Proprio in uno dei momenti di massima conoscenza scientifica come quello che stiamo vivendo, la pandemia ha messo al centro del discorso pubblico il problema della comunicazione della scienza. Dalla diffusione delle informazioni sul virus, la sua contagiosità, così come la necessità di misure di contenimento in quanto migliore strategia possibile per ridurre i contagi, fino ai più recenti scontri sui vaccini, la possibilità di un obbligo vaccinale, l’adozione del green pass per regolare l’accesso agli spazi: la scienza è diventata un affare pubblico, condiviso dai pubblici.
Ma, comunicare la scienza è un’attività complessa: in termini semiotici consiste in un’operazione di traduzione tra linguaggi diversi. In questa prospettiva, l’operazione comunicativa di semplificare meccanismi articolati richiederà una conoscenza del campo che si sta cercando di trasmettere, così come di tenere in conto le dinamiche comunicative del contesto in cui ci si inserisce.
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Già il termine divulgazione presuppone un’asimmetria tra un sapere esperto e un popolo da istruire, da educare: ma l’attività di comunicazione del sapere deve fondarsi per forza sull’asimmetria? Come facilitare e progettare la comunicazione tra esperti e non esperti? Come prevenire i rischi della polarizzazione? Nel nostro contesto mediale, infatti, sembra esserci una crisi dell’expertise (Marrone 2021), che svaluterebbe il ruolo sociale degli esperti.
La semiotica può offrirci degli spunti per analizzare i processi comunicativi del sapere scientifico con metodologie ad hoc.
Stessi contenuti, diversi linguaggi espressivi: il ruolo della semiotica
La semiotica studia i processi comunicativi a partire dal concetto di “segno” come funzione che tiene insieme un’Espressione e un Contenuto. Che si intenda il contenuto come pensiero o che lo si intenda come concetto o rappresentazione semantica, l’idea è quella di una distinzione tra qualcosa di intellegibile e qualcosa di sensibile, tenute insieme da appunto una “funzione segnica” (Eco 1975).
Questo risponde dell’idea strutturale per la quale le lingue naturali ritaglino in maniera diversa i propri significati, pertinentizzando aree diverse di quello che si chiama continuum del contenuto: secondo il famoso esempio di Hjelmslev (cfr. Hjelmslev 1943), avremo lingue che segmentano la materia del contenuto in maniere diverse (Tab.1, da Eco 2003: 41), per cui il campo semantico di /legno/ e /foresta/ viene segmentato come segue:
albero | arbre | Baum | tree |
legno | bois | Holz | timber |
bosco | wood | ||
Wald | |||
foresta | forêt | forest |
(Tab.1)
Seguendo questa ipotesi, le scienze semiotiche hanno progressivamente teorizzato l’attività di diversi linguaggi espressivi – intesi come macro-sistemi significanti – che articolano in maniera diversa gli stessi contenuti, arrivando a esprimere concetti attraverso vere e proprie semiotiche diverse: si tratta della traduzione intersemiotica che permette di raccontare la stessa storia attraverso un libro, un film o sequenze di immagini. Seguendo Dusi:[…] potremmo dire, in via preliminare, che si dà traduzione intersemiotica quando vi è la riproposta, in una o più semiotiche con diverse materie e sostanze dell’espressione, di una forma del contenuto intersoggettivamente riconosciuta come legata, a uno o più livelli di pertinenza, alla forma del contenuto di un testo di partenza. (2000: 8)
Immaginiamo adesso di dover cercare di capire un testo scritto in una lingua a noi sconosciuta. Al di là della possibilità di disporre di strumenti di traduzione automatica, se volessimo cimentarci in questa operazione dovremmo prima di tutto imparare come quella lingua ritagli i propri piani di espressione e di contenuto e di come istituisca delle relazioni tra gli elementi discreti di uno e gli elementi discreti dell’altro. A quel punto potremo individuare quali contenuti veicolerà quella lingua attraverso le proprie sostanze espressive.
Se questo esempio ci appare particolarmente semplice, proviamo a spostare l’attenzione su altri tipi di sistemi semiotici: all’interno della stessa lingua naturale ad esempio, i linguaggi specialistici di alcune discipline possono essere considerati come sotto-insiemi significanti che ritagliano aree specifiche del contenuto attraverso sostanze dell’espressione specifiche, arrivando magari anche a ridefinire il significato (diverso piano del contenuto) di significanti (stessa sostanza espressiva) di uso comune[1]. Infatti, con Fabbri: […] accanto alla traduzione interlinguistica (o traduzione propriamente detta) esistono altri tipi di traduzione. È possibile per esempio tradurre all’interno della stessa lingua tra tipi diversi di discorsività. Per esempio possiamo tradurre un discorso scientifico in un discorso poetico (1998: 84).
