l'analisi

Da nativi a “disagiati digitali”: nuovi analfabetismi crescono online

Va sfatata l’idea che crescere con la tecnologia a disposizione renda i nativi digitali automaticamente alfabetizzati digitali. Il disagio digitale non risponde – se non parzialmente – a stratificazioni strettamente anagrafiche, ma va piuttosto a braccetto con gli analfabetismi che affliggono, oggi, la nostra società

Pubblicato il 17 Ott 2019

Vera Gheno

sociolinguista specializzata in comunicazione digitale e traduttrice dall'ungherese. Docente a contratto presso l'Università di Firenze, collaboratrice Zanichelli

selfie - dismorfia digitale

Uno dei miti più mal compresi dai media tradizionali e dalla politica è quello dei nativi digitali, ossia delle persone che per una semplice fortuna anagrafica possono impugnare un dispositivo elettronico, normalmente un cellulare o un tablet, sin dalla più tenera età, e che apparentemente, per questo semplice vantaggio strumentale, sarebbero anche più capaci di usare bene le risorse digitali.

È indubbio che esistano già alcune generazioni di ragazzi nati e cresciuti con i dispositivi elettronici in mano; da questo punto di vista, il mito del nativo digitale rispecchia una situazione reale. Va invece sfatata l’idea che crescere con la tecnologia a disposizione renda i nativi digitali automaticamente alfabetizzati digitali. In altre parole, al vantaggio strumentale dei più giovani non sempre si associano adeguate competenze comunicative; il dato anagrafico prese come unico fattore differenziante tra esperti e non esperti non è sufficiente.

Gli errori dei nativi digitali

Gli errori commessi in rete cambiano con l’età, ma nessuna è scevra dal commetterne: il nativo cartaceo o immigrato digitale tende, per esempio, a considerare “i social” come un calderone indistinto, e magari non differenzia tra una chat privata e la bacheca di un amico, muovendosi in maniera impacciata tra i vari contesti; il nativo differenzia in modo competente tra i vari social, e magari, all’interno della stessa piattaforma, tra contenuti brevi e transeunti (le stories) e contenuti “di lungo corso”, che contribuiscono fattivamente alla costruzione della sua online persona; ma forse indulge nell’oversharing, cioè nella condivisione imponderata di contenuti o informazioni troppo rivelatori, in alcuni casi rischiando di fare una pessima impressione.

Un esempio reale: una ragazzina di dodici anni, che usa Whatsapp con il consenso dei suoi genitori (è un modo semplice per tenersi in contatto in un’età che coincide con le prime “prove di indipendenza), mette come “stato” una frase pronunciata da uno youtuber molto amato dai preadolescenti: «L’importante è scopare! Cit. FaviJ» (cit. sta per ‘citazione’; FaviJ è il nome dello youtuber). Lo stato viene letto dalla madre di un amico della ragazzina, che preoccupata chiama i genitori di quest’ultima: visto che i due ragazzini si frequentano, l’inaspettata crudezza della frase la colpisce in modo particolare. La ragazzina, interrogata dai genitori, si giustifica dicendo che lo stato aveva le impostazioni di visualizzazione ristrette, cioè lo potevano vedere solo i suoi amici, e che la frase era semplicemente una citazione. Ciononostante, è stata letta da un destinatario imprevisto e ha provocato conseguenze negative.

In questo caso, i genitori le hanno consigliato di fare più caso, la prossima volta, alla fraintendibilità di quello che intende condividere.

