Cos’è il lavoro e perché dobbiamo lavorare? È una maledizione biblica? È il lavoro-Beruf (cioè vocazione dell’uomo) per l’etica protestante diventata spirito del capitalismo secondo Max Weber[1]? È subordinazione all’impresa o creatività e immaginazione al potere? È assoggettamento a un padrone o espressione libera dell’identità individuale? E soprattutto: cosa dobbiamo intendere con organizzazione (magari scientifica) del lavoro? E da ultimo: davvero l’innovazione tecnologica/digitalizzazione/IA ci ruberà posti di lavoro?
Un libro della Fondazione Feltrinelli di Milano – “Perché lavoro?” – ci aiuta, e molto, ad approfondire l’argomento. Il sottotitolo è ancora più preciso nel definire l’oggetto della riflessione proposta: “Narrative e diritti per lavoratrici e lavoratori del XXI secolo”[2]. Un volume utilissimo per tutti coloro che si occupano a vario titolo di digitale e dintorni.
Perché il lavoro e perché il lavoro industriale
Dunque, perché lavoro, e perché lavoriamo? E soprattutto: perché il lavoro industriale – e quindi la divisione industriale del lavoro – e perché non provare a immaginare altri modi di lavorare? Sentiamo già le obiezioni: ma il digitale è diverso, siamo nell’economia della conoscenza, l’Industria 4.0 è il nuovo che avanza anche nell’organizzazione del lavoro, l’uberizzazione è innovazione tecnica e come tutte le innovazioni tecniche non si può e non si deve fermare, altrimenti si diventa luddisti, irrazionali e anti-moderni; e poi nelle imprese oggi c’è il manager della felicità, tutto si gioca sulla valorizzazione (ma solo capitalistica) del cosiddetto capitale umano, i lavoratori sono chiamati collaboratori; e poi l’empowerment e l’engagement richiesti al lavoratore per fargli credere che tutto sia cambiato, ovviamente in meglio.
In realtà – se mettiamo da parte questa ormai insopportabile propaganda industrialista sempre smentita dai fatti ma sempre reiterata – anche l’Industria 4.0 è lavoro industriale (meglio: è il vecchio taylorismo, ma appunto digitalizzato), anche il capitalismo delle piattaforme è organizzazione industriale del lavoro (la piattaforma è la nuova forma della fabbrica), lavoro industrializzato è quello che eseguiamo facendoci profilare da imprese private impropriamente chiamate social (e peggio: è un lavoro gratuito di moltissimi per il profitto di pochi).
Dalla fabbrica di spilli di Adam Smith all’Industria 4.0/piattaforme/digitale/IA – è sempre lavoro industriale, basato sul doppio movimento di: prima suddividere, individualizzare, frazionare, semplificare e standardizzare il lavoro, per poi meglio integrare/connettere/sincronizzare le parti in cui il lavoro è stato precedentemente suddiviso; e allo stesso tempo – e soprattutto – accelerare sempre più i tempi-ciclo di lavoro, intensificarne i ritmi, accrescere il pluslavoro dei più per accrescere (di nuovo) il plusvalore/profitto di pochi.
Scriveva Adam Smith, spiegando la divisione industriale del lavoro di produzione degli spilli: “Un uomo svolge il filo metallico, un altro lo drizza, un terzo lo taglia, un quarto lo appuntisce… (…). La fabbricazione di uno spillo è così divisa in circa diciotto distinte operazioni (…). La divisione del lavoro, nella misura in cui può essere introdotta, determina in ogni arte un aumento proporzionale della capacità produttiva del lavoro”. E individuava, nel suo saggio più famoso – “Ricerche sopra la natura e le cause della ricchezza delle nazioni” (1776) – due fattori necessari per accrescere appunto la ricchezza di una nazione: la percentuale di lavoratori produttivi (di beni materiali) esistenti nel sistema economico, sul totale dei lavoratori del paese; e la loro produttività. Produttività che aumenta all’aumentare della divisione del lavoro. Da allora ad oggi nulla è cambiato, sempre di divisione e poi di integrazione del lavoro e dei lavoratori si tratta.
La legge ferrea del capitalismo è infatti e sempre la divisione/integrazione del lavoro, dalla prima alla quarta rivoluzione industriale[3]; oggi è cambiato il modo con cui si può organizzarla, perché ieri era necessario avere fabbriche fisiche capaci di contenere macchine e lavoratori, mentre oggi le fabbriche si possono anche smaterializzare (le piattaforme) e il lavoro e i lavoratori possono essere ulteriormente esternalizzati e individualizzati – ma ancora più integrati nell’organizzazione – secondo una evoluzione (o involuzione) sistemica che passa dal “piccolo è bello” riferito al lavoro just in time e di subfornitura degli anni ’80, al lavoratore singolo-imprenditore di se stesso/lavoratore finto-autonomo di oggi, organizzato e controllato da un algoritmo just in sequence.
