C’è un rischio reale che l’Italia perda gradualmente posizione nel gruppo delle grandi potenze industriali anche per la mancanza di talenti? Avanti di questo passo, sì. L’automazione della produzione e la robotica stanno modificando lo schema organizzativo delle imprese più competitive. Non più a piramide, con poche figure apicali e una consistente fascia intermedia di quadri e gran base di lavoro dequalificato, bensì “a clessidra” con due basi, una in alto ad alta e altissima qualificazione e l’altra in basso fatta di braccia: in mezzo, dove una volta c’erano diplomati e laureati con competenze generiche, siamo stretti. Per dirla con Stefano Zamagni, la disoccupazione intellettuale è tutta lì.
Secondo il Global Competitivity Index siamo al 74° posto al mondo per spesa nel terzo ciclo formativo, al 57° nel lifelong learning e al 114° nello sviluppo dei lavoratori dipendenti: bastano questi dati per capire l’urgenza di una politica industriale che parta dallo sviluppo e dalla promozione delle competenze nel nostro contesto produttivo.
Il problema non è però, come ogni tanto si legge, nel fatto che i ricercatori italiani vadano all’estero, quanto nel fatto che il nostro Paese, le nostre Università e i nostri centri di ricerca non riescano ad attrarre nella stessa quantità laureati e ricercatori dall’estero, così che il saldo tra l’esportazione e l’importazione di ricercatori si ferma su un -13.2% a differenza di altri paesi europei in pareggio (Germania) o con un saldo attivo (Svezia +20%, UK +7,8%, Francia +4,1%). Come possiamo creare un humus fertile per colmare questo gap via via crescente? Nel detto comune, ci consideriamo un popolo flessibile. Tuttavia, la nostra cultura d’impresa guarda ancora indietro. I vecchi modelli di gestione aziendale, di attività e servizi della PA, di insegnamento, di politica, di società nel suo complesso non servono più nel mondo attuale. È la continua innovazione dei modelli, la flessibilità nel progettare e utilizzare nuovi processi, la cultura dell’apprendimento continuo e della continua innovazione che permettono a una azienda, come a un Paese, di svilupparsi e prosperare.
Nel campo della produzione del valore, dopo anni senza difesa delle attività produttive, ci si sta ora rendendo conto che la creazione dei posti di lavoro nasce dalla produzione, non tanto e non solo per la mano d’opera diretta nella manifattura, quanto per i servizi che vengono generati. Così Francia, Regno Unito, Germania e USA hanno lanciato piani e programmi importanti di industrializzazione. In parallelo va però segnalato che lo sviluppo e l’introduzione della robotica e dell’intelligenza artificiale (che sta prendendo corpo con velocità crescente e i cui effetti sui posti di lavoro e la società nessuno è oggi in grado di prevedere) richiede che ci si focalizzi sulla creazione di quelle competenze in grado di effettuare attività di sviluppo e ricerca in questi settori e in quei servizi per i quali non sembrerebbe immediata la possibilità di sostituzione delle attività umane. È necessario quindi evitare di focalizzarsi sulle attività dirette, ma sviluppare tutto l’indotto di servizi. Se guardiamo la situazione italiana, il piano industria 4.0, portato avanti con grande determinazione dal Ministro Calenda, è certamente un piano innovativo per il nostro Paese e di grande portata. Ma, appunto, la trasformazione delle industrie non avviene solo ammodernando i macchinari, bensì tutta la filiera del prodotto. La trasformazione verso i processi digitali, si basa dunque sì su investimenti hardware, ma soprattutto su nuovi processi e applicazioni. Questi sono costi in generale non ammortizzabili (opex) e che quindi non beneficiano dei provvedimenti approvati fino ad ora; per questo motivo è essenziale che vada incentivata la gestione dei processi aziendali tramite tecnologie digitali come il cloud, anche in outsourcing.
Considerando infine la struttura dei settori industriali presenti in Italia, è quindi essenziale che le industrie, a partire dalle PMI, completino la trasformazione all’economia digitale. Questo dipende dalla cultura prevalente che deve essere sempre più business-oriented: orientata sia a livello personale che aziendale al continuo apprendimento, dalla diffusione di competenze innovative e dalla possibilità di realizzare gli investimenti necessari. Su questi punti serve un patto tra le tutte le forze politiche responsabili ed è necessario correre, perché purtroppo i dati sulla disoccupazione dei giovani non lasciano spazio a ulteriori perdite di tempo.