Le buone notizie sono due: la prima è che l’Italia delle startup innovative è un ecosistema vivace che cresce a ritmi incoraggianti, con oltre mille aziende già iscritte alla Camera di Commercio; la seconda è che tale ecosistema oggi può contare anche su nuovi sistemi di finanziamento partecipato, il cosiddetto crowdfunding, dove la moltitudine delle persone in rete ha la possibilità di sostenere un progetto o un’azienda donando cifre anche piccole, ma che sommate tra loro arrivano a garantire il lancio di un’impresa. In Italia ci sono circa 40 piattaforme per il crowdfunding, con 3 o 4 che da sole concentrano la maggior parte del traffico e delle attività. Nel mondo in totale sono quasi 500.
Purtroppo c’è anche una cattiva notizia, ed è che nel nostro Paese manca ancora la cultura digitale necessaria a far decollare definitivamente questo virtuoso meccanismo. Dal lato dell’utente, tale mancanza si traduce ad esempio nell’ancora scarsa propensione degli italiani ad utilizzare strumenti e servizi per il pagamento online. «Quello cui ci troviamo di fronte è un vero e proprio paradosso – spiega Claudio Bedino, Ceo e cofondatore della piattaforma Starteed – perché l’italiano medio è un generoso donatore, ma quando si parla di pagare a frenarlo c’è una radicata e profonda diffidenza verso la rete. Basti pensare che durante le campagne di maggior successo, siamo regolarmente bombardati da email che chiedono istruzioni per fare un bonifico». Tradotto: il digital divide è ancora saldamente radicato nel nostro Paese e la strada da percorre per sconfiggerlo è ancora lunga.
Passando sul versante imprenditoriale, la mancanza di cultura digitale si manifesta invece attraverso l’incapacità delle aziende di raccontarsi e raccontare il proprio progetto. Di condividere idee, prospettive e risorse per creare insieme un ecosistema dove il talento possa prosperare, così come suggerisce ad esempio Greg Horowitt, venture capitalist e docente dell’Università di San Diego, nel suo libro dal titolo «The Rainforest – The secret to building the next Silicon Valley». Qui da noi, infatti, prevale ancora un approccio “novecentesco” alla gestione delle informazioni, sostanzialmente teso a proteggerle nel timore che qualcuno possa carpirle e sfruttarle a proprio vantaggio. Peccato però che mai come ora, e specialmente mai come con il crowdfunding, tale atteggiamento sia risultato tanto controproducente. E questo perché per mobilitare la folla (crowd) al fine di ottenere il suo sostegno economico (funding), serve una narrazione efficace, esaustiva, in grado di diffondere il valore alla base della propria iniziativa e mobilitare l’interesse degli stakeholder. «Purtroppo sono molti i progetti validi che pagano caro il fatto di essere mal strutturati dal punto di vista della presentazione – conferma ancora Claudio Bedino – ciò che manca, di solito, è la capacità di costruire una campagna emozionale davvero convincente».
A onor del vero, va detto che per costruire un racconto davvero engaging servono sia le competenze sia gli strumenti, e che tali strumenti dovrebbero essere incorporati direttamente nei siti di crowdfunding. E su questo, siamo ancora indietro: «Ciò che manca oggi alle piattaforme è la capacità di strutturarsi come luoghi di racconto e di intrattenimento – spiega infatti Angelo Rindone, fondatore di Produzioni dal Basso – perché il crowdfunding è anche questo: un piccolo show dove bisogna sapersi mettere in mostra per espandere, coinvolgere e motivare la community dei propri sostenitori. Noi ci stiamo già adoperando per far evolvere la nostra piattaforma in questo senso».
Rindone prende ad esempio il processo di realizzazione di un film o di un documentario: «Chi chiede sostegno economico alla folla, dovrebbe avere a disposizione strumenti multimediali per raccontare quasi in tempo reale cosa sta facendo, dal concepimento del progetto al raggiungimento di ogni singolo obiettivo. Dovrebbe insomma poter “trasmettere” ai suoi sostenitori un “dietro le quinte in diretta” che li renda partecipi di ogni aspetto, appagandone la curiosità e, in parte, ripagandone il sostegno».
Cosi facendo, si otterrebbe qualcosa in più del solo denaro: si rafforzerebbe la community al punto da creare spazio anche per iniziative di crowdsourcing, dove ad esempio fare appello ai propri sostenitori per risolvere problemi incontrati in corso d’opera. Meglio ancora, si creerebbe un contesto dinamico e di confronto dove coinvolgerli direttamente nel processo creativo. Sulla carta, tutto questo sarebbe già possibile. All’atto pratico, sui siti di crowdfunding mancano gli strumenti necessari a implementare e gestire queste buone pratiche, perché «le piattaforme attuali – puntualizza Angelo Rindone – sono ancora troppo focalizzate sulla semplice raccolta fondi».
Insomma serve fare passi in avanti, evolvere le piattaforme dotandole di strumenti che consentano anche la collaborazione e la condivisione di idee, oltre che una narrazione puntuale e articolata del proprio operato. Narrazione che in Italia assume oggi ancora più importanza con l’avvento dell’equity-based crowdfunding, modalità di raccolta fondi dove i finanziatori vengono premiati non con doni (come avviene per altre forme di crowdfunding) ma con azioni dell’azienda finanziata. Il nostro è stato il primo paese al mondo a dotarsi di una regolamentazione specifica per questa forma di finanziamento partecipato, dove si pongono dei limiti precisi che la rendono accessibile alle sole startup “innovative”. In vigore da fine luglio, il regolamento, figlio del “Decreto del Fare Bis” e targato Consob, rende questa forma di crowdfunding terreno ideale per professionisti dell’investimento. Tra questi «spicca la figura dell’angel investor, che per il 90% decide “di pancia”, e non leggendo in business plan – spiega ancora Claudio Bedino di Starteed – Ecco perché ora lo storytelling emozionale assume importanza ancora maggiore: perché una previsione finanziaria (spesso per sua natura poco attendibile) non smuove troppo chi lavora con capitali ad altissimo rischio. La partita si gioca invece intorno al contenuto di qualità, al racconto che coinvolge e convince», e che a oggi in Italia sono davvero in pochi a saper fare.
Vale la pena imparare, e vale la pena farlo in fretta, perché il crowdfunding non è una moda passeggera ed è qui per restare: se infatti nel 2012 il mercato mondiale del finanziamento partecipato valeva 2,5 miliardi di dollari, le previsioni per il 2013 parlano di una crescita superiore al 90 per cento, per arrivare a sfiorare i 5 miliardi entro fine anno (fonte: Massolution).