“Il problema con quel modello è che non è più sostenibile”. Con queste parole, Shawn Layden, ex CEO di Sony Playstation America, criticava il mondo dei videogiochi ad alto budget (i cosiddetti “AAA Games”).
Le motivazioni addotte si basavano su una semplice riflessione sui numeri mossi da quel mercato: di generazione in generazione i costi di produzione per un titolo tripla A sono aumentati esponenzialmente, arrivando ad una media che si aggira tra gli 80 e i 120 milioni di dollari. Cifre che facilmente schizzano anche a 300/400 milioni quando si tratta di blockbusters come la celeberrima serie di Grand Theft Auto.
Se da un lato Layden ha puntato la propria attenzione a come questo costante incremento del budget finirà col condurre ad un mercato videoludico sempre più stagnante e fossilizzato sulle stesse 3-4 tipologie di giochi in grado di assicurare un ritorno economico ottimale, è anche vero che, ancora prima dei consumatori, sono i lavoratori del settore a subirne le conseguenze: è la cosiddetta crunch culture.
Cos’è la crunch culture
Per crunch culture si intende una forma mentis che ha accompagnato l’industria videoludica per anni – se non addirittura dalla sua nascita – fatta di orari di lavoro proibitivi prolungati talvolta per qualche settimana, in certi casi per mesi e, nella peggiore delle ipotesi, per interi anni, il tutto finalizzato a raggiungere obiettivi di produzione sempre più massicci e con tempi di consegna ridotti ai minimi termini.
Le cause che possono condurre ad una tale mole di lavoro straordinario sono molteplici e vanno analizzate caso per caso, ma ciò che più spaventa quando si riflette sul crunch è come a questa dinamica si associ una mentalità secondo cui dedicare la quasi totalità della propria vita allo sviluppo di un singolo gioco sia onorevole, un vero e proprio “sacrificio per l’arte”.
Nel 2020 fece scalpore la dichiarazione di Neil Druckmann, vicepresidente di Naughty Dog (The Last of Us, Uncharted), che asserì “Attiriamo persone che vogliono raccontare queste storie. Per farlo, lavorano duramente.[…] non penso che potremo impedire loro di lavorare molto”; una dichiarazione che lasciava intendere come sia una scelta personale di ciascun developer quella di lavorare più ore del dovuto, ignorando però completamente come spesso sia l’ambiente di lavoro stesso a forzare indirettamente il dipendente.
Un esempio lampante di ciò lo è stato lo sviluppo di Red Dead Redemption 2, prodotto da Rockstar, dove più dipendenti hanno confermato come fosse tacitamente consigliato di dedicare ore di straordinario, magari con metodologie subdole, come usare frasi del tipo “è opzionale, ma faresti un disservizio ai tuoi colleghi se non aiutassi”.
Una pratica, questa, molto diffusa nelle grandi software house, dove ad un core team di dimensioni (relativamente) ridotte si affiancano moltissime figure professionali temporanee, spesso però composte da giovani sviluppatori ed artisti che sarebbero disposti a qualsiasi cosa pur di diventare membri fissi di una azienda imponente come Rockstar.
Le vite al limite dei lavoratori dell’industria del gaming
Situazioni al limite, tra gente che non tornava a casa per settimane, dormendo sotto alla propria scrivania, o altri che erano costretti ad abbandonare il proprio posto per cercare aiuto psichiatrico.
Ma come si inquadra questa panoramica della crunch culture in seno alle parole di Shawn Layden con cui abbiamo aperto l’articolo? La ragione è che il settore videoludico si trova sostanzialmente ad un bivio sul piano economico ma anche, e soprattutto, quello culturale.
Il costo di produzione dei videogiochi si muove pari passo con lo sviluppo di nuove tecnologie all’avanguardia, e i big dell’industria continuano sempre più a spingere per esperienze ludiche mastodontiche in termini di longevità che di resa grafica, figlia di ore ed ore di lavoro speso su animazioni e modelli 3d. Quando a fronte di ciò si pongono traguardi economici che impongono di rispettare certe deadline per il rilascio di un prodotto di questo tipo, le 24 ore che compongono una giornata si fanno via via sempre più insufficienti per portare a termine il workload assegnato; con questa mentalità e questi obiettivi, giocoforza, gli sviluppatori saranno ancor più destinati a spingersi psicofisicamente per mantenere gli standard di qualità imposti, finché anche questo diverrà insufficiente.
