selezione del personale

Cybervetting: quanto incide la presenza online nelle decisioni dei recruiter



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Esaminare la presenza online dei candidati è prassi diffusa nella selezione del personale. Chiamata cybervetting (o online vetting), questa pratica, sebbene utile ed efficace, può portare a distorsioni più o meno consapevoli nel processo decisionale

Pubblicato il 27 nov 2023

Chiara Cilardo

Psicologa psicoterapeuta, esperta in psicologia digitale



Human,Resources,Management,And,Recruitment,Business,Process,Concept,With,Hr

I social media professionali (professional social media platform, PSMP) come LinkedIn, CareerBuilder, Indeed e Monster.com, fungono da intermediari tra candidati e selezionatori.

Per chi cerca lavoro equivalgono ad un curriculum vero e proprio, sono il profilo con cui ci si presenta in termini di qualifiche, competenze ed esperienze lavorative, aiutano a capire quali sono le competenze più richieste e a filtrare gli annunci di lavoro in base alle proprie preferenze e aspirazioni.

Per chi è alla ricerca di nuovi talenti rappresentano uno strumento che snellisce e automatizza una parte del processo di selezione: riduzione di tempi e costi, accesso ad un ampio numero di profili, rapidità nell’inquadrare il potenziale candidato (si può facilmente capire il posizionamento nelle gerarchie e la progressione delle traiettorie di carriera) (Hosain, 2023; Ruparel et al. 2023).

Anche altri social, come Facebook, Instagram e X (in precedenza Twitter), vengono analizzati dai recruiter in maniera più o meno trasparente. Sebbene sia comprensibile capire il perché (avere una visione della persona più ampia e completa), ispezionare i profili social dei candidati può indurre distorsioni nel processo di selezione (Melão e Reis, 2021).

Il cybervetting sui social network: pro e contro

Il termine cybervetting (o online vetting) indica, nell’ambito della selezione del personale, l’utilizzo delle informazioni disponibili online del candidato. Quello che viene analizzato può includere: profili social, motori di ricerca, referenze, conversazioni, tutto quello che è la presenza online. Questa pratica, in parte controversa, può influire in modo significativo sul processo decisionale dei selezionatori.

In particolare nei PSMP gli elementi ritenuti più determinanti, oltre chiaramente a formazione ed esperienze, sono immagine profilo, rete di collegamenti, interessi, partecipazione attiva alle conversazioni. Questi sono indizi, spunti che vengono utilizzati per fare delle inferenze sulla persona, per esempio su come si approccia al lavoro e al mondo aziendale (Ruparel et al. 2023).

Il cybervetting può essere efficace e vantaggioso per tutte le parti: aiuta a farsi conoscere e facilita il recruiter nel porre domande mirate e instaurare una relazione durante i colloqui.

L’altro lato della medaglia, però, è che le informazioni raccolte potrebbero essere parziali, inesatte, false o fuorvianti. Per esempio, un profilo potrebbe non essere aggiornato o presentare contenuti che, in maniera intenzionale o meno, non rispecchiano realmente le caratteristiche salienti della persona in relazione a quello specifico ruolo; ciò potrebbe portare a deduzioni errate e inficiare il processo di selezione. Senza contare che non è detto che il candidato sia favorevole a mostrare aspetti di sé che ritiene privati: i social network comprendono molti dettagli personali non legati al lavoro (Hosain, 2023).

Arrivare a contenuti personali aumenta la probabilità di cadere nella trappola delle distorsioni cognitive, o meglio, bias cognitivi.

I principali bias cognitivi nella selezione del personale

I bias cognitivi sono automatismi del pensiero che servono a ridurre il carico cognitivo generando rapidamente credenze ma che, proprio perché quasi sempre inconsapevoli, portano a formare errori di giudizioni che hanno un impatto su opinioni, decisioni, comportamenti (Kahnemam e Tversky, 1972).

L’aspetto curioso è che le persone tendono ad esserne invece molto più consapevoli quando si tratta di osservarli negli altri: il bias blind spot è la propensione a credere di essere meno prevenuti, al considerarsi liberi da pregiudizi rispetto agli altri.

