Uno degli interrogativi che i giuristi ormai da tempo si pongono con riferimento al Metaverso riguarda la possibilità che, in relazione allo stesso, si aprano nuove frontiere del diritto penale: alla luce dei principi del nostro ordinamento, è possibile che vengano a configurarsi delle conseguenze, anche di natura penale, per gli utenti, proprietari delle loro metamorfosi nel mondo parallelo (avatar), in relazione alle azioni poste in essere in tale realtà virtuale? E in questo scenario, è possibile immaginare che i colpevoli possano essere giudizialmente puniti?
Metaverso, la nuova frontiera del diritto penale?
In altre parole, intendere il Metaverso come nuovo locus commissi delicti è un’idea poi così lontana dalla realtà?
La considerazione di base da cui tali interrogativi sorgono è quella per cui il Metaverso, come e più del web in generale, ha astrattamente le potenzialità per divenire luogo privilegiato per la commissione di reati, soprattutto contro la persona o che, in generale, aggrediscano la vittima nelle sue libertà e nei suoi diritti.
La maggior parte dei rapporti sociali avviene infatti, attualmente, mediante l’utilizzo di strumenti informatici.
Teatro virtuale, crimini veri
Il nuovo universo virtuale, che si presenta come un alter ego di quello reale, è dunque potenzialmente idoneo a diventare teatro di crimini, alcuni dei quali di particolare allarme sociale, e a porre, di conseguenza, all’interprete le medesime problematiche di quest’ultimo.
I dati confortano tale conclusione. Come, infatti, si evince dalla stampa nazionale e internazionale, non sono sporadiche le denunce da parte degli utenti del Metaverso, circa il fatto che il loro avatar è stato oggetto di condotte punite anche dal Codice penale italiano e/o leggi speciali.
Le fattispecie più frequentemente denunciate sono quelle riconducibili alla categoria dei reati contro la persona. Solo per fare un esempio, da ultimo, Nina Jean Patel, co-fondatrice e ricercatrice della Società Kabuni, ha denunciato una violenza sessuale di gruppo a danno del suo avatar.
Le fattispecie di reato astrattamente configurabili
Anche al fine di comprendere quale sia il perimetro delle condotte astrattamente idonee a essere commesse anche nello spazio del Metaverso, giova preliminarmente precisare come, nel nostro ordinamento, a seguito di svariati interventi giurisprudenziali e legislativi, numerose fattispecie di reato possono oggi essere commesse anche sul web, o comunque attraverso strumenti informatici o telematici.
Estorsioni, cyberbullismo e non solo
Si pensi alle estorsioni (anche a sfondo sessuale – c.d. “sextorsion”), al cyberbullismo, agli atti persecutori (c.d. “stalking”), alle molestie, al “furto d’identità digitale”, agli abusi sessuali, all’istigazione al suicidio, al revenge porn, alla minaccia. Inoltre, anche il web può divenire una piazza virtuale di reclutamento di terroristi o di spaccio di sostanze stupefacenti, o ancora di vendita di armi e di traffico di organi umani.
Tutte fattispecie che, almeno in astratto, si possono rilevare anche nel contesto del Metaverso.
Occorre, dunque, interrogarsi circa la conciliabilità della possibilità che il “proprietario” dell’avatar venga chiamato a rispondere di una delle suddette fattispecie criminose, poste in essere a danno di un altro avatar o, comunque, di beni giuridici tutelati dal nostro ordinamento, quali l’ordine pubblico, la vita o la salute della persona, con i principi cardine del diritto penale.
Ovvero comprendere se, in generale, e per come attualmente strutturato, sia effettivamente lo strumento penalistico quello deputato a garantire tutela agli utenti del Metaverso.
I principi cardine del diritto penale
Ciò che, evidentemente, bisogna evitare è che la necessità di garantire tutele e sicurezza nel Metaverso porti ad assorbire, artificiosamente, in fattispecie di reato, anche condotte prive di una tangibile e attuale lesività, o ad applicare impropriamente i principi che regolano il nostro ordinamento in tale nuova realtà, dando vita a paradossi e rovesciamenti dei postulati tradizionali.
Controproducente introdurre nuove norme penali
Da un punto di vista sostanziale, giova prendere le mosse proprio dai principi cardine del nostro ordinamento penalistico.
Innanzitutto, si parta dalla considerazione per cui, per garantire risultati efficienti, è necessario un uso sinergico, e una equilibrata gradualità di intervento, dei diversi strumenti giuridici forniti dal nostro ordinamento, cosicché appare controproducente introdurre norme penali là dove altre norme siano sufficienti o assicurino i medesimi risultati di tutela, essendo oltretutto illusorio ritenere che il diritto penale possa da solo rimediare all’assenza di essenziali controlli preventivi che, invece, debbono essere garantiti da altri rami dell’ordinamento giuridico.