Diversi linguaggi per diversi tipi di competenze semiolinguistiche
Ne consegue che a diversi linguaggi corrispondano diversi tipi di competenze semiolinguistiche. Per poter portare avanti questa riflessione di stampo strutturale, bisogna mettere per un attimo tra parentesi le sue diverse implicazioni epistemologiche. Si potrebbe infatti obiettare che alcuni linguaggi specialistici siano più veri rispetto ad altri: prendiamo ad esempio quello medico rispetto a quello comune. Il dibattito sul fatto che noi conosciamo la realtà attraverso segni, e che quindi la nostra conoscenza sia influenzata non solo dal linguaggio, ma più in generale da come determinati tipi di contenuto vengano o meno codificati attraverso processi sociali e culturali, è molto complesso e forse antico come la filosofia stessa: non è questa la sede per affrontarlo. Ciò che si vuole portare avanti in questa sede è invece una riflessione sulla commensurabilità tra diversi universi di sapere – al di là della loro singola legittimità –, di come questi posano essere tradotti l’uno all’altro secondo il modello della traduzione intersemiotica. È vero anche, infatti, che un universo di sapere non comprenderà solamente competenze di tipo linguistico o lessicale, e che una disciplina scientifica fornisca, al pari di un lessico specifico, anche dei modelli o degli schemi attraverso cui inquadrare fenomeni ed elementi del mondo, così come principi di stampo appunto epistemologico che rendono più o meno accettabili alcuni enunciati.
Il limite del concetto di traduzione in senso stretto
A questo punto appare evidente il limite del concetto di traduzione in senso stretto, di come questo per “prudenza terminologica” (Eco 2003: 23) possa non sembrare il più adatto a trattare di fenomeni non strettamente linguistici ma semiotici, per i quali ad esempio lo stesso Eco propone di volta in volta termini come “trasmutazioni” o “adattamenti” (ibid.). Questo limite diventa ancora più evidente quando si parla di fenomeni come quelli che riguardano la comunicazione della scienza che coinvolge, come si sta cercando di illustrare, competenze di ordine complesso. Se queste competenze, così come gli schemi o modelli di comprensione delle teorie, non possono essere ridotte al livello linguistico, sono comunque inseribili all’interno della dimensione del discorso, che comprende anche dimensioni pragmatiche e meta-semiotiche senza però poterle considerare avulse dalle condizioni storico-sociali della loro produzione. È per questo che si sceglie di parlare di traduzione in un senso più ampio, come l’ha concettualizzata la semiotica lungo la sua tradizione (cfr. Dusi 2000).
La differenza tra denotazione e connotazione
Una volta compreso questo passaggio, per poter parlare del rapporto sociale tra divulgatori e destinatari, bisogna introdurre un ultimo concetto: quello della differenza tra denotazione e connotazione (cfr. Traini 1999).
Dal punto di vista teorico, in semiotica il significato è distinto dal referente: questo vuol dire che ciò a cui ci riferiamo quando comunichiamo non sono gli oggetti del mondo, ma i loro significati intellegibili, che si distinguono tra loro in maniera relazionale. Le cose del mondo (così come i concetti astratti e tutto ciò che è nominabile) possono essere poste a contenuto dei nostri enunciati, e quando questo succede si parla di fenomeni di denotazione: la denotazione è un rapporto semplice tra un elemento dell’espressione e un elemento del contenuto.
La connotazione invece è un significato secondo, che viene costruito a partire dalla funzione segnica denotativa: se al significante “gatto” corrisponderà il contenuto semantico di /gatto/ (denotazione), è altamente probabile che questa funzione possa fungere da piano dell’espressione per un significato secondario, come /carino/ o /furtivo/. Anche quello sulla gerarchizzazione dei tratti semantici è un dibattito aperto, e la loro distribuzione dipende dal tipo di teoria semantica – o cognitiva – che si vuole adottare: alcune teorie, ad esempio, rifiutano la gerarchizzazione e tendono a considerare i significati come fasci di tratti semantici inseparabili tra loro; altre a considerare i significati come dei frame (Fillmore 1985), ovvero dei quadri narrativi ricchi di elementi.
A seconda della teoria adottata, si darà priorità ai significati codificati culturalmente, o a quelli acquisiti per esperienza personale, distinguendo o inter-relando con maggiore o minore intensità questi due domini. Ciò che è di difficile contestazione, qualsiasi teoria si adotti, è il ruolo della cultura nel regolare i processi connotativi: a partire dalla nostra appartenenza a gruppi diversi attribuiremo connotazioni diverse alle stesse funzioni segniche. Il significato di un segno, infatti, non si riduce mai alla sua funzione denotativa.
