Quella dell’apprendista stregone è un’immagine ricorrente nella descrizione della disruption digitale. Il pigro maghetto cantato da Goethe, citato da Marx e reso pop dalla “Fantasia” di Walt Disney è una metafora perfetta dello squilibrio che caratterizza una fase tumultuosa di innovazione, quando l’entusiasmo spinge ad abbandonare le certezze e lascia che i processi si compiano verso conseguenze incalcolabili.
I grandi protagonisti della transizione si rifanno a quel copione quando sono chiamati a rispondere dei danni collaterali ai servizi che promuovono: Mark Zuckerberg, ad esempio, porta con sé l’aria da wizard a cui l’incantesimo di “dare il potere di condividere qualunque cosa con chiunque” è sfuggito di mano aprendo un vaso di Pandora ricco di disinformazione, manipolazione elettorale, microprofilazione e tutte le altre ombre che il social network fronteggia ogni giorno.
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Le evoluzioni di Facebook, tra danni collaterali e incidenti di percorso
Ogni scandalo è raccontato come un incidente di percorso, il piccolo intoppo di un’impresa necessaria e ammirata verso l’aumento della libertà di espressione e la costruzione di una società connessa in cui la comunicazione non abbia limiti infrastrutturali né inibizioni gerarchiche. Contribuisce a questo posizionamento nell’immaginario collettivo la costruzione mediatica del personaggio, dove il Mark in carne ed ossa si intreccia al protagonista del film di David Fincher e Aaron Sorkin “The Social Network” (2010), allo speaker motivazionale delle convention aziendali fino al nuovo genere letterario delle audizioni al Congresso o alle istituzioni europee. Il racconto delle origini di Facebook è impregnato di sorpresa e sproporzione: una piccola brillante idea nata in una notte di frustrazione nel dormitorio di un campus che uscendo da quelle quattro mura impatta e accoglie un’esigenza sociale di autorappresentazione latente, diffusa, che aspettava solo un luogo per realizzarsi. Le aspettative e le volontà che si riversano sulla piattaforma nascente sono molto più grandi di qualunque linea di codice da programmare. Facebook da luogo di incontro con i compagni di classe diventa luogo, senza accezioni, quindi teatro di feste, compleanni, giochi, notizie ma anche di pubblicità, sermoni, propaganda, razzismo, odio.
Nella seconda metà degli anni 2000 il social network trionfa nell’ignoto, domina il mercato mentre lo sta creando: l’iPhone nel 2007 battezza la migrazione di massa sui dispositivi mobili, c’è l’eccitazione della scoperta di un continente inesplorato. Menlo Park surfa sul successo con i piedi ben piantati nell’humus culturale della baia di San Francisco dove, nelle parole del fondatore di LinkedIn Reid Hoffman “se non ti vergogni della prima versione del tuo prodotto significa che l’hai lanciato troppo tardi”, aggiornamento informatico del celebre aforisma di Mario Andretti, secondo cui al volante di una Formula 1 “se hai tutto sotto controllo, vuol dire che stai andando troppo piano”. Le imperfezioni di Facebook nella prima parte della sua storia sono parte dell’epopea: i social network aprono l’era del web 2.0 che, secondo il principale teorico Tim O’Reilly, sancisce “la fine del ciclo di release del software”: non esiste fase di test ma un processo di co-sviluppo con gli utenti. Le corporation si impadroniscono del motto dell’open-source “produci presto e pubblica spesso” che si evolve in una fase di beta perpetuo, dove il prodotto si aggiorna allo scoperto, con nuove caratteristiche inserite a cadenza giornaliera sulla base dei feedback ricevuti.
Errori e scuse
L’errore è parte del processo di crescita, l’apprendista stregone è un irresponsabile ma a fin di bene: il suo comportamento non è percepito come deviante anzi trova ampia legittimazione nell’etica pioniera della Valley che fa da guida al movimento verso il perfezionamento continuo. La capacità di autocorrezione è esibita dalla corporation con orgoglio: Zuckerberg non ha paura di chiedere scusa, anzi. È un’operazione che compie con frequenza regolare, come dimostra il corposo elenco stilato dal Washington Post nel 2018: sorry per l’improvvida Facemash da cui tutto ebbe origine, sorry per i buchi nella privacy, sorry per la ricerca con la Cornell University pubblicata su Pnas che ammetteva manipolazioni nelle bacheche per sperimentare cambiamenti d’umore negli iscritti, sorry per l’uso della piattaforma per interferenze estere nelle campagne elettorali, sorry per Cambridge Analytica. Infine, sorry per il black out di 6 ore del 4 ottobre scorso. Le scuse sono un ingrediente retorico fondamentale per un’azienda che non lavora sul passato ma è impegnata nel vendere un’idea quanto mai “idealista e ottimista” di futuro. Il ceo le ripete ad ogni audizione, affiancandoci l’impegno rinnovato per affrontare la sfida del momento, la creazione di un nuovo team, la modifica dell’algoritmo, un follow up più dettagliato da parte dello staff.
Il profitto prima della sicurezza: le rivelazioni di Frances Haugen
L’immagine dell’apprendista stregone, però, si infrange rumorosamente sulle recenti rivelazioni della whistleblower Frances Haugen, pubblicate dal Wall Street Journal e messe in onda dalla CBS.
I fatti sono noti: l’ingegnere informatico lavora per due anni a Facebook animata dall’intenzione di collaborare alla lotta alla disinformazione annunciata dalla piattaforma. Ben presto si rende conto che dietro la facciata del “Civic Integrity Team” c’è ben poco. Le proposte di correzione elaborate dal team per limitare la diffusione di bugie e attacchi sono puntualmente ignorate se in contrasto con gli obiettivi aziendali di aumento del coinvolgimento degli utenti. In sintesi, come molti giornali hanno riassunto, “il profitto prima della sicurezza”, nonostante i proclami. L’ingegnere non regge, lascia l’azienda e rivela al mondo quanto sa, testimoniandolo con alcuni documenti interni sottratti.
L’elemento originale dell’ultimo scandalo che ha coinvolto il social network è tutto qui, nella presa di coscienza che Facebook sa:
- sa di essere un vettore di disinformazione e malafede;
- sa che alcuni dei maggiori gruppi di propaganda per cristiani, nativi americani e afroamericani sono in mano a fabbriche di troll dell’est Europa;
- sa che esiste una cerchia di vip al di sopra delle regole della community;
- sa che l’uso prolungato di Instagram è dannoso per gli adolescenti nel rapporto con il corpo e l’immagine di sé;
- sa che sulla piattaforma operano trafficanti di droga e di esseri umani.
Soprattutto sa che i contenuti controversi sono quelli che provocano più engagement e rendono la piattaforma centrale per la profilazione pubblicitaria, il cuore di tutto. Su tutto questo fonda il suo potere e il suo business, senza mostrare alcuna ferrea volontà di correggersi. Che lo stregone avesse smesso i panni di apprendista è una notizia che gli addetti ai lavori possiedono da tempo. Quell’immagine di squilibrio costruttivo però continua a edulcorare la presenza pubblica di una corporation che si avvia verso la costruzione di un metaverso frutto dell’ibridazione delle quattro frequentatissime piattaforme di cui è proprietaria. Incrinare quel ritratto è un rischio perché farebbe collassare la base legittimante di un potere mai avvertito come oppressivo. Almeno fino al prossimo whistleblower.