Da diritto dell’uomo a merce low-cost
Tutto questo è stato reso possibile dall’innovazione tecnologica (dalle tecnologie di rete), che non ha liberato l’uomo dalla fatica del lavoro come promettevano economisti e pifferai magici – era la propaganda industrialista degli anni ’90: “stiamo entrando in una nuova era di crescita illimitata; lavoreremo meno e avremo più tempo libero; sarà lavoro immateriale e di conoscenza…” – semmai, per l’ennesima eterogenesi dei fini (strutturale/funzionale però al sistema industriale), ne ha accresciuto appunto lo sfruttamento facendoci tornare all’Ottocento (home-working come nuovo lavoro a domicilio, fabbrica diffusa via algoritmi, accrescimento del pluslavoro, allungamento della giornata lavorativa, l’uomo ancor più appendice delle macchine quanto più ne è ibridato e quanto più il comando gli arriva da un algoritmo).
Di più: quello che era un diritto dell’uomo – il lavoro, appunto – è tornato ad essere una merce[4], possibilmente low-cost. Di più, ancora, con un paradosso-non-paradosso: quanto più aumenta la produttività permessa dal lavoro (e dalle nuove tecnologie), meno si arricchiscono le nazioni e le persone (ovvero il capitalismo smentisce Adam Smith, uno dei suoi teorizzatori), mentre crescono le disuguaglianze e la precarietà di lavoro e di vita (facciamo ovviamente riferimento alla situazione pre-pandemia). Con l’ulteriore paradosso per cui oggi non si riesce a tassare i giganti del web, ridurre l’elusione fiscale e tassare la rendita finanziaria per sostenere politiche sociali e il funzionamento del welfare, ma si torna irresponsabilmente a chiedere alle persone – in un mondo iper-sovrappopolato e insieme precarizzato e in pesante crisi ecologica – di fare più figli (evidentemente, anche per il capitalismo, il numero – più produttori e consumatori e generatori di dati – è potenza).
Perché lavorare, dunque?
Ma veniamo al volume della Fondazione Feltrinelli[5]. Intanto: cos’è il lavoro? Molte cose insieme o separatamente, come ben ricorda Annalisa Dordoni nella sua Introduzione: è identità individuale e collettiva (un tempo definiva anche la coscienza di classe), è fonte di reddito per vivere, è realizzazione di sé. Ma il lavoro – il senso del lavoro, il senso che diamo al lavoro – cambia nel tempo, è “condizionato da trasformazioni culturali, sociali, giuridiche, oltre che economiche” ma soprattutto tecnologiche. Muta in particolare perché – aggiungiamo – il suo mutamento ci è imposto (a prescindere dalla nostra volontà e da una nostra decisione consapevole e democratica) dalle esigenze della rivoluzione industriale, come ricordava 80 anni fa un neoliberale come Walter Lippmann per il quale il neoliberalismo è l’unica filosofia che possa permettere di far adattare uomini e società alle prevalenti e preordinanti esigenze della rivoluzione industriale e appunto della divisione del lavoro; e poiché la rivoluzione industriale è incessante, incessante deve essere anche l’azione politica per far adattare l’uomo a queste esigenze.
Ma se il sistema industriale e la divisione del lavoro sono finalizzati alla massimizzazione del profitto producendo merci (e producendo consumatori e il desiderio di consumare) o denaro attraverso il denaro , alla fine anche l’uomo – e non solo il suo lavoro o il denaro – diventa una merce, portando così uno degli autori del volume, Alain Supiot, a sostenere che se non si affronta con decisione la questione della mercificazione e della de-umanizzazione del lavoro non faremo che aggravare i problemi sociali, ecologici ed istituzionali già oggi gravissimi. Scrive infatti: “La questione del lavoro e la questione ecologica sono inscindibili (…). La finzione giuridica del diritto di proprietà – che dalla rivoluzione industriale determina il rapporto dell’uomo con la Terra – è analoga alla finzione del lavoro merce. (…) Ebbene, tali finzioni sono sempre meno sostenibili. È molto più razionale vedere la Terra non come un qualcosa di cui ci si può appropriare, da usare liberamente e perfino abusarne, bensì come l’ambiente di vita da cui dipendiamo e senza la cui conservazione la specie umana è destinata a scomparire.