Chi è e cosa fa un divulgatore
Che cosa c’entrano le teorie semantiche, le funzioni segniche, la connotazione e la traduzione con la divulgazione scientifica? Che cosa fa un divulgatore? L’ipotesi che si intende qui perseguire è quella di considerare l’attività di divulgazione come un fare traduttivo che cerchi di adattare gli stessi contenuti a sostanze espressive diverse.
Seguendo questa ipotesi quindi, una spiegazione scientifica complessa, per poter essere tradotta in maniera efficace, dovrà trovare una maniera diversa di essere espressa adattando la sostanza espressiva al contesto di ricezione: se infatti i diversi contesti regolano la denotazione (meno spesso) e la connotazione (più spesso) (cfr. Fabbri 1973), non si potrà considerare come insignificante o irrilevante il contesto di ricezione. È l’idea della cooperazione intertestuale (Eco 1979), che prevede un lavoro cooperativo da parte del lettore nel fornire l’interpretazione di un testo, e che postula la categoria virtuale di Lettore Modello come ipotesi interpretativa che sottende a ogni produzione testuale.
Il divulgatore o la divulgatrice, quindi, dovrà tenere conto non soltanto di una competenza specifica rispetto al linguaggio specialistico che deve tradurre, ma conoscere anche il linguaggio dei possibili riceventi. Secondo l’approccio della semiotica interpretativa, l’idea di una lingua franca semplice accessibile a tutte e tutti in maniera indiscriminata appare quasi un’utopia. Questo perché tutti i testi saranno sempre soggetti a interpretazione, e a meno che il lettore modello previsto dal testo e il destinatario empirico che vi si approccia concretamente non condividano gli stessi universi di sapere, si presenterà sempre la possibilità di decodifiche aberranti, o interpretazioni non-coerenti.
Il problema però è che nelle situazioni comunicative ciò che ci portiamo dietro non è solo il contenuto che vogliamo esprimere, ma anche delle immagini – che la semiotica classica indica come residuali –, dei simulacri che chi enuncia lascia all’interno dei propri enunciati. Questi simulacri sono a loro volta degli elementi testuali passabili di interpretazione, delle marche del testo che ne orientano l’interpretazione. Da un punto di vista strettamente strutturale, sul piano comunicativo l’oggettività è il prodotto di un lavoro dell’enunciatario di rimozione delle proprie tracce. Questo vuol dire che il testo che si vuole oggettivo è il risultato di una trasformazione di un “discorso” (Barthes 1983; Bastide 2001) in un “racconto”, dove la presenza dell’autore o dell’autrice del testo viene marginalizzata fino a scomparire, per lasciare posto a una versione oggettivata dei fatti. Questo è il caso della produzione di testi scientifici, come i paper o i lavori di ricerca, in cui attraverso delle metodologie di analisi – che rispondono a diversi paradigmi epistemologici – si cerca di restituire un oggetto esterno indipendentemente dalla volontà del ricercatore o della ricercatrice.
Le ricerche semiotiche di Françoise Bastide (2001), hanno cercato di portare avanti una riflessione sulla testualizzazione del sapere scientifico, andando a rilevare le caratteristiche semionarrative alla base dei testi che dovevano trasmettere i risultati di determinate ricerche. La scommessa qui non era – come vogliono i detrattori degli studi sociali della scienza – di subordinare l’esistenza degli oggetti osservati all’azione sociale, ma di sviluppare degli strumenti analitici del linguaggio che rendessero conto del suo funzionamento, così come della dimensione intersoggettiva del senso, anche per quanto riguarda il linguaggio scientifico. Così, anche il testo di un paper scientifico avrà attanti, attori, percorsi narrativi, finalità, valori: la rimozione delle tracce dell’enunciatore dal testo non svuota il senso della sua costitutiva intersoggettività. Il testo scientifico, contrariamente alla sua vulgata, attiva passioni particolari come il dubbio e la certezza, ma anche l’attesa e la meraviglia, […] Senza questi requisiti, la divulgazione si riduce a un’esecuzione sommaria di concetti o all’uso di grossolane metafore per un ipotetico e immotivato lettore che non le leggerà mai. (Fabbri 2001: 16)
Lo statuto dell’oggettività nella comunicazione della scienza
Qual è quindi lo statuto dell’oggettività nella comunicazione della scienza? Nel momento in cui ci si pone come comunicatori della scienza, l’eliminazione della propria figura dai propri testi per renderli oggettivi è quasi paradossale. È inevitabile porsi come personaggi dei propri discorsi, mettere in scena il proprio sapere. Questo mette in campo degli altri problemi, di natura narrativa: qual è il ruolo narrativo dei divulgatori? Quale il loro ruolo sociale, quali sono i tratti codificati nella nostra cultura che ci permettono di dare un senso al loro lavoro?
