Una delle cose che stanno emergendo con prepotenza dall’attuale crisi dell’informazione legata alla pandemia da coronavirus – definita anche dall’OMS infodemia – è il ruolo attivo che ogni persona può avere nel circoscrivere la portata e la rilevanza del contagio, non solo reale (rimanendo a casa e osservando le regole del distanziamento sociale), ma anche informativo (scegliendo cosa leggere e ascoltare e cosa condividere e ricondividere).
È sempre più chiara la necessità che i mezzi di comunicazione di massa (ri)prendano piena consapevolezza del loro ruolo di decodificatori privilegiati dei fatti a beneficio del largo pubblico, ma anche che gli spettatori/ascoltatori/lettori si emancipino da una modalità meramente passiva di fruizione delle informazioni messe in circolo. Non che la lettura e l’ascolto possano mai essere definiti “attività passive”; tuttavia, oggi più di prima è evidente che nessuno si può più permettere di essere semplicemente un “recipiente” del magma informativo che ci circonda.
Comunicazione: l’attualità del principio di cooperazione
Con l’intento di fornire qualche suggerimento per comprendere meglio cosa sta accadendo, partirei da alcune mie considerazioni sulle imprecisioni e sugli errori commessi fino a questo momento nella trasmissione delle informazioni rispetto all’emergenza. E vorrei farlo ricorrendo a un classico immortale degli studi della comunicazione, ossia il principio di cooperazione enunciato da Herbert Paul Grice con le relative massime conversazionali che, pur risalendo al 1975, non hanno perso nulla della loro attualità.
Il principio di cooperazione recita: “Make your conversational contribution such as is required, at the stage at wich it occurs, by the accepted purpose or direction of the talk exchange in which you are engaged”, che tradotto suona così: “Conforma il tuo contributo conversazionale a quanto è richiesto, nel momento in cui avviene, dall’intento comune accettato o dalla direzione dello scambio verbale in cui sei impegnato”. Le massime conversazionali, invece, sono le seguenti. Per ognuna di esse ho cercato di identificare le “devianze” rilevabili nella situazione comunicativa attuale.
Massima della quantità, ossia non essere reticente o ridondante
Direi che in queste settimane di epidemia prima e pandemia poi si è comunicato decisamente troppo: notizie, consigli, contro-consigli, liste, interviste, dirette, opinioni richieste e non richieste, canali ufficiali e ufficiosi hanno contribuito alla creazione di una gigantesca slavina di informazioni che ha letteralmente travolto le persone, impaurendole ancora di più invece che tranquillizzarle.
La responsabilità è in parte sicuramente dei “detentori di megafoni”, ossia di chi, facendo informazione pubblica, ha scelto di premere l’acceleratore su titoli e contenuti atti a solleticare cuore e pancia più che attivare la testa. In parte, però, forse è tempo che anche i fruitori di questi prodotti di comunicazione si armino per diventare più resistenti a un’informazione non di rado sopra le righe, “a tinte forti”, concepita sovente apposta per colpire più che per informare.
Massima della qualità, cioè sii sincero, e fornisci informazione veritiera secondo quanto sai
Non sono sicura che in questa situazione si sia proceduto seguendo questo criterio e limitandosi a parlare di ciò che si conosce bene. Ho visto giornalisti condividere notizie non verificate, studi medici apparsi su riviste minori, affermazioni altrettanto non controllate e perfino decreti ancora in bozza. Forse, tornare non solo al sapere di non sapere, ma addirittura al non sapere di non sapere, ridefinendo i limiti della propria conoscenza, potrebbe essere un primo passo per evitare l’aggravarsi dell’epidemia di informazioni.
Chiaramente, il problema non è solo dei professionisti della comunicazione: le persone, in generale, hanno spesso ceduto al desiderio di diventare, per un istante, protagoniste per lo meno del proprio circolo di amici, condividendo richieste o informazioni non solo non verificate e non verificabili, ma spesso anche non comprese per mancanza di competenze specifiche. E così, uno dei gironi infernali della comunicazione è diventato il sottobosco di chat di WhatsApp in cui molti di noi sono, volenti o nolenti, presenti. Proprio in questi contesti semi-privati hanno girato e stanno girando moltissime informazioni incontrollabili e incontrollate (per esempio, appelli via messaggi vocali di sedicenti medici o rappresentanti politici), che mettono in agitazione intere comunità, spesso senza reale motivo.
