Lo sviluppo dell’innovazione tecnologica e la sua diffusione nella società sono intimamente legati all’etica e alla cultura del lavoro diffuse nella società. Rispetto al secolo scorso, che ha visto l’etica protestante prevalere fino a tutti gli anni ’60-’70, per essere poi superata dall’etica hacker (come indicato da Pekka Himanem in un suo celebre libro “L’etica hacker e lo spirito dell’eta dell’informazione” del 2001), oggi viviamo in un mondo del lavoro che è molto pervaso dall’etica hacker ma che tuttavia ha subito un ulteriore cambiamento. Potremmo dire che ci troviamo di fronte ad una “cultura della finanza” che ha dei connotati specifici, i quali, tuttavia, non sembrano favorire l’innovazione tecnologica come ha fatto, invece, la cultura hacker.
Certo, ogni cultura convive con la precedente, tuttavia la prevalenza dell’una e dell’altra determina i connotati del progresso e della vita sociale in generale, le forme organizzative delle aziende e dei soggetti politici, le istituzioni della formazione.
Ripercorriamo allora di seguito i tratti salienti delle diverse culture che hanno permeato e plasmato la società e il mondo del lavoro, dai primi del ‘900 ai giorni nostri.
Primi del 900: l’etica protestante (il lavoro come sacrificio)
Se guardiamo lo sviluppo della rivoluzione industriale esso è associato, come ha ampiamente descritto il sociologo tedesco Weber ai primi del ‘900, all’etica protestante. Weber individua nell’etica protestante il motore che spinge l’accumulazione capitalistica e il suo sviluppo. In particolare, il calvinismo e il metodismo più che la tradizione luterana sono in grado di offrire un sistema di valori che meglio si sposano con il capitalismo.
Nell’etica protestante il denaro e la ricchezza non possono essere utilizzati per l’ozio o gli agi, per lo spreco, sono il segno della grazia del Signore e il lavoro deve essere condotto con metodicità, serietà e sacrificio perché in questo modo è richiesto da Dio. Perfino l’avarizia, condannata dal cattolicesimo, diventa un segno di buona amministrazione di un patrimonio che viene affidato per grazia divina. Un libro interessante quello di Weber che è difficile riassumere in poche righe e nel quale ritroviamo la concezione capitalista del lavoro, dello sviluppo capitalistico, degli investimenti e dell’accumulazione di capitale che hanno consentito in Europa e in America di portarsi in una posizione di leader.
L’etica del lavoro protestante è quasi un approccio ascetico al lavoro, questo approccio depurato dagli elementi più religiosi, è la base della nascita del capitalismo fino al fordismo. La capacità di fare un lavoro sempre uguale, farlo bene, arricchirsi ma non spendere il denaro per gli agi, dover lavorare sempre e comunque e non potendo lasciarsi andare a nessun ozio. Il lavoro è sacrificio e fatica ma svolgerlo al meglio è una ricompensa che ripaga tale sacrificio (anche in una prospettiva religiosa), nella speranza di poter vedere i risultati del lavoro nel capitale accumulato e ben impiegato.
Un altro elemento distintivo della cultura protestante è la predestinazione degli eletti, ovvero esistono degli “eletti” che sono predestinati dal Signore, non è l’opera umana che può cambiare le decisioni di Dio. Questo ha una ricaduta sull’individualismo: quello che ho è perché Dio mi ha eletto e se tu non hai significa che non meriti.
Questo approccio (opportunamente laicizzato) ha consentito alle generazioni precedenti alla nostra di creare e organizzare le grandi industrie, il sistema industriale e produttivo e l’innovazione tecnologica industriale che ha consentito il benessere sociale che ha visto come apice gli anni ’60.
L’innovazione tecnologica di quest’epoca è connotata all’industria militare e spaziale e alle sue ricadute anche se nel dopoguerra si sviluppa il consumismo con il suo portato di innovazione nei beni di consumo che in qualche modo rappresentano un’altra forma di accumulazione non di denari ma di consumo di beni.