È necessario ancora ribadire che queste riflessioni non riguardano lo statuto di verità delle teorie scientifiche a oggetto della scienza: il grado di verità delle diverse scienze, che sono processi aperti e in costante mutamento e aggiustamento, è sempre definito dalla coerenza con i principi epistemologici delle scienze stesse e valutato dalle comunità di esperti. Ciò su cui si sta cercando di riflettere è ciò che succede in seguito all’inevitabile messa in discorso di queste scienze, e in quale maniera rappresentare e trasmettere quella stessa verità.
Per ritornare infine al problema iniziale, quello della traduzione intersemiotica, ci si vuole infine chiedere che cosa succeda a quella complessità del testo scientifico, la cui traduzione spetta al divulgatore. Se è necessario che la traduzione prenda in considerazione il contesto di ricezione, il lavoro del divulgatore consisterà nella messa in atto di meccanismi di semplificazione. La posta in gioco della divulgazione è che questa semplificazione possa avvenire senza perdere in complessità, ma mantenendola dal punto di vista della struttura del contenuto.
Gli esperti hanno davvero perso il loro ruolo sociale?
Con la pandemia, come abbiamo detto, la scienza è diventata un affare pubblico, condiviso dai pubblici.
Secondo il senso comune, il nostro tempo potrebbe vantare di essere uno dei momenti di massima conoscenza scientifica, dalla fisica alla biologia, fino all’innovazione tecnologica; allo stesso tempo lo statuto del sapere degli esperti sembra essere messo in discussione all’interno degli spazi mediali (cfr. Marrone, Migliore 2021), arrivando a costituire una crisi dell’expertise. Ma è proprio così? Gli esperti hanno davvero perso il loro ruolo sociale, o l’anti-intellettualismo è una pratica che è sempre esistita (Barthes 1957)? La presenza di divulgatori scientifici all’interno del panorama mediatico detto “tradizionale” è diventata sistematica: i palinsesti televisivi, così come le pagine dei quotidiani, si sono fatte ricche di opinioni esperte. Gli esperti insomma, si sono moltiplicati, o quanto meno si sono moltiplicati i loro simulacri, arrivando nelle case di quasi tutti gli italiani. Questo si è inserito all’interno di un clima di sfiducia nei confronti dei media che permea la condizione della postverità (Lorusso 2018).
Ciò che viene contestato dai detrattori dei comunicatori scientifici, spesso, non viene contestato a livello denotativo: le competenze per comprendere la complessità del contenuto delle teorie scientifiche non appartengono alla maggior parte della popolazione, e sotto un certo punto di vista è comprensibile, se non giusto: non può essere richiesta da parte del “pubblico” la proprietà di competenze mediche al pari di specialisti. Certo, vengono portate avanti posizioni fantasiose (Di Cesare 2022) sul funzionamento dei vaccini e sulla loro pericolosità, e vengono proposte soluzioni “alternative” di dubbia fondatezza scientifica. Ma è contestabile che questi meccanismi di contestazione avvengano sul piano denotativo, quindi sul piano del contenuto cui le teorie si riferiscono direttamente, in quanto la contestazione sembra avvenire più che altro su un livello appartenente al dominio dell’immaginario (Deleuze 1976). D’altronde, se il linguaggio fosse referenziale, la comunicazione si ridurrebbe a un processo meccanico tendente ad un’adesione perfetta alle cose – e il problema della divulgazione non si porrebbe neanche. Il problema vero è che il linguaggio scientifico non viene accettato in virtù di elementi connotativi, o di connotazioni delle funzioni segniche del discorso scientifico.