Allo stesso modo è molto più razionale vedere il lavoro non come una merce, ma come una delle caratteristiche dell’homo faber (…)”[6]. Ma l’uomo – nel sistema capitalistico e nelle teorie di organizzazione delle risorse umane (altro concetto economicistico e non umanistico) dove si privilegiano le competenze a fare rispetto alla conoscenza del perché fare così e non altrimenti – è oggi considerato come capitale umano: ma Supiot ci ricorda molto giustamente e molto opportunamente che tale nozione “che da un punto di vista giuridico non potrebbe essere altro che una voce all’attivo nei libri contabili dei proprietari di schiavi – è stata inventata per la prima volta da Stalin nel 1935, trent’anni prima di essere divulgata dal Premio Nobel per l’economia, Gary Becker”[7], ovvero comunismo e neoliberismo sono allineati nell’annullare il significato del lavoro e dei lavoratori, trasformandoli in capitale a disposizione dello stato totalitario (Stalin) o del totalitarismo del mercato (Becker).
Come macchine programmabili
Di più: “il contratto di lavoro estromette la figura dell’homo faber, sostituendola con quella di un mercante di lavoro e più precisamente con quella di un mercante di se stesso”[8]. E ancora – sempre Supiot: sia nei sistemi comunisti che in quelli capitalisti “la perdita di controllo da parte dei lavoratori sul significato del loro lavoro era vista come un effetto inevitabile del progresso scientifico e tecnologico. Poiché le masse umane erano ormai messe al servizio delle macchine, il loro stesso lavoro è stato pensato in funzione delle macchine ed è diventato oggetto di una organizzazione scientifica. (…) E questo processo si ripete ancora oggi.
Dopo avere progettato i computer sul modello di quello che si riteneva essere il funzionamento dell’intelligenza umana, a sua volta questa nozione disumanizzata di lavoro viene applicata non solo agli operai, ma a tutti i lavoratori (…), tutti considerati come delle macchine programmabili”.
Ovvero, l’organizzazione scientifica del lavoro di Taylor è stata aggiornata in organizzazione algoritmica del lavoro, che poi è come quella di ieri ma ancora più scientifica, considerando ciò che decide un algoritmo come buono e giusto e soprattutto esatto a prescindere. Con un contorno di neoliberalismo, che ha portato a considerare “il diritto del lavoro, la sicurezza sociale e i servizi pubblici come il principale ostacolo alla realizzazione del diritto al lavoro. La loro riforma strutturale è stata messa in atto da una tecnocrazia autoritaria (…). Questo ha fatto sì che, sia a livello di imprese che di nazioni, lo sfruttamento del lavoro non si basa più sulla promessa di arricchimento, ma sulla minaccia del declassamento, della povertà e della miseria”[9].
E dunque, oggi i problemi legati al lavoro nel XXI secolo sono di tre tipi: ecologici, tecnici e istituzionali.
Ecologici, perché è evidente che è proprio il lavoro degli uomini a far aumentare la temperatura del pianeta, quindi “la questione dell’organizzazione del lavoro e quella della riduzione dell’impronta ecologica diventano le due facce della stessa medaglia”.
Tecnologici, “in quanto è altrettanto evidente che se questo impatto sconvolge l’ecosistema è proprio a causa dei cambiamenti tecnici avvenuti dopo la prima rivoluzione industriale”.
Istituzionali, esistendo oggi un ordinamento giuridico internazionale schizofrenico, “il cui emisfero finanziario e commerciale incoraggia a non ratificare o applicare le norme di cui il suo emisfero sociale e ambientale proclama la necessità e l’universalità”[10].
Concorda di fatto Richard Sennett: “Questo implica un approccio al lavoro diverso, meno materialista e più umanistico di quello che appare oggi nella maggior parte delle discussioni pubbliche”[11]. Ma soprattutto, si dimentica che la questione del lavoro – la sua flessibilizzazione eccessiva, la precarizzazione di vita che questa comporta, livelli troppo alti di disoccupazione o di sottoccupazione, mancato riconoscimento delle conoscenze, nuove forme di standardizzazione del lavoro – genera un effetto anche sulla democrazia e sulla cittadinanza attiva.
Scrive Axel Honneth, filosofo della politica, nel suo contributo al volume della Fondazione Feltrinelli: “Sorprende che tali argomenti vengano solo raramente presi in considerazione dalla politica. Gli esperti proseguono imperterriti come se, analizzando la situazione e i pericoli per le democrazie, si potessero tranquillamente ignorare i cambiamenti che hanno luogo nel mondo del lavoro. Raramente si discute sulle possibili cause degli aspetti più problematici delle democrazie occidentali e della loro crisi (…), ma l’idea che l’erosione delle relazioni lavorative stabili possa essere tra le cause principali non viene praticamente mai presa in considerazione”[12].
Crisi del lavoro, crisi della democrazia
Ovvero, la crisi della democrazia nasce anche o soprattutto dalla crisi del lavoro stabile. Ma questo non è un problema per il capitalismo anche se Honneth non vede la questione: cioè il capitalismo non ama la democrazia, non la ama l’impresa, non la amano i social (che sono imprese), non la ama l’oligopolio della Silicon Valley e dintorni.