D’altro canto, se il mito del nativo digitale è duro a morire è anche perché, per chi non lo è, l’idea che esistano esseri umani già di per sé più capaci di gestire la connessione, anzi, l’iperconnessione (Dominici 2014), è quasi consolatoria, o forse autoassolutoria: vuol dire che le sue difficoltà sono, di fatto, praticamente insormontabili, dato che dipendono da ragioni anagrafiche. A dire il vero, invece, poiché la vita “felice e connessa” non presume esclusivamente competenze tecniche, ma anche comunicative, e più specificamente linguistiche, il problema è molto meno insormontabile di quanto si possa pensare; anche se è senz’altro vero che dopo una certa età diventiamo tutti un po’ tecnoconservatori, come notava Douglas Adams: “Ho trovato tre regole che descrivono le nostre reazioni alla tecnologia: 1. Qualunque cosa esista nel mondo quando nasciamo, ci pare normale e usuale e riteniamo che faccia per natura parte del funzionamento dell’universo. 2. Qualunque cosa sia stata inventata nel ventennio intercorso tra i nostri quindici e i nostri trentacinque anni è nuova ed entusiasmante e rivoluzionaria e forse rappresenta un campo in cui possiamo far carriera. 3. Qualunque cosa sia stata inventata dopo che abbiamo compiuto trentacinque anni va contro l’ordine naturale delle cose”. (Adams 2002)

La centralità della competenza linguistica

Osservare i costumi linguistici delle persone online ci racconta molto su di loro e sulla loro età. Linguisticamente parlando, la prima grande differenza che si nota è nel ruolo ricoperto dalla lingua nelle interazioni in rete.

Quando, negli anni Novanta, alla rete poteva accedere soltanto un’élite, la lingua aveva una funzione essenziale: quella di esplicitare l’appartenenza alla casta dei cowboy del cyberspazio. La lingua, come da tradizione, serviva anche in quel contesto per unire i “simili”, distinguendoli da coloro che invece erano costretti a vivere una vita analogica; non è certo un caso se la versione più estrema di gergo della rete, quella usata dagli smanettoni (semplicisticamente chiamati hacker) fosse (e sia) il leet speak, dove leet non è altro che una deformazione di élite. In quel contesto, la lingua svolgeva anche la funzione dei gerghi veri e propri, quella di non farsi capire dagli estranei: soprattutto chi si muoveva ai margini della legalità aveva tutto l’interesse per essere criptico.

D’altro canto, le prime generazioni sbarcate online si dovevano misurare anche con limiti tecnici ed economici: scarsezza di banda, difficoltà di connettersi, la temuta tariffa urbana a tempo, per cui ogni bit aveva un costo… Tutto questo ha portato, di fatto in tutte le lingue sbarcate in rete, all’adozione di una serie di strategie nel tentativo di dire il più possibile nel minor spazio possibile: acronimi (inglesi in una prima fase (dato che inizialmente la rete, di fatto, era anglofona), poi anche italiani: TTFN ‘ta-ta for now’, RTFM ‘read the fucking manual’, CUL8R ‘see you later’, OT ‘off topic’, MoF? ‘maschio o femmina?’, PDA ‘perfettamente d’accordo’, SLMV ‘sei la mia vita’), tachigrafie (cmq, nn, qlc, xk ecc.), k in sostituzione del digramma ch, troncamenti (asp, cisi, risp è impo, ecc.), numeri e lettere usati al posto di parole o sillabe (8bre, xciò, hdemia, 3mendo ecc.), scriptio continua (in modo da risparmiare il carattere dello spazio), il tutto mischiato in un pastiche multicolore poco comprensibile e poco digeribile per chi osservava questi fenomeni da fuori; indigeribile al punto che gli stessi fenomeni vengono ancora adesso, a più di trent’anni dalla loro nascita, menzionati spesso con una punta di ribrezzo come parte integrante della lingua social del presente, anche se in realtà, come vedremo, sono ormai ampiamente minoritari (Gheno 2003, Gheno 2017 e Gheno 2018a).

Chi si è accostato alla rete negli anni Novanta ha avuto il privilegio di vivere il passaggio da una rete di pochi a una aperta a tutti (o quasi: qui, chiaramente, agisce lo specchio deformante di una visione eurocentrica del mondo). All’epoca, internet era un nuovo continente da conquistare; non a caso, ritengo che quella dei pionieri digitali sia la generazione più affezionata alla metafora della rete come far west da esplorare, in cui andare “a caccia” di informazioni, di dati, di nuove esperienze, secondo l’efficacissima metafora usata da Mastroianni (2016) e alla quale fa riferimento anche Roncaglia (2018). Basta aprire un classico dell’epoca come The Virtual Community, libro seminale di Rheingold (1993), per rivivere l’epopea di quei primi coloni della socializzazione digitale. E lì, conoscere il gergo della comunità era condizione necessaria per farne parte, per viverla fino in fondo.