Già negli anni ’70, in seguito al dibattito sulla presenza di una “cultura alta” e una “cultura bassa” (Eco 1968) e del dibattito sugli “effetti dei media”, Paolo Fabbri (1973) ribadiva la specificità di una semiotica che potesse studiare in maniera diversa le comunicazioni di massa rispetto ad approcci sociologici e marxisti. Come ricorda Marrone: “Di contro alle numerose ipotesi teoriche circa un deficit cognitivo del pubblico dei media, costitutivamente incapace di comprendere a pieno i messaggi giornalistici, televisivi o pubblicitari perché privo dei codici necessari per interpretarli in modo corretto, Fabbri insiste sull’idea di un décalage di natura non cognitiva ma culturale, antropologica, fra produttori e consumatori. Da una parte, si porrebbe il problema di definire (ideologicamente?) cosa è corretto e cosa non lo è, cosa vuol dire intendere ‘a pieno’ e che cosa sarebbe invece ‘errato’ nel processo di interpretazione. D’altra parte, mettendo da canto tale questione in fin dei conti normativa, e comunque pregiudiziale, emerge il problema non della presenza o dell’assenza dei codici necessari ma delle difformità di codice fra i differenti attori della comunicazione […] (Marrone 2017: 34-35)”.
La crisi dell’expertise, nel contesto mediatico di oggi – che si è smesso, forse affrettatamente, di denominare come “di massa” – prende le forme di un mancato riconoscimento del lavoro, dello status, dell’esperienza e della competenza, in virtù di una critica politica che dispiega sistemi di micropoteri (cfr. Marrone 2021). Ma forse si tratta più che altro di una svalutazione del sapere degli esperti dipendente dalle dinamiche di moltiplicazione e sovraesposzione mediatica: “Così, in questa altalena di fiducie e sfiducie continue nei confronti degli esperti, sguazzano giornali e televisione, che un giorno riportano il parere di un accigliato cattedratico sorboniano dai toni apocalittici e il giorno dopo intervistano un simpatico giovanottone californiano che inneggia all’ultimo microchip intelligente che, da solo, scoprirà il vaccino giusto per far fuori per sempre il maledetto coronavirus. Libertà di opinione? Certo. A condizione di ammettere che il parere di un esperto non è nient’altro, appunto, che un’opinione come un’altra, e non l’enunciazione di una verità assoluta”. (Marrone 2021: ebook)
Il lavoro del divulgatore è più che mai complicato, perché si deve inserire in un contesto mediale iper-complesso, dominato da dinamiche sensazionalistiche incompatibili con i tempi della ricerca scientifica, e che rende la traduzione sempre più difficile, moltiplicando i contesti sino al loro collasso. Il cosiddetto “collasso dei contesti” (cfr. Brandtzaeg, Lüders 2018) si qualifica come una moltiplicazione dei regolatori di connotazione, in una difficile convivenza mediale di linguaggi che rende più che mai sofisticato il lavoro del divulgatore-traduttore, il quale deve perciò tendere a quella lingua franca impossibile: tendere verso un’utopia interpretativa.
Conclusioni
Alla luce quindi dell’attività di divulgazione come è stata presentata in precedenza, si vuole ribadire la necessità di una attività traduttiva che non si basi su una fondamentale asimmetria. Se la pratica di divulgazione è una pratica di traduzione che deve garantire la complessità del contenuto del discorso scientifico da un linguaggio contestuale a un altro, è necessario che il divulgatore o la divulgatrice non cerchino di raggiungere la totale oggettivazione del proprio discorso – la quale, come si è cercato di dimostrare, è impossibile, in quanto essi stessi devono essere protagonisti dei propri enunciati – ma che riconosca il proprio ruolo e lo sappia inserire all’interno di un complesso sistema di codici culturali. Questi ultimi non si dispiegano su un asse di presupposte capacità cognitive, ma si costituiscono come linguaggi, culture diverse, in traduzione. Sempre Marrone ci aiuta a cogliere l’odierna pertinenza delle teorie di Paolo Fabbri sulle comunicazioni di massa: “Il contadino lucano che non coglie il messaggio televisivo non è, come sostengono alcuni sociologi, una sorta di bambinone vittima dei codici più o meno subliminali di cui si serve il sistema di potere degli emittenti – così come il ‘primitivo’ studiato dagli antropologi non è un buon selvaggio a cui occorre donare un po’ di civiltà per migliorarne le condizioni di esistenza. Entrambi sono portatori di culture altre, e quella che viene letta come incapacità interpretativa è in realtà, forse più gravemente, un dissidio antropologico, dunque semiotico. […] È a livello delle connotazioni che spesso s’insinua la discrasia culturale, non a quello delle denotazioni esplicite. E non sono i grandi codici culturali, a iniziare da quello linguistico, a costituire materia di problema. Su di essi, alla fine, ci si intende. Sono piuttosto i sottocodici propri alle diverse subculture, quelli che permettono l’interpretazione e la valutazione non dei messaggi mediatici in sé, ma delle loro connotazioni sociali” (Marrone 2017: 34-38).
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Marrone, G., Migliore, T. (a cura di)
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- In questi casi si tratta di processi di risemantizzazione. ↑