Insomma, se tutti ci limitassimo a parlare di ciò che conosciamo meglio, sarebbe già un notevole atto di “ecologia della comunicazione”, un po’ come non buttare le cartacce per terra.
Massima della relazione, ossia sii pertinente
In queste settimane, ho visto sovente mettere insieme questioni poco attinenti tra loro, con l’intenzione di trovare dei sincretismi magari inesistenti: questa è di fatto una prassi delle teorie di complotto, ma in questo momento, vista la situazione, tende a espandersi anche fuori da quel contesto specifico.
Per esempio, mentre è sicuramente importante parlare del coronavirus e di quello che ognuno di noi può fare per limitarne la circolazione, è molto meno pertinente la ricerca di un colpevole, di un “untore” a cui imputare tutta la situazione. È sempre importante individuare i pazienti zero dei vari focolai, ma lo è molto meno stigmatizzare intere categorie. E invece, in queste settimane, abbiamo visto come siano diventati nemici, in successione, i cinesi (tutti, anzi, tutti gli asiatici), i lombardi, i meridionali emigrati in settentrione per motivi di studio o di lavoro e tornati precipitosamente a casa nel momento del lock down, i podisti, chiunque esca di casa, perfino chi, al supermercato, indugia a comprare le fragole. Identificare una categoria da odiare, reazione almeno parzialmente comprensibile da un punto di vista umano, è assolutamente irrilevante ai fini del reale contrasto della pandemia. Insomma, quando si discute di un dato aspetto della questione, occorrerebbe rimanere “sul pezzo”, per quanto a volte sia difficile.
Massima del modo, ossia sii il più chiaro possibile
È stato fatto questo sforzo di chiarezza? A mio avviso, trattandosi in molti casi di informazioni scientifiche e strettamente settoriali, non si è sempre lavorato a sufficienza sulla comprensibilità da parte del largo pubblico: a partire dalla confusione terminologica tra coronavirus, COVID 19, SARS-Cov 2, dall’“è una semplice influenza” alla “polmonite interstiziale”, forse non si è sempre ragionato in base alla chiarezza nella comunicazione, prediligendo, di nuovo, altri fattori, come ad esempio la precisione scientifica (ma non sempre di facile lettura in un contesto comunicativo esoriferito rispetto al settore di riferimento) o la “palatabilità” della notizia.
Io ravvedo anche un ulteriore problema, in una parte della comunicazione sul coronavirus: la difficoltà da parte di molti esperti del settore di rapportarsi con l’esterno. Per esempio, mentre è assolutamente normale, in ambito scientifico, che ci siano studiosi che la pensano in maniera differente, spesso anche completamente divergente, tale differenza di vedute è meno accettabile al di fuori del contesto specialistico, dal quale molte persone si aspettano una sorta di “pensiero unico”, di verità vera e incontrovertibile. Vedere esperti bisticciare tra di loro ha creato ancor più smarrimento e l’inopinata formazione di squadre polarizzate su varie opinioni, una cosa che dal punto di vista scientifico non ha molto senso, dato che è possibile avere idee diverse senza che ce ne sia per forza una giusta a priori. Quindi, se da una parte sarebbe auspicabile, a mio parere, una migliore concertazione tra i protagonisti dell’informazione scientifica, dall’altra occorre indubbiamente lavorare sull’idea che le persone al di fuori dell’ambito specialistico hanno del dibattito scientifico stesso.
Dubbio, riflessione, silenzio: così si esce dalla fruizione inerte delle notizie
Ma se, come dicevamo, molti professionisti dell’informazione hanno le loro colpe (sintetizzabili attraverso il tradimento di almeno una delle quattro massime di Grice), non è più auspicabile che i fruitori dell’informazione se ne stiano con le mani in mano a subire l’infodemia. Per questo, ancora una volta propongo il mio metodo DRS (dubbio-riflessione-silenzio) come possibile parziale antidoto a tutto questo: una prima strada per iniziare a uscire dall’inerzia. Del resto, le massime di Grice stesse sono perfettamente alla portata di qualsiasi essere umano senziente: si tratta semplicemente di fare un minimo attenzione a ciò che ci arriva e a ciò che emettiamo.