Internet aveva una sua collocazione fisica: era all’interno degli ingombranti computer che qualcuno aveva la fortuna di possedere a casa o sul posto di lavoro. Dunque, erano gli utenti che facevano un movimento verso il mondo connesso, non viceversa. L’accesso alla rete richiedeva un rituale piuttosto complicato: attendere i tempi di accensione del computer, la fase di handshaking del modem, l’apertura della connessione, la partenza del browser o degli altri client per accedere a una chat, un newsgroup ecc. Questo, probabilmente, aveva delle conseguenze anche sull’attenzione rivolta alla lingua usata, come fosse più rilevante pensare a cosa dire e come dirlo, dato che poterlo dire (o meglio, scrivere) era un privilegio.

La lingua fungeva più che mai da fortissimo atto di identità: stare in rete era un vanto, un’esclusiva, e l’appartenenza a quella tribù di avanguardisti digitali era esplicitata proprio dalle scelte linguistiche, in parte, certo, giustificate dalla scarsità di mezzi a disposizione, ma in parte vissute con un certo autocompiacimento. Senza dimenticare, ovviamente, che gli ambienti social dei primordi erano davvero soltanto testuali: non c’era spazio per fotografie e nemmeno emoji (Gheno 2015a), e non esistevano i memi (cfr. Gheno 2014, in cui uso memi, dato che il termine viene modellato da Dawkins sulla base di gene, e Lolli 2018, che invece sceglie meme invariabile al plurale). Tutta la creatività veniva espressa tramite le lettere, i numeri e i simboli a disposizione dell’utente sulla tastiera, nient’altro. Come sempre, la povertà di mezzi a disposizione aguzzava l’ingegno, fino alla creazione di vere e proprie forme artistiche realizzate soltanto con la tastiera, la cosiddetta ASCII Art (Gheno 2003a).

Se si analizzano i testi di quel tempo lontano, li troviamo molto ricchi di trucchi espressivi, ma mediamente tutt’altro che sciatti: aveva accesso alla rete chi, in virtù di una buona posizione socioeconomica (sua o dei suoi genitori), poteva possedere un computer; questo faceva sì che la selezione all’ingresso fosse, in un certo senso, piuttosto impietosa, tagliando fuori sia chi non aveva dimestichezza con la rete (e non aveva motivo di farsela) sia gli strati più disagiati – economicamente e da un punto di vista educativo – della popolazione. Ecco un esempio, da un newsgroup italiano, di dialogo tra due utenti (Gheno 2003a, 8).

> >> Oooopsss… scusa, ho confuso il titolo con un altro. Questo non lo

> >> conosco, ritiro tutto.

> >Ahhhhhhhhh

> >meno male, stavo per killarti!

> Potresti decidere comunque di farlo, l’avevo confuso con “I 400

> colpi”.

Noooooooooooooooooooooooooooooooooooooooo!!!!!!!!!!!!!

(it.arti.cinema, scambio di battute tra Nicola De A. e Keaton, 30/3/2003, 21:53)

Ancora oggi, una spia evidente dell’età non verdissima di un interlocutore – e insieme il segnale che probabilmente si tratta di un pioniere della rete – è il vezzo di sostituire le lettere accentate con la combinazione lettera semplice+apice, resa all’epoca necessaria dai problemi di decodifica che potevano provocare i caratteri della tabella ASCII estesa (Gheno 2003b). Un’abitudine che alcuni hanno mantenuto – magari perché scrivono con tastiere non italiane, quindi non dotate di tasti per le lettere accentate – ma che un giovane tende a scambiare per un errore bello e buono.

E’ un po’ quella storia delle liberta’ piu’ grosse e piu’ piccine, ma che

quando si tratta di nominarla, la liberta’, diventa per incanto uguale per tutti.