La crunch culture e il rischio di giochi tutti uguali
A questo punto si rischierebbe fondamentalmente di assistere a un ingigantimento di un fenomeno che l’industria sta già vivendo da parecchi anni, ovvero quello dei giochi – si perdoni la terminologia – “copia & incolla“: sequele di titoli dove una larga porzione del codice e degli asset (modelli 3d, textures ecc) vengono riutilizzati. Una pratica che da sempre è figlia non solo della programmazione dei videogiochi, ma dell’informatica in generale, ma che, quando usata estensivamente, conduce alla creazione di prodotti eccessivamente simili: per un mondo come quello dei videogiochi, questo significherebbe assistere alla creazione di realtà virtuali, storie e personaggi via via sempre più simili tra loro, a discapito non solo dell’effetto novità insito nel rilascio di un nuovo gioco, ma anche del suo valore culturale.
L’utilizzo di una pratica simile, se portata alla sua esasperazione, potrebbe forse permettere agli sviluppatori di avere nuovamente degli orari di lavoro accettabili, ma al costo di perseguire un modello basato sulla più becera mercificazione di quello che dovrebbe essere un prodotto (anche?) artistico.
I paradossi dell’attuale modello
L’altra opzione, invece, sarebbe quella di ridimensionare queste esperienze videoludiche: se da un lato è vero che “tutti vogliono giocare gli open world più grandi il possibile”, è anche vero che, dati alla mano, risulta che una esigua percentuale dei videogiocatori arriva anche solo ai titoli di coda.
La situazione paradossale a cui si assiste è quindi quella in cui gli sviluppatori arrivino ad andare in terapia per lavorare ad un titolo dalle dimensioni gigantesche, salvo poi vedere che i consumatori nemmeno sono realmente interessati a completarlo.
Detto ciò, va subito detto che queste problematiche non interessano solo videogiochi a mondo aperto con una longevità che va oltre il centinaio di ore: l’esempio apportato in precedenza parlando di Naughty Dog descriveva una realtà nata all’interno di uno studio che lavora su giochi single player che non superano le 25/30 ore di gioco.
Se anche videogiochi di questo tipo sono soggetti allo stesso fato, rimane allora davvero un barlume di speranza per lo sviluppatore di turno?
Benessere dei lavoratori: il caso virtuoso di Supergiant
La verità è che già esistono case di sviluppo che danno la giusta importanza al benessere dei propri dipendenti, solo che magari non portano con sé nomi altisonanti come quelli di Ubisoft, EA o Activision; un esempio lo è stato lo studio Supergiant, i cui sviluppatori hanno descritto un work environment dove vengono proibite le mail di lavoro nel weekend, i team si assicurano di avere un carico di lavoro adeguato e tutti i dipendenti consumano le proprie giornate di ferie; ciononostante sono comunque riusciti a dare vita a prodotti che si fregiano del plauso di critica e pubblico, come la loro più recente produzione, Hades, che è riuscita ad ottenere diversi premi come gioco dell’anno.
C’è da dire che anche tra i big dell’industria le cose stanno finalmente cambiando: nel 2020 è stato lanciato il Code-Cwa, un progetto lanciato per promuovere la unionization nel mondo dei videogiochi e del tech in generale , mentre in maggio Raven Software, software house sotto l’egida di Activision Blizzard, è riuscita ad ottenere i voti per giungere alla creazione di un sindacato.
Un traguardo ancora più importante quando si pensa alle accuse mosse negli scorsi mesi alla stessa Activision Blizzard quale compagnia che da anni ha promosso – o ignorato – comportamenti non consoni se non propriamente criminali nei propri uffici, tra cui discriminazione razziale e abusi sessuali.
Conclusioni
La situazione attuale è ancora quindi in bilico tra un futuro in cui gli sviluppatori saranno sempre più sfruttati, ed un altro in cui possibili soluzioni e punti di incontro tra developer e upper management potranno esser messi sul tavolo per essere discussi.
A prescindere da come debba andare, è bene quantomeno che le nuove leve del game development facciano bene attenzione a non confondere il perseguimento di un sogno con l’essere portati (letteralmente) all’esaurimento nervoso, e cercare semmai studios in cui possano lavorare venendo trattati col giusto rispetto.