Johnson, 2010, Where Good Ideas Come From: The Natural History of Innovation, Riverhead Books.
- J.M. Keynes, 1930, Essays in Persuasion, Norton & Company, Cap. V.2, Economic Possibilities for Our Grandchildren. ↑
- L. Nedelkoska, G. Quintini, 2018, Automation, skill use and training, OECD Social, Employment and Migration Working Papers No. 202. ↑
- Due eccellenti lavori in merito sono costituti da Banno et al. (2021) e Wolters (2020). ↑
- 10025 citazioni, Google Scholar, consultato il 5-1-2022. ↑
- Ad esempio: percezione sensoriale, capacità sensoriali e sociali, destrezza fisica e mobilità, comprensione del linguaggio naturale, e così via, (ivi, p. 35). ↑
- Arntz et al., 2017, Figure 3, p. 16. ↑
- Così definiti dall’International Organization for Standardization (ISO): “multipurpose manipulating industrial robots”. ↑
- “the class of electro-mechanical devices that are relatively self-operating after they have been set in motion on the basis of predetermined instructions or procedures” (riportata a p. 6). ↑
- Per esigenza di brevità non ci soffermiamo sulla dinamica particolare dei compiti analitici di routine e non di routine, rinviando allo studio in questione. ↑
- J. Pinskr, 202, Killing the 5-Day Work. Reducing hours withut reducing pay would reignitean essential but long-forgotten moral project: making American life less about work, The Atlantic, 17 June. ↑
- Interessanti spunti iniziali di riflessione sono in: J. Hagel J., Wool M., 2019, What is Work?¸ Deloitte Insight ;. J. Hagel et al 2019, Redefining Work for New Vaòue:The Nex Opportunity, MIT. ↑