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Il principio di sussidiarietà
L’utilizzazione della sanzione penale è, dunque, legittima nella misura in cui costituisce un efficace e, a un tempo, indispensabile, strumento di tutela del bene giuridico. Di ciò si fa portavoce il c.d. principio di sussidiarietà, che costituisce l’espressione penalistica del più generale principio di proporzione, ovvero di un principio logico immanente allo stato di diritto, che ammette il ricorso a misure restrittive dei diritti dei singoli solo nei casi di stretta necessità.
I beni giuridici non sono, dunque, entità intangibili che pretendono una tutela assoluta, e ciò spiega la natura frammentaria della tutela penale (c.d. principio di frammentarietà), che si attaglia ed è applicabile solo a determinate forme di aggressione al bene protetto, rimanendo l’area del penalmente rilevante sensibilmente più limitata rispetto all’aera dell’antigiuridico, alla stregua dell’intero ordinamento e, tanto più, rispetto a ciò che è reputato immorale.
D’altra parte, in base al principio di materialità del reato, nessuna offesa, per quanto grave, può essere riconosciuta come penalmente rilevante senza un’azione che ne sia la causa.
L’oggettività del reato
Il nostro ordinamento adotta, infatti, un sistema penale oggettivo: nessuno può essere punito per una semplice intenzione, ma è necessario essere al cospetto di un fatto materiale, di un comportamento umano che si estrinsechi nel mondo esteriore e sia suscettibile di percezione sensoria (nullum crimen sine actione).
Un assunto che si deduce implicitamente dall’art. 25, co. 2, Cost. laddove, nella enunciazione del principio di legalità, la carta costituente fa richiamo al “fatto commesso”, con ciò evidentemente riferendosi a una modificazione materiale della realtà.
Ancora, la sanzione penale è subordinata al principio di offensività, in forza del quale un’azione è suscettibile di assumere rilievo penale laddove si traduca in un’offesa a un bene giuridico tutelato.
Più precisamente, l’oggetto del diritto penale è limitato alle condotte ingiustificate (antigiuridiche) e inescusabili (colpevoli) che ledono o mettono in pericolo i beni giuridici a cui il nostro ordinamento appronta specifica tutela. Un principio che rischia di porre i problemi più seri, giacché occorre evitare la tutela di beni giuridici solo apparenti.
Quale locus commissi delicti?
Anche sotto il profilo processuale si pongono questioni di non poco momento. I giuristi si stanno, ad esempio, interrogando sulla disciplina applicabile ai reati commessi nel Metaverso, in particolare ai fini della identificazione del “luogo del commesso delitto”, che determina l’Autorità giudiziaria competente a punire il fatto di reato.
Secondo, l’art. 6 c.p., i delitti puniti dall’ordinamento italiano sono solo quelli che sono stati commessi nel territorio dello Stato, e il reato si considera commesso nel territorio dello Stato, quando l’azione o l’omissione che lo costituisce è ivi avvenuta in tutto o in parte, oppure si è verificato l’evento che è la conseguenza dell’azione od omissione.
La dimensione transnazionale del reato informatico
Il territorio dello Stato è, ai sensi dell’art. 4 c.p., il territorio reale, determinato dai confini statali e dal territorio fittizio (aeromobili e navi di bandiera italiana).
A ciò si aggiungano le regole dettate, inter alia, dal legislatore italiano in tema di competenza per territorio ex art. 8 e ss. c.p.p.
Queste norme, così come interpretate dalla Corte di legittimità, diventano principi cardine anche nella risoluzione delle problematiche relative ai reati commessi per il tramite delle nuove tecnologie e alle interazioni virtuali tra le persone.
Già nell’ambito dei reati informatici o comunque configurabili sul web, la determinazione del locus commissi delicti è questione di grande complessità.
E ciò, in quanto le condotte e gli eventi dei reati informatici consistono essenzialmente nell’emanazione o nella captazione in una serie di impulsi elettronici che si muovono lungo piattaforme immateriali accessibili indifferentemente da qualsiasi persona in qualsiasi luogo del mondo e nei relativi effetti, nel contesto di una rete acefala e priva di un governo centrale: il reato informatico assume, dunque, un’autentica dimensione transnazionale, che richiede il ricorso a norme di collegamento territoriale, e porta con sé la difficoltà della loro localizzazione.
Almeno per quanto riguarda i cyber reati, a più riprese, la giurisprudenza di legittimità ha elaborato dei principi ad hoc, specifici per ciascuna fattispecie oggetto di indagine, funzionali a guidare l’interprete nella determinazione del locus commissi delicti.