L’impatto di questa cultura è forte nel modello gerarchico e nell’organizzazione metodica delle imprese e delle istituzioni, tutto deve essere ottimizzato e controllato al fine di migliorare al massimo l’uso delle risorse.
Anni 50-60: la cultura hacker (il lavoro come divertimento)
Gli anni ’50 e ’60 incrinano la solidità dell’etica protestante, il consumo di massa spinge verso una voglia di agiatezza diffusa. Cominciano le contestazioni al modo di produrre che sfociano, sul finire degli anni ’60, in un diffuso malcontento sociale.
È in questo contesto che Himanen fa nascere la cultura hacker, diffusa negli ambiti universitari e della ricerca e nell’area californiana. Per Himanen la cultura hacker nasce dal comunitarismo e da un atteggiamento fortemente libertario, anarchico per certi versi.
La cultura del lavoro hacker è, a differenza di quella protestante, legata al lavoro come divertimento. Il lavoro non è più visto come un dovere divino ma come una occupazione giocosa da fare insieme agli altri.
Per gli hacker il lavoro non è associato direttamente al guadagno, quest’ultimo è necessario per vivere e consentirgli di poter continuare a “giocare” lavorando a ciò che più li stimola. Ogni persona viene misurata sul merito, su quello che produce a beneficio della comunità e dunque il riconoscimento sociale all’interno del gruppo diventa una spinta determinante. Significa condividere conoscenza, apprendimento continuo, continua sfida con nuovi problemi da risolvere. I computer, per la cultura hacker, devono essere democratizzati, diffusi nella società, diventare strumento di liberazione sociale.
La cultura hacker ha pervaso i principali laboratori di sviluppo e ricerca (a cominciare dai famosissimi Bell Labs e Palo Alto), il mondo della ricerca e dell’università. Le grandi aziende di informatica degli anni ’70 hanno saputo incanalare queste potenzialità in imprese industriali come ad esempio HP. La conoscenza e le proprie abilità vengono messe in circolo nel gruppo di appartenenza per una missione sociale di progresso. La ricchezza che viene prodotta da questa attività serve per oziare e riposarsi ma questi due verbi vengono messi in pratica con nuove sfide di apprendimento e di costruzione di prodotti innovativi, sempre alla ricerca del limite da battere per sottomettere la tecnologia al progresso sociale.
Cultura hacker e sviluppo tecnologico
Senza la cultura hacker non avremmo la gran parte delle tecnologie informatiche di cui ora disponiamo, il web, Internet, l’Open Source e i principali sistemi operativi e linguaggi di programmazione, le interfacce utente dei moderni PC.
Spesso queste persone lavoravano in ambiti aziendali o istituzionali fortemente legati alla cultura protestante ma si organizzavano fuori in associazioni e gruppi, utilizzavano le risorse che avevano a disposizione senza permesso ai loro fini, sfruttavano la loro conoscenza per operare su problemi che li vedessero più motivati. La cultura hacker ha tra i principali motori la passione per il lavoro e l’idea che esso possa essere utili alla società.
Come ha fatto notare Mariana Mazzuccato nel suo celebre libro “Lo Stato Innovatore” molte delle innovazioni tecnologiche a cui siamo abituati vengono da quel mondo di laboratori di ricerca, università e ambienti militari nei quali si è anche sviluppata la cultura hacker.
La cultura hacker ha pervaso gran parte dello sviluppo dell’informatica e delle nuove tecnologie, anche nelle forme organizzative. La cultura hacker oggi è onnipresente nel mondo della tecnologia, pensiamo all’open source o ai modelli organizzativi sempre più “orizzontali” e sempre meno gerarchici come nel caso Agile. Internet, nato come tecnologia militare, è diventato il principale luogo di condivisione della conoscenza e comunitarismo dei prodotti software e della conoscenza in generale.