(it.arti.cinema, susanna, 3/3/2003, 15:58) (Gheno 2003a, 13)

Il passaggio alla onlife e le abitudini dei giovani

Con l’avvento di Facebook e degli altri social network “generalisti”, la realtà comunicativa della rete inizia a cambiare molto in fretta. Se ancora nel 2008 «The Guardian» poteva definire l’Italia «bastion of digital indifference» (Fitzpatrick 2008), i dati di undici anni dopo sono completamente differenti: l’ultimo Digital global report di We are social (Starri 2019) ci dice che tre italiani su cinque passano sui social network più di due ore al giorno. Oggi, stare in rete è diventato “normale”. È cambiata la relazione con la connessione: non a caso Luciano Floridi definisce la nostra vita attuale onlife (Floridi 2015), in cui i due stati, online e offline, non sono più differenziabili; permeabili come sono l’uno all’altro, sono smarginati (Gheno 2019a): internet è attorno a noi e accedervi non richiede nessuna manovra particolare. Soprattutto per i più giovani, andare in rete per cercare un’informazione, fare un acquisto, controllare una notifica, scrivere un messaggio è parte della quotidianità; anzi: lo strano, l’insolito è quando la connessione manca, quando non è possibile svolgere queste funzioni che fanno parte di una normale routine.

Alcuni aspetti linguistici permangono tali e quali: per esempio, ieri come oggi si mutuano tormentoni dalla realtà pop circostante (negli anni Novanta un film “memizzante” era Matrix; oggi, magari, è più popolare un programma TV come Masterchef). Si fanno riferimenti ai modi di dire di coloro che sono considerati a vario titolo influencer (Gheno 2019b), che siano cantanti, youtuber, muser (ossia influencer che hanno conquistato la fama tramite TikTok, precedentemente chiamano Musical.ly, un social network che permette di registrare brevi spezzoni video, solitamente ma non solo musicali, nei quali il muser si cimenta con il dubbing della canzone, ossia la mima e la canta, ma mantenendo l’audio originario) o attori, ci si ispira a serie tv o programmi televisivi di intrattenimento. Dagli emoticon si è passati agli emoji, spesso usati come risposta non verbale in uno scambio di messaggi (anche se alcuni concetti rimangono decisamente difficili da ridurre a un’immaginetta e anzi, spesso sono forieri di fraintendimenti) e così via.

Trasversalmente, rimangono ben vivi i gergalismi in comunità specifiche, per esempio tra i gamer, cioè i giocatori di videogiochi, pur cambiando i giochi in sé. Per esempio, oggi si cita spesso il lessico usato dai giocatori di Fortnite, il gioco online che letteralmente spopola tra adolescenti e preadolescenti; ma qualche anno fa il serbatoio di neologismi e ibridismi era World of Warcraft e, ancora prima, i cosiddetti shoot’em up o sparatutto in soggettiva giocati in modalità multiplayer, magari organizzando giganteschi LAN party, già a cavallo del 2000 (Francalanci 2018).

Sono invece in regressione i fenomeni legati ai limiti espressivi indotti dal mezzo, come acronimi, tachigrafie e troncamenti, dato che gli utenti, che nel frattempo si sono spostati in massa su dispositivi mobili, beneficiano di sistemi di scrittura predittiva e di autocorrezione che intervengono sulla stesura del testo correggendolo, completandolo e, in contemporanea, tendendo a “normalizzarlo”: tra un termine o una grafia non riconosciuti dal dizionario del cellulare e uno standard, che non dà problemi di questo tipo, molti tenderanno, per semplicità, a scegliere il secondo. Per fare un solo esempio, su molti cellulari, se si digita cmq, il testo verrà automaticamente trasformato in comunque scritto per esteso.

Quasi come per una specie di contrappasso, molte caratteristiche della lingua dei guru dei primordi oggi vengono giudicate bimbominkia da generazioni che si emancipano da tali vezzi della scrittura molto precocemente, già alla scuola secondaria di primo grado: a quell’età, scrivere ancora con la k al posto del ch o con la x per per è segno di poca maturità e viene, in generale, evitato e considerato usanza da schernire (anche se in realtà, come ci ricorda Giuseppe Antonelli, anche Leopardi faceva ampio uso di tachigrafie nelle sue lettere, cfr. Antonelli 2014). Ciò che prima era impiegato per distinguersi è diventato, oggi, un vero e proprio motivo di stigma, tanto che se vi indulge un adulto, verrà quasi sicuramente ripreso da qualcuno.

