Analfabetismo informatico

Cultura digitale, le migliori pratiche e gli errori da evitare

Il Regno Unito fa scuola. In Italia si muove qualcosa sul territorio, come il Governo resta assente su un tema cruciale per il nostro Paese. Siamo troppo presi dalla riforma della Pa per vedere il resto

Pubblicato il 26 Mar 2014

Alessandra Poggiani

Human Technopole. Ex DG di Agid

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E’ sbagliato limitare, come spesso accade, il dibattito sull’agenda digitale alla modernizzazione della pubblica amministrazione, o alle politiche pubbliche sul tema degli investimenti in banda larga o in infrastrutture di data centre, sottovalutando l’aspetto culturale e delle competenze digitali, che invece – in un paese dove ancora una persona su tre non ha mai acceduto a Internet e dove aziende troppo piccole e spesso ancora familiari rimangono ancorate a modelli produttivi e organizzativi obsoleti – è cruciale.

Il nodo dell’alfabetizzazione digitale – ovvero della capacità degli italiani di utilizzare e di lavorare con la Rete – è una questione che va assolutamente affrontata e risolta e che rappresenta un passaggio essenziale per la crescita e la creazione di posti di lavoro. E’ un tema, per esempio, che dovrebbe essere al centro del Job Act del nuovo governo se, come va ripetendo da mesi la Commissaria Europea per l’Agenda Digitale Neelie Kroes, viviamo in un contesto economico in cui “il 90% dei lavori richiede competenze digitali”.

Il settore pubblico deve, da una parte, intervenire promuovendo uno sviluppo infrastrutturale che attragga e faciliti investimenti in innovazione e, dall’altra, attuare politiche di alfabetizzazione e sviluppo di competenze digitali, a partire dalla scuola e dalla formazione continua, che incentivino la domanda di servizi digitali e la capacità dei lavoratori di soddisfare le esigenze delle imprese in termini di nuove professionalità.

L’agenda digitale italiana non può e non deve rimanere focalizzata sull’ammodernamento dei processi e dei sistemi della pubblica amministrazione. Deve – necessariamente – occuparsi dei “cittadini” e di economia, lavorando sul digitale per quello che è: un’occasione straordinaria di sviluppo economico e di nuova (e buona) occupazione.

Secondo i dati della Commissione Europea, più di un lavoratore italiano su 3 pensa di non avare sufficienti competenze ICT per poter cambiare lavoro e il 25% delle aziende italiane che ha cercato di reclutare lavoratori con competenze digitali afferma di aver avuto molte difficoltà nel reperire profili adatti.

I dati sulla scarsa cultura digitale dell’Italia significano, nel concreto, che gran parte della popolazione è di fatto esclusa dal mondo del lavoro “buono”, quello di qualità, meno esposto alla competizione al ribasso con i paesi emergenti. Secondo i dati dell’istituto di ricerca Empirica, che ha realizzato uno studio per Commissione europea a fine 2013, in Italia sono circa 110mila le richieste per il reclutamento di profili ICT e digitali che mancano sul mercato del lavoro.

La mancanza di competenze, inoltre, e forse soprattutto, fa sì che chi perde il lavoro a una certa età non riesce a trovarne uno nuovo.

Nel macro-quadro significa che il sistema paese non ha competenze sufficienti a cogliere la sfida della nuova economia basata sull’innovazione tecnologia e l’utilizzo della rete. Significa essere sempre meno competitivi nel contesto globale, come imprese e come “capitale umano”.

Le buone pratiche di alfabetizzazione digitale

Una buona pratica viene dalla Gran Bretagna che nel 2011 ha lanciato una associazione ad hoc, Go On UK, fondata dalla allora Digital Champion UK, Martha Lane Fox e co-finanziata da alcune dei più importanti soggetti del paese: BBC, Royal Mail, Lloyds, E-on, TalkTalk, Big Lottery Fund, EE, Age UK. Go On UK è un progetto di sistema no-profit che ha l’obiettivo di migliorare le competenze digitali di tutti gli abitanti del Regno Unito, cittadini e imprese.