E dunque, prima di tutto ecco il dubbio. Disabituiamoci alla “pappa scodellata”, alle informazioni premasticate. Non occorre che diventiamo tutti dei giornalisti professionisti in grado di investigare la veridicità di ogni notizia, ma possiamo renderci conto che spesso ciò che leggiamo è stato (volontariamente o meno) confezionato per provocare in noi determinate reazioni, non sempre ragionate ma spesso istintive. Abbiamo la possibilità di fermarci a riflettere e mettere, per l’appunto, in dubbio le nostre competenze. Se riduciamo il perimetro di ciò che riteniamo di sapere, verremo indubbiamente (!) assaliti molto più spesso dal sospetto di non saperne abbastanza. Sembra controintuitivo, tutto questo, ma non se ricordiamo che l’unico modo per alimentare la propria conoscenza è riconoscendone i limiti. La troppa sicurezza è il più grande ostacolo all’aumento del sapere.
Se il dubbio serve per districarsi rispetto alla giungla delle informazioni “in entrata”, per gestire quelle emesse da noi occorre ricorrere alla riflessione. Io di solito la riassumo così: “là fuori” c’è davvero bisogno di quello che sto per dire o scrivere? È utile o è solo l’ennesima espressione di un’opinione poco informata, che di fatto provocherà solo ulteriore caos? E poi, riecheggiando la massima sulla qualità di Grice, ne so abbastanza, su un dato argomento, per parlarne con gli altri? Sono convinta di quello che sto per dire? E soprattutto, sono in grado, a posteriori, di “reggere” ciò che ho detto o scritto, o potrebbe andare a mio detrimento o a detrimento di qualcun altro?
Faccio un esempio di comunicazione non abbastanza riflettuta, a mio avviso: una famosa influencer che vive negli Stati Uniti, che si trova quasi a fine gravidanza, ha registrato una serie di stories per Instagram in cui, in lacrime, ha spiegato ai suoi iscritti di essere fuggita da una delle grandi città degli States, rifugiandosi in campagna da un’amica, perché spaventata dalle notizie sugli americani che stanno comprando armi a più non posso. Premetto che la donna ha la mia piena comprensione e non riesco a immaginare quanto debba essere difficile essere vicina al parto in una situazione come quella attuale. Tuttavia, se da donna a donna, o meglio, da essere umano a essere umano, provo una grande pietas per lei, da comunicatrice penso che inviare un messaggio del genere, e con quelle modalità, ai suoi milioni di iscritti, sia stato sconsiderato e potenzialmente pericoloso perché in grado di scatenare una vera e propria ondata di panico e frustrazione magari da parte di persone che non hanno la possibilità di andarsene dalle città.
Conclusioni
Ritengo che tutti siamo titolati ad avere momenti di paura, come pure “idee impresentabili”, ma che dobbiamo pensare un attimo di più se condividerle o meno in pubblico, con gli altri (perché ricordiamolo: i social sono a tutti gli effetti pubblici, come ricordiamo con Bruno Mastroianni in Tienilo acceso),
Infine, a corollario di un momento di riflessione in più nel leggere e ascoltare, unito a un secondo di attesa prima di premere invio, esiste sempre la meravigliosa terza via: il silenzio. Se non si è competenti, se non si ha niente di rilevante da dire, se si sta per parlare e scrivere in preda ai peggiori istinti subumani, si può scegliere il silenzio, che non è per nulla assenza di informazione, ma solo un modo differente di comunicare.
Viceversa, cerchiamo di evitare il “silenzio degli intelligenti”, come lo chiamano diversi studiosi, tra cui Mastroianni stesso: quando c’è bisogno della nostra competenza specifica, occorrerebbe affrontare la discussione e farci sentire. È probabile che il diretto antagonista non cambierà idea, ma occorre ricordare che ogni nostra interazione online (e in fondo spesso anche offline) avviene davanti a un pubblico silenzioso molto più numeroso della quota di coloro che intervengono. Io, quando decido di dire la mia su quella manciata di argomenti che conosco bene (tra i quali, ad esempio, non rientrano né la virologia né la lettura dei grafici sulla diffusione del coronavirus), mi rivolgo a quelli, che tra l’altro rappresentano spesso la parte che riflette di più su ciò che legge e ascolta. Ogni nostro atto di comunicazione, insomma, non solo è pubblico, ma probabilmente più pubblico di quanto non pensiamo.
Penso che la una delle cose che ci potrebbe lasciare in eredità questa tremenda crisi è la diffusione della consapevolezza di quanto la nostra “cittadinanza attiva” dipenda anche da competenze personali di comunicazione.