Per ora si applicano i principi generali
Posto che, sul punto, la giurisprudenza non si è, invece, ancora espressa in relazione ai Meta-reati – e per quanto certamente sarebbe auspicabile un sistema legislativo in grado di determinare anche la competenza territoriale in modo certo –, rispetto a fattispecie criminose commesse in un luogo “diffuso” e virtuale, allo stato, non resta che fare applicazione dei principi generali, anche giurisprudenziali, vigenti nel nostro ordinamento.
Sulla base di ciò, si potrebbe concludere che, a seconda dei casi, i reati configurabili nel Metaverso, o in sistemi di realtà aumentata, debbano ritenersi commessi nel luogo ove si trova il soggetto che li ha posti in essere oppure nel luogo in cui risiede, ha il domicilio o la dimora abituale la persona offesa e, dunque, che potranno essere puniti dallo Stato in cui si collocano l’uno o l’altra.
La configurabilità e punibilità in concreto dei meta-reati
C’è, però, un ulteriore e ineludibile problema che il Metaverso pone: sebbene sia ormai pacifico che, almeno astrattamente, il luogo di commissione di un reato possa essere anche il web inteso in senso ampio, permangono dei fondati dubbi in merito alla effettiva possibilità di riconoscere, con riferimento ai meta-reati, la sussistenza di tutti gli elementi ineludibilmente richiesti per ritenere integrato, tanto sul piano oggettivo, quanto sul piano soggettivo, un fatto idoneo ad assumere rilievo penale per il nostro ordinamento.
Insomma, che il meta-reato possa ritenersi concretamente punibile è affatto scontato.
Dobbiamo rammentare, infatti, che il reato è definito come un fatto umano tipico – che si manifesta, cioè, in un contegno esteriore accertabile che presenta, in concreto, le caratteristiche descritte, in via generale e astratta, da una fattispecie incriminatrice prevista dalla legge – antigiuridico, ovvero posto in essere in assenza di cause di giustificazione; e colpevole, ovvero attribuibile psicologicamente a chi materialmente l’ha posto in essere.
Quando a delinquere è un avatar
Ora, anche ammettendo di poter estendere tout court, ai fatti commessi in questa nuova dimensione, i principi dettati in tema di reati posti in essere sul web, non può ignorarsi che, nel caso del Metaverso, a compiere l’azione, in una dimensione indefinita, non è un soggetto in carne e ossa, ma solo la proiezione virtuale di un essere umano che agisce, peraltro, nei confronti di un’altra proiezione virtuale. Due avatar, dunque: il soggetto agente e la persona offesa.
Occorrerebbe necessariamente postulare, anzitutto, che delle condotte realizzate dall’avatar possa (e debba) rispondere il relativo proprietario, persona fisica. Un postulato che, tuttavia, pone, almeno in astratto, un problema di consistenza con il principio di personalità della responsabilità penale, non potendo di fatto identificarsi un’esatta corrispondenza tra l’autore (im)materiale del fatto punito e il soggetto chiamato a risponderne penalmente.
Ancora, l’immaterialità (o la materialità “altra”) della condotta posta in essere nel Metaverso, da parte di un alter ego virtuale, è davvero suscettibile di costituire un fatto umano tipico?
Senza considerare le problematiche legate al principio di colpevolezza: è realistico parlare di dolo o colpa in relazione a un avatar?
Conclusioni
Alla luce di tutto quanto illustrato, pur considerati gli interventi legislativi e giurisprudenziali in tema di reati commessi a mezzo web, alla luce dei principi che governano il nostro ordinamento penale e in assenza, allo stato, di un qualunque intervento legislativo specifico sul punto, resta tutt’ora questione controversa se sia davvero ammissibile contestare al “padrone” dell’avatar, persona fisica, una responsabilità penale per le azioni contra legem commesse dal proprio alter ego virtuale.
La risposta, a parere di chi scrive, dovrebbe declinarsi in senso negativo, o si correrebbe il rischio – sia concesso il paradosso – che si possa arrivare, mutatis mutandis, a legittimare la contestazione del delitto di omicidio laddove, in un video game, con il proprio personaggio si cagioni la morte del potenziale nemico virtuale, (s)materializzazione del vero giocatore-umano (!).
Cogitationis poenam nemo patitur.
Allo stesso tempo, non può neppure accettarsi che, nel Metaverso, all’ombra di un personaggio virtuale, si possa pensare di agire impunemente.
Per questa ragione, anche considerata la portata del fenomeno, urge l’intervento del legislatore sovranazionale, al fine di individuare un sistema di tutele specifico, che al contempo eviti inaccettabili forzature delle norme penali nazionali.