In questi due anni di funzionamento Go On Uk, con l’esplicito obiettivo di fare della Gran Bretagna il paese più digitale del mondo, si è concentrata su programmi di alfabetizzazione e formazione capillari sul territorio, ma anche su mezzi di comunicazione di massa come la TV e soprattutto nelle scuole.

Il lavoro di Go On UK ha come target sia i cittadini, sia gli artigiani e le piccole imprese, ed si concentra maggiormente nelle aree del paese con un divario maggiore, come in Nord dell’Inghilterra o le aree più rurali. Fra i molti strumenti attivati, anche una piattaforma aperta di scambio di competenze Digitalskills.com dove tutti, ma proprio tutti, possono contribuire a insegnare, condividere e diffondere competenze digitali per coloro che sono rimasti indietro.

In attesa di capire quali siano le strategie del nuovo governo, a partire dal Jobs Act per finire alla nuova governance dell’Agenda Digitale, anche in Italia qualcosa si muove dal basso. Il progetto, Go On Italia dell’associazione Wikitalia si ispira a Go On UK.

In Italia, il progetto sostenuto da Vodafone, Fastweb, Microsoft, Cisco, HP, Poste Italiane e Generali, sta partendo dalla Regione Friuli Venezia Giulia focalizzandosi su percorsi di trasferimento generazionale, in cui i più giovani possano aiutare i più anziani a entrare nel mondo di Internet e in cui i nativi digitali e i tecnologi possano aiutare le piccole imprese a modernizzarsi e rimanere al passo con il contesto competitivo globale.

Grandi aziende, società civile e cittadini (soprattutto giovani) sui territori stanno iniziando a darsi da fare. Fra mille difficoltà.

L’imperativo per il 2014, è che anche il governo nazionale, le grandi associazioni di categoria si rendano conto che la sfida principale è partire dalle persone.

Che l’Italia sia in forte ritardo sull’agenda digitale è un dato acclarato e purtroppo costantemente immodificato. Nonostante gli annunci, le cabine di regia e l’oggettiva maggiore attenzione posta sul tema da parte dei governi Monti e Letta (rispetto ai predecessori), i risultati effettivi sugli indicatori sono finora piuttosto deboli.

Allo stesso tempo, la crisi economica e finanziaria degli ultimi anni ha determinato in Italia una totale concentrazione dell’intero dibattito pubblico sulle politiche di bilancio e una sostanziale paralisi delle politiche di sviluppo e di conseguenza anche d’investimenti significativi e di sistema sull’economia digitale. Eppure, nei paesi che sfruttano intensamente il potenziale delle infrastrutture e dei sistemi di rete, lo sviluppo dell’economia digitale sta già producendo benefici notevoli in termini di contribuzione diretta al PIL nazionale. In Svezia e nel Regno Unito, per esempio, già nel 2012 il contributo diretto al PIL di Internet è stato superiore al 5%, senza contare i notevoli benefici aggiuntivi in termini di creazione netta di posti di lavoro o di sviluppo delle piccole e medie imprese e delle loro esportazioni.

Quella che viene chiamata la terza rivoluzione industriale è ormai a un momento di svolta. Se fino ad ora l’innovazione tecnologica e i cambiamenti da questa determinati sui processi produttivi hanno causato una riduzione della forza lavoro per via delle ristrutturazioni necessarie sia a livello di processo sia a livello organizzativo, oggi quelle stesse innovazioni rappresentano il fattore abilitante per sviluppare nuovi modelli d’impresa e creare nuova occupazione, soprattutto sui profili più qualificati (e quindi a maggiore valore aggiunto). Cioè, il tipo di occupazione di cui l’Europa – e l’Italia prima di tutto – ha bisogno.

L’economia digitale è la direttrice su cui può costruirsi un nuovo modello di sviluppo economico, ma in Italia l’arretratezza prima di tutto culturale (anche e soprattutto delle imprese) unita a quella infrastrutturale non ci permette di percorrere in maniera sistemica questa strada.

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