Quindi, se la crisi del lavoro mette in crisi la democrazia, ben venga – per il capitalismo e per il sistema tecnico – la crisi del lavoro, che diventa così anch’essa perfettamente funzionale (finalizzata) alla espropriazione (da parte dell’industrialismo, del neoliberalismo e delle multinazionali, delle tecnocrazie/populismi) della polis e dell’agorà. Così stabilizzando ulteriormente ciò che Marcuse già più di mezzo secolo fa definiva come totalitarismo della società tecnologica avanzata; e Max Horkheimer, un altro francofortese, chiamava società amministrata/automatizzata.
Ma ovviamente, ciò che va bene per il sistema tecnico e capitalistico non va per niente bene per chi ha a cuore la democrazia e la libertà.
E allora chiudiamo con Honneth (prima di tornare a Supiot), che chiude il suo contributo ricordandoci che “fino a quando non si cambierà nulla nella forma attuale della divisione del lavoro, fino a quando accetteremo che i lavoratori di molti settori siano sottopagati, senza potere e caricati di pesi eccessivi, fino a quando non riusciremo a contrastare l’impoverimento intellettuale e spirituale di innumerevoli sfere del mondo del lavoro, continueremo a precludere a una buona metà della popolazione l’esercizio del loro diritti alla partecipazione democratica”[13]. E Supiot: “La disumanizzazione del lavoro può assumere due forme: quella della negazione del pensiero, che consiste nell’organizzare il lavoro degli uomini sul modello di quello degli animali o delle macchine, senza possibilità di espressione riflessiva sul significato e sul contenuto di questo lavoro; e quella della negazione della realtà, tipica della nostra modernità, che consiste invece nello svuotare questo lavoro di ogni contatto con il mondo fisico o sociale in cui opera, asservendolo alla realizzazione di obiettivi meramente numerici”[14].
L’impressione – oltre Supiot – è tuttavia che queste due forme di disumanizzazione del lavoro (e quindi dell’uomo) si siano integrate tra loro in una forma unica che insieme nega il pensiero (nel taylorismo digitale, nel nostro lavoro gratuito per i social, nel management algoritmico delle piattaforme) e nega la realtà fisica e sociale.
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BIBLIOGRAFIA
- M. Weber (1991), “L’etica protestante e lo spirito del capitalismo”, BUR Rizzoli, Milano ↑
- A. Honneth, R. Sennett, A. Supiot (2020), “Perché lavoro? Narrative e diritti per lavoratrici e lavoratori del XXI secolo”, Fondazione Feltrinelli, Milano ↑
- L. Demichelis (2020), “Sociologia della tecnica e del capitalismo. Ambiente, uomini e macchine nel Tecnocene”, FrancoAngeli, Milano ↑
- L. Gallino (2007), “Il lavoro non è una merce. Contro la flessibilità”, Laterza, Roma-Bari; Id. (1998), “Se tre milioni vi sembran pochi. Sui modi per combattere la disoccupazione”, Einaudi, Torino. Ma si vedano anche: M. Revelli (2001), “Oltre il Novecento”, Einaudi, Torino; M. Gaddi (2019), “Industria 4.0. Più liberi o più sfruttati?”, Fondazione Sabattini, Bologna; J. Stiglitz, (2003), “I ruggenti anni Novanta”, Einaudi, Torino; C. Formenti (2011), “Felici e sfruttati”, Egea, Milano; L. Demichelis (2018), “La grande alienazione”, Jaca Book, Milano ↑
- Volume che si affianca a due altri libri importanti: “Lavorare in fabbrica oggi. Inchiesta sulle condizioni di lavoro in Fca/Cnh”; e l’Annale della stessa Fondazione “Lavoro: la grande trasformazione”, volume collettaneo curato dal sociologo Enzo Mingione. ↑
- A. Supiot, “Homo faber: continuità e rotture”, in A. Honneth, R. Sennett, A. Supiot (2020), “Perché lavoro?”, cit., pag. 27 ↑
- Ivi, pag. 38 ↑
- Ivi, pag. 39 ↑
- Ivi, pag. 44 ↑
- Ivi, pagg. 50-53 ↑
- R. Sennett, “Il lavoro e le sue narrazioni”, in A. Honneth, R. Sennett, A. Supiot (2020), “Perché lavoro?”, cit., pag. 80 ↑
- A. Honneth, “Democrazia e divisione sociale del lavoro”, in A. Honneth, R. Sennett, A. Supiot (2020), “Perché lavoro?”, cit., pag. 82 ↑
- Ivi, pag. 114 ↑
- A. Supiot, “Homo faber: continuità e rotture”, in A. Honneth, R. Sennett, A. Supiot (2020), “Perché lavoro?”, cit., pag.31 ↑