rapporto uomo-macchina

Come incentivare la creatività nell’era dell’intelligenza artificiale



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Nel 2023, l’IA ha raggiunto capacità cognitive e creative umane, anticipando di decenni le previsioni precedenti. L’evoluzione dell’IA solleva interrogativi sulla collaborazione uomo-macchina, la proprietà intellettuale e i rischi di copyright trolling. La distinzione tra creatività assistita e automatizzata diventa cruciale per il futuro dell’innovazione

Pubblicato il 16 ott 2024

Stefano da Empoli

presidente dell’Istituto per la Competitività (I-Com)



creatività, intelligenza artificiale, Idea innovation and inspiration (1)

Aggiornando nel 2023, in seguito all’avvento dell’intelligenza artificiale (IA) generativa, lo studio che pubblicò nel 2017 sugli impatti economici dell’IA, il McKinsey Global Institute tornò a intervistare un panel di esperti chiedendo quando a loro avviso la tecnologia avrebbe raggiunto le capacità umane mediane a livello cognitivo, fisico, di elaborazione del linguaggio naturale e di socialità.

IA e comprensione del linguaggio umano: obiettivo raggiunto

Come ci si sarebbe aspettati, le risposte degli esperti retrodatarono la parità tra uomo (mediano) e macchina nella comprensione del linguaggio naturale dal 2027 al 2023, cioè la ritennero già acquisita. Un anticipo tanto più notevole considerando che mentre il dato aggiornato del 2023 è puntuale (in altre parole, obiettivo raggiunto con certezza), la previsione formulata nel 2017 dava un intervallo di valori compreso tra il 2027 e il 2053.

Di fatto, confrontandolo con lo scenario più pessimistico del 2017, l’anticipo non è stato solo di quattro anni bensì di trenta. E tutto questo è avvenuto in soli sei anni, cioè tra la precedente previsione del 2017 e quella aggiornata del 2023. Ma a sorprenderci (e inquietarci) di più di quella survey è senz’altro l’osservazione relativa alla parità che l’IA avrebbe già acquisito rispetto alla creatività, che nel 2017 era previsto potesse avvenire soltanto tra il 2030 e il 2044. Anche se quello che forse più preoccupa è il raggiungimento del quartile più alto (cioè le abilità del 25% più creativo della popolazione umana): mentre nel 2017 tale soglia era ritenuta raggiungibile dagli esperti in un intervallo compreso tra il 2045 e il 2066, nel 2023 si è passati a un intervallo decisamente più ravvicinato, tra il 2026 e il 2031, dunque con un anticipo temporale compreso tra diciannove e trentacinque anni rispetto alla previsione di soli sei anni prima.

L’ascesa della nozione di creatività e le sue implicazioni economiche

Se eravamo forse preparati a farci sostituire dall’IA nelle mansioni più faticose o ripetitive, su quelle che hanno a che fare con la creatività siamo decisamente più spiazzati. Anche se occorrerebbe poi capire meglio cosa si intende con la parola creatività. Si tratta peraltro di un’idea sorprendentemente moderna. In un libro uscito l’anno scorso per la University of Chicago Press, dal titolo che è già un programma, “The Cult of Creativity”, lo storico della cultura Samuel W. Franklin sostiene che il concetto di creatività è di fatto nato negli Stati Uniti dopo la Seconda Guerra Mondiale per una serie di ragioni, legate in buona misura all’ascesa del marketing e alla contrapposizione con l’Unione Sovietica.

Lo spazio che rimane per la collaborazione tra persone e macchine

Al di là del successo della nozione, occorre capire meglio in cosa consista e quale sia lo spazio che rimane per la collaborazione tra persone e macchine. In un articolo scientifico del 1998 intitolato «Recombinant Growth» (La crescita ricombinante), l’economista Martin Weitzman propose un modello di crescita dell’economia nel quale i fattori fissi sono arricchiti nel tempo da frammenti di sapere che vengono chiamati «idee seminali» che si accumulano via via che le precedenti idee si ricombinano a formarne delle nuove.