Come la cultura hacker ha cambiato il mondo del lavoro
Ormai anche le aziende più tradizionali hanno ben compreso il valore della conoscenza diffusa e hanno costruito modelli di business in grado di convivere se non utilizzare al meglio il mondo “open”.
Il mondo del lavoro ha smesso di essere marcato da orari e organizzazioni rigide per frammentarsi in piccole unità aziendali che lavorano a rete, che prestano attività di consulenza a gruppi più grandi ricomponendosi e scomponendosi a seconda dei progetti e delle esigenze. Le grandi aziende hanno modelli organizzativi “a matrice” o perfino a “tribù” che sarebbero impensabili nella grande industria fordista.
In questa cultura hacker il denaro serve per vivere, il lavoro per giocare con le proprie possibilità intellettive. L’accumulazione di denaro non serve ad accumulare altro denaro o ad alimentare la crescita aziendale, le aziende possono rimanere piccole, specializzate, in grado di farsi pagare sempre meglio senza dover diventare organizzazioni grande e diffuse sul territorio. Se ci pensiamo molte delle aziende grandi di informatica a partire dagli anni ’90 sono sparite, per produrre hardware e software si può essere anche piccoli e in rete.
La cultura hacker, in un certo senso, ha saputo hackerare il sistema industriale imponendo nuove regole, lo ha fatto perfino con la finanza. Tra la fine degli anni ’90 e metà degli anni ’00 abbiamo visto che parte dell’attenzione si è spostata dai “fondamentali” di borsa (i pilastri del fordismo) alle aspettative di crescita. Se guardiamo molte big digitali possiamo dire che molta della loro fortuna economica è dovuta alla crescita del titolo in borsa, le stock option hanno sempre più sostituito parte del salario, la remunerazione del lavoro in parte è legata ad attività concreta ma in parte alle aspettative di incremento di valore del titolo. E così accanto all’innovazione vera e propria abbiamo visto crescere i “boom” di borsa, le IPO esplosive, ecc. Google, Apple, Facebook hanno visto aumentare il loro valore di borsa anche con bilanci in perdita.
L’intero sistema produttivo ha preso la strada della rete e vi si deve confrontare, in questo senso la cultura hacker è riuscita a diventare prevalente.
Nuovo millennio: la cultura della finanziarizzazione
Dalla metà degli anni 2000 abbiamo assistito tuttavia alla nascita di un nuovo fenomeno che sta diventando prevalente. La finanziarizzazione dell’innovazione tecnologica, che possiamo rappresentare con la nascita del fenomeno delle startup.
Nelle startup non conta il prodotto che si sta per realizzare e come si realizza, non conta se ciò che si realizza è socialmente progressivo o “democratizzante” della tecnologia. Conta solo la “exit”, ovvero la quotazione in borsa o la vendita dell’azienda a qualcuno per recuperare più soldi possibile.
Alla cultura del prodotto o del lavoro, al sacrificio “protestante” o al “gioco” dell’hacker viene sostituito un modello che mira a proporre qualcosa in grado di attirare l’attenzione degli azionisti. Le big tech prima e poi anche moltissime piccole e microimprese lavorano a creare nuove aspettative di tecnologie che possano impressionare e attirare l’idea che chi vi investe possa diventare ricco con un ottimo affare.
La borsa perde la dimensione di luogo nel quale si possono trovare investitori disposti a finanziare progetti e assumersene una parte di rischio sulla base di criteri industriali di sostenibilità per diventare un enorme “carosello” di denaro che passa di mano in mano scambiando quote di società che sono interessanti solo in funzione del prezzo a cui posso venderle e comprarle.
L’enorme liquidità riversata sui mercati dopo il 2008 con il quantitative easing ha ampliato questo fenomeno a dismisura e oggi Uber può essere un gigante anche se ancora non ha prodotto un bilancio in utile e così altre aziende hi-tech. La stessa Facebook ha cominciato ad avere i primi utili molto dopo essere entrata in borsa anche se è stata una delle IPO tra le più ricche. Fondi di Venture Capital hanno enormi disponibilità economiche con le quali spesso entrano nelle aziende con gli stessi criteri con i quali un giocatore d’azzardo sceglie il cavallo vincente.