La selezione del personale è processo decisionale che dovrebbe basarsi su un’analisi attenta e ponderata: invece, anche i recruiter cadono in queste trappole del pensiero (Thomas e Reimann, 2023). Per esempio, vengono ricordati i primi e gli ultimi elementi di una lista (primary e recency effect): così, quando si fa una serie di colloqui, si tende a ricordare di più il primo e l’ultimo; analogamente, le prime e le ultime domande fatte vengono ricordate più facilmente. Durante un colloquio si tende a prestare attenzione alle informazioni coerenti con la propria idea iniziale: nel bias di conferma, ci si ancora alla prima impressione e poi si va cercare informazioni che la confermino; le prove contrarie vengono ignorate o minimizzate. Ancora, nell’effetto alone si estende una caratteristica ad altre: per esempio, le persone ritenute fisicamente attraenti sono spesso percepite come più piacevoli e competenti. Il bias dello status quo, invece, si traduce nel fare scelte in linea con altre scelte prese in passato, per esempio preferendo un candidato simile ad altri assunti in precedenza.

Thomas e Reimann (2023) identificano anche in-group bias, ovvero la tendenza a giudicare più positivamente persone che si ritiene siano simili al proprio gruppo di appartenenza per una o più caratteristiche come genere, classe sociale o interessi in comune, per esempio avere gli stessi hobby, tifare per la stessa squadra, avere lo stesso background formativo.

Quali sono le caratteristiche dei social che influenzano i recruiter

Garcia et al., (2023) hanno analizzato le valutazioni di 44 selezionatori prima e dopo aver visto il profilo LinkedIn di 400 candidati. Nella prima fase, sono state analizzate le valutazioni a seguito di colloquio online; successivamente, le valutazioni sono state integrate con i feedback ricevuti dopo aver visto il profilo LinkedIn dei candidati. Questo elemento, la visualizzazione del profilo LinkedIn, può modificare le decisioni dei selezionatori: se il profilo è completo e ben scritto, presenta informazioni coerenti e pertinenti rispetto al ruolo, se è aggiornato e dettagliato, rafforza una valutazione complessiva positiva e può cambiare le decisioni dei manager; come viceversa, un profilo scarno e non aggiornato mette in luca negativa anche quanto emerso durante il colloquio.

La presenza online è ritenuta un ottimo indicatore per conoscere meglio il candidato, per valutare la sua idoneità per la posizione e identificare eventuali atteggiamenti non appropriati. Quanto le informazioni personali sono rilevanti rispetto a quelle professionali? Tanto e tante: istruzione ed esperienza lavorativa; commenti, foto, immagini e video, commenti pubblicati da altri, premi e riconoscimenti professionali, numero di contatti, hobby e interessi personali. I recruiter ritengono centrali tutti questi elementi perché, messi insieme, arricchiscono la conoscenza e l’idea che ci si fa del candidato; sebbene consapevoli delle questioni relative alla privacy e all’etica, sembrano non dare molto peso alla questione dato che si tratta nei fatti di informazioni accessibili a tutti (Melão e Reis, 2021).

Il cybervetting, in particolare se riferito all’analisi della presenza online sui social network, può essere uno strumento di selezione, soprattutto nelle fasi iniziali di scrematura, quando i recruiter devono fare la prima cernita tra molti profili. Il rischio però è che questa pratica significhi inserire nel processo decisionale la raccolta di informazioni personali (e in alcuni casi anche sensibili, come l’orientamento sessuale) non pertinenti col lavoro richiesto ma che, inconsapevolmente, possono influenzare le scelte.

Conclusioni

Dare eccessiva rilevanza di informazioni non legate alla sfera lavorativa espone a potenziali rischi in termini di rispetto della privacy e bias cognitivi. Sono necessarie formazione e definizione di regole adeguate per tutti i soggetti coinvolti nel processo di selezione, in modo che sia chiaro quali informazioni sia consentito raccogliere e analizzare e quali possono essere i bias cognitivi in cui possono incorrere.

Bibliografia

Garcia, R. F., Huang, Y. K., & Kwok, L. (2023). Virtual interviews vs. LinkedIn profiles: Effects on human resource managers’ initial hiring decisions. Tourism Management, 94, 104659.

Hosain, M. S. (2023). Integration of social media into HRM practices: a bibliometric overview. PSU Research Review, 7(1), 51-72.

Kahneman, D., & Tversky, A. (1972). Subjective probability: A judgment of representativeness. Cognitive psychology, 3(3), 430-454.

Melão, N., & Reis, J. (2021). Social networks in personnel selection: profile features analyzed and issues faced by hiring professionals. Procedia Computer Science, 181, 42-50.

Ruparel, N., Bhardwaj, S., Seth, H., & Choubisa, R. (2023). Systematic literature review of professional social media platforms: Development of a behavior adoption career development framework. Journal of Business Research, 156, 113482.

Thomas, O., & Reimann, O. (2023). The bias blind spot among HR employees in hiring decisions. German Journal of Human Resource Management, 37(1), 5-22.

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