Dato che le possibilità combinatorie aumentano esponenzialmente, Weitzman concludeva dicendo che «nei primi stadi dello sviluppo la crescita è limitata dal numero di potenziali nuove idee, ma in seguito è limitata soltanto dalla capacità di elaborarle». Weitzman si riferiva principalmente alle innovazioni scientifiche, quelle più direttamente misurabili negli impatti sulla crescita, e non aveva in mente in particolare l’IA. A fare il collegamento ci hanno pensato all’incirca dieci anni fa Eric Brynjolfsson e Andrew McAfee che nel loro bestseller “The second machine age” (in italiano tradotto meno efficacemente come “La nuova rivoluzione delle macchine”) hanno osservato che digitale e IA potrebbero aiutare sensibilmente a selezionare le ricombinazioni più promettenti tra quelle potenzialmente infinite (e/o provare a testarle più velocemente). Per semplificare moltissimo è come immaginare un piano cartesiano in cui i due assi indicano idee disruptive che possono essere ricombinate (oppure uno un’idea disruptive e l’altro i possibili campi di applicazione). Un “creativo”, sia esso scienziato o artista o altro, è in grado di occupare solo alcuni di quei punti senza aiuti esterni. Se invece fosse aiutato dall’IA sarebbe in grado di operare un numero incredibilmente più elevato di diverse ricombinazioni oppure, il che è la stessa cosa, di poterlo fare molto più velocemente.

Il Nobel per la Chimica 2024 come applicazione del concetto di crescita ricombinante guidata dall’IA

Tool come Alpha Fold, la cui seconda versione è stata premiata quest’anno con il Premio Nobel per la chimica, rappresentano di fatto la manifestazione concreta di questa idea, naturalmente a partire da intuizioni geniali, che sono valse il riconoscimento dell’accademia svedese a Demis Hassabis e John M. Jumper, insieme a David Baker. Spiegava a fine maggio in un’intervista al Corriere della Sera James Manyika, senior vice president di Google per la tecnologia e la società e in quanto tale supervisore di tutti i programmi di ricerca IA del colosso statunitense, che “capire il processo di una singola proteina richiede in genere 3 o 4 anni di lavoro in laboratorio e prima di Alpha Fold i biologi avevano compreso la struttura di circa 110 mila proteine in tutto il mondo. Un anno fa Alpha Fold ha predetto accuratamente la struttura di tutte le proteine note alla scienza, circa 200 milioni”. E oggi Alpha Fold 3 è passato a comprendere tutte le molecole, come lo stesso DNA. Un fenomeno simile (ancorché meno misurabile) può incominciare a vedersi nella produzione di contenuti, ad esempio nella creazione di immagini.

Grazie all’IA, ad esempio, un grafico può sviluppare molto più velocemente o applicare a molti più contesti le sue idee. Dunque effettivamente l’IA è diventata più creativa ma non sappiamo ancora se sarà più sostitutiva o additiva/complementare. In altre parole, se si creeranno molte più cose di quelle che si sono fatte finora oppure un numero simile a prima impiegando meno risorse umane. Molto dipenderà, come si è già scritto, dalla capacità dell’uomo di adeguarsi, attraverso processi di riqualificazione ma anche la visione dei datori di lavoro, supportata dalla capacità dei lavoratori, di guardare alle nuove sfide soprattutto come un’opportunità di crescita più che di risparmio di costi (filosofia che ben traspare dall’intervista di Manyika, nato e cresciuto in Zimbabwe, fino a ottenere dopo la laurea in ingegneria una prestigioso borsa di studio dall’Università di Oxford che gli ha permesso di approdare prima nel mondo universitario inglese e poi negli USA per lungo tempo a McKinsey e dal 2022 a Google).

Proprietà intellettuale e AI: i due trade-off di cui tenere conto nell’addestramento dei modelli

Il diritto d’autore così come più ampiamente la protezione della proprietà intellettuale vanno in un certo senso a remunerare proprio i frutti della creatività, escogitando un sistema di incentivi che ne incoraggi un’adeguata produzione. Allo stesso tempo occorre fare in modo che strumenti pensati per favorire espressioni originali dell’ingegno umano non ne divengano un ostacolo, impedendo o elevando i costi per le invenzioni altrui. Questo bilanciamento di diversi interessi deve essere sempre tenuto in adeguato conto. Nel caso dell’IA e della tutela dei dati utilizzati come input per l’addestramento dei modelli multimodali, a mio parere si sottovalutano due trade-off evidenti: quello tra un diritto d’autore forte e l’accesso del mercato IA a una pluralità di soggetti sviluppatori di modelli e quello sempre tra un diritto d’autore forte e la promozione dell’identità e della cultura del proprio Paese espressa nella madrelingua e nelle diverse espressioni mediali che la accompagnano.