Questa cultura vede il lavoro non come il cardine trasformativo di qualcosa ma come l’ingrediente necessario per confezionare le aspettative, per alimentarle. A ben guardare dopo l’ipad e lo smartphone non abbiamo avuto grandi trasformazioni tecnologiche, l’Intelligenza Artificiale (la più innovativa frontiera della tecnologia) trova radici in diversi decenni di ricerca in laboratori e oggi è potuta esplodere per la capacità di calcolo eccezionale a disposizione.
Il lavoro per ostentare sfarzo e lusso
La cultura della finanziarizzazione vede premiare chi meglio sa comunicare l’idea, al network sociale che mira a mettere in contatto esperti e appassionati di tecnologia si sostituisce quello in grado di far incontrare finanziatori e “finanziabili”, al merito per la soluzione che porta più progresso sociale si sostituisce quella che è in grado di dare maggiore valore agli azionisti “mordi e fuggi”. Alla pianificazione e programmazione del prodotto conta il “carpe diem” della massimizzazione dei guadagni. All’imprenditore viene sostituito l’imprenditore seriale, ovvero colui che è in grado di aprire più aziende diverse facendo più exit possibile.
Se per l’etica protestante l’accumulo di ricchezza serve ad ingrandire il proprio business e per l’hacker serve a concentrarsi su ciò che gli piace veramente creare, per la cultura della finanza la ricchezza serve per poter mostrare lo sfarzo e il lusso, per poter continuare a entrare ed uscire nella finanza come uno scommettitore che gode a mostrare quanto è bravo a sfidare la fortuna.
Come convivono le diverse culture del lavoro
Il principale meccanismo di riconoscimento sociale per la cultura della finanza è il valore delle proprie azioni in borsa, per la cultura hacker l’utilità sociale del suo prodotto mentre per la cultura protestante l’efficienza, l’ottimizzazione e la perfezione nella sua realizzazione.
Ovviamente le diverse culture del lavoro convivono insieme, nessuna è completamente sparita ma nei diversi periodi l’una prevale sull’altra. Magari nella stessa azienda sono mischiate con qualche prevalenza.
Quale sviluppo per l’innovazione nella cultura della finanza
Ora la domanda che ci dovremmo cominciare a fare è se la cultura della finanza oggi prevalente sia in grado di garantire lo stesso sviluppo dell’informatica che ha garantito la cultura hacker o la stessa capacità industriale. In che misura essa sia foriera di progresso o non limiti l’emergere di nuove e più utili applicazioni delle tecnologie.
Io penso che la cultura hacker, pur senza mitizzazioni, sia meglio in grado di promuovere il progresso tecnologico. La conoscenza aumenta di valore con la sua messa in circolo, la passione e la motivazione verso il prodotto rimangono la principale spinta per fare ricerca e impegnarsi nel quotidiano.
Ritengo sia utile che il sistema formativo si ponga il problema di aiutare i giovani ad assimilare il meglio delle culture del lavoro, di aiutare i giovani a valorizzarne le prerogative a seconda del contesto e farle proprie potendo poi scegliere quella che meglio sentono propria o un mix di quella. Posto che conviveranno tutte e alte magari emergeranno.
Il nostro modello sociale ha bisogno del progresso inteso come spinta a migliorare la società, democratizzarla e renderla sempre più libera dal lavoro come fatica, per portarla verso il lavoro come creatività e creazione.
L’Intelligenza Artificiale ci spinge sempre più a redistribuire il lavoro, renderlo meno faticoso e più creativo, limitarne il tempo per promuoverne un uso perfino più “ludico”. Con questa provocazione spero di poter contribuire ad aprire una riflessione collettiva sull’etica del lavoro dei professionisti dell’innovazione.