Rispetto al primo trade-off, è evidente che maggiore è la remunerazione dei detentori dei diritti per fornire dati di qualità e più elevati saranno i già ingenti costi di addestramento e tanto più alti si configureranno questi secondi minore sarà il numero di aziende tecnologiche e startup che potranno permetterseli. Già oggi, nonostante l’enorme successo dei propri modelli, protagonisti assoluti di questa rivoluzione come OpenAI, che hanno puntato solo sull’IA generativa, sono in fortissima perdita (secondo alcune stime pari a circa 5 miliardi di dollari nell’anno in corso). Il rischio, specie per noi europei che vorremmo accomodarci al tavolo di chi sviluppa IA, è che alla fine le barriere all’ingresso (e anche al semplice break-even che garantisce la minima condizione di permanenza di lungo periodo sul mercato) siano talmente alte che quel tavolo diventerà nei fatti un tavolino per pochi intimi.

Il secondo trade-off dovrebbe preoccupare soprattutto noi europei, desiderosi di vedere riflettere la nostra cultura nazionale e con essa l’identità e i valori che essa rappresenta nei dati forniti in pasto ai modelli di linguaggio e multimodali. Tuttavia, se alla relativa scarsità dei dati di qualità presenti nelle lingue diverse dall’inglese sommassimo anche oneri eccessivi per acquisirli ecco che ogni tentativo di questo tipo andrebbe a farsi benedire prima di poter essere effettivamente esperito.

Con ciò non vogliamo certo sostenere che il diritto d’autore debba necessariamente lasciare spazio alle ragioni della concorrenza e della promozione delle culture nazionali ma che ogni soluzione di buon senso debba considerare la relativa complessità del tema e degli interessi che vanno considerati per arrivare a risultati magari subottimali ma quantomeno soddisfacenti.

Rischi di copyright trolling e la cruciale distinzione tra creatività assistita e automatizzata

La ragionevolezza dovrebbe però riguardare anche quello che si crea grazie all’IA. David Bellos e Alexandre Montagu hanno posto l’accento nel loro recente libro “Who owns this sentence? A history of copyrights and wrongs” sui possibili abusi del diritto d’autore e sulle sue implicazioni regressive in termini di distribuzione del reddito. Riferendosi all’IA, i due autori sono preoccupati dalla possibilità che chi dispone dei migliori software possa fare incetta di proprietà intellettuale, grazie al possibile aumento esponenziale di possibili creazioni dell’ingegno. Innescando anche fenomeni di copyright trolling, cioè comportamenti opportunistici tesi ad occupare quanto più territorio creativo possibile soggetto a diritto d’autore con il precipuo scopo di chiedere il risarcimento del danno per possibili violazioni.

Naturalmente, come giustamente sottolinea Vincenzo Iaia nel suo pregevole capitolo sugli scenari del diritto d’autore nel Manuale sull’Intelligenza Artificiale curato da Ranieri Razzante appena pubblicato da Giappichelli, occorre distinguere tra forme di creatività assistita e forme di creatività automatizzata. Mentre le prime, almeno al di là di una certa soglia di contributo umano, dovrebbero essere soggette a una qualche protezione del diritto d’autore (anche se al momento si intravvedono approcci differenti nelle diverse giurisdizioni), le seconde non è ipotizzabile che lo siano. Peraltro, se si seguisse questa linea, sempre con la dovuta misura, si otterrebbero due piccioni con una fava: non solo si eviterebbe o quantomeno si mitigherebbe una copertura eccessiva e opportunistica del diritto d’autore ma si incentiverebbe la collaborazione tra macchine e persone in luogo della sostituzione delle seconde con le prime. C’è solo da sperare che nei prossimi anni e decenni questa distinzione tra creatività assistita e automatizzata continui ad avere senso e allo stesso tempo sia sempre possibile riconoscere il contributo umano da quello della macchina. Due sfide che c’è da scommettere accompagneranno il rapporto tra creatività e IA nei tempi futuri.

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