Questa la dedica lasciata da #Salvini al Memoriale dell’Olocausto a #Gerusalemme: perché scritto con la X, “come un bimbominkia qualsiasi.” Forse, prima o poi, lo capirà che è un Ministro del Governo della Repubblica Italiana e che certe leggerezze sono gravi!

[Facebook, 12 dicembre 2018]

In tutto questo, nonostante l’odierno impiego massiccio di messaggi vocali (chiamati semplicemente vocali: “ti mando un vocale”) e la migrazione di massa su Instagram, abbandonando de facto Facebook, i giovani non hanno comunque smesso di scrivere. Se è pur vero che Instagram pone più enfasi sull’aspetto iconico, dato che nasce per condividere immagini, la scrittura è tutt’altro che interstiziale, dato che compare massicciamente nelle didascalie, nei chilometri di scambi di commenti sotto le foto dei vari influencer e perfino nelle stories (come già menzionato, contenuti destinati a una fruizione limitata nel tempo, normalmente 24 ore), dove rappresenta un elemento tuttora fondamentale della narrazione. I più giovani usano Instagram a tutto tondo, non solo per inserire immagini ma anche per scrivere e, soprattutto, per chiacchierare tramite commenti o, in privato, tramite messaggi. I ragazzi, insomma, continuano a scrivere: ma come? (Gheno 2018b).

La nonchalance linguistica

Se, come accennato sopra, le caratteristiche più sperimentali della lingua social di una volta sembrano avere perso in popolarità tra i più giovani (anche se non manca l’occasionale lol o l’allungamento vocalico in stile fumettistico) la caratteristica globale (e internazionale) che salta più all’occhio è la minore attenzione per la superficie linguistica: si “scrive come viene”, senza attenersi alle regole della grammatica studiate a scuola, con grande indignazione degli adulti che, come sempre, ne approfittano per dare un giudizio tutt’altro che lusinghiero sulle competenze linguistiche delle nuove generazioni. È quel linguistic whateverism già studiato anni fa da Naomi S. Baron:

“A convergence of forces is engendering a new attitude toward both speech and writing. We might dub this attitude “linguistic whateverism”. Its primary manifestation is a marked indifference to the need for consistency in linguistic usage. At issue is not whether to say who or whom […] but whether it really matters which form you use. This challenge to the fundamental principle of language as rule-governed behavior is less a display of linguistic defiance than a natural reflection of changing educational policies, shifts in social agendas, a move in academia toward philosophical relativism, and a commitment to life on the clock”. (Baron 2003)

Che ci sia un “problema ortografico” generalizzato è abbastanza evidente: basta guardarsi attorno per verificare la frequenza con cui errori di vario genere (accenti, grafie, tempi e modi verbali sbagliati, sintassi pericolante ecc.) compaiono perfino in scritte pubbliche, come pubblicità o istruzioni per l’uso. Il fenomeno si manifesta in maniera particolarmente evidente nei contesti social, soprattutto – ma non esclusivamente – in quelli frequentati dai più giovani.

Ciononostante, ritengo che sarebbe un errore considerare tutto ciò solo come manifestazione di una regressione cognitiva; piuttosto, è come se nel corso dell’ultimo decennio la lingua scritta avesse subito una sorta di desacralizzazione. Scrivere in maniera sciatta sui social non comprende automaticamente che i ragazzi scrivano in maniera altrettanto sciatta in contesti più sorvegliati; semplicemente, nel contesto social è come se non fosse richiesta una particolare attenzione per la grafia. Mutatis mutandis, è utile ricordare la storia di Simone di Torre Maura (Mastrodonato 2019), il quindicenne divenuto famoso per avere affrontato un militante di Casa Pound tenendogli verbalmente testa in italiano regionale romano («a me nun me sta bene che no»); alcuni l’hanno accusato di essere incapace di parlare italiano, quando la verità è che lui aveva selezionato il registro giusto per la situazione: se avesse parlato “come un libro scritto”, non sarebbe stato in grado di farsi capire così chiaramente dal suo interlocutore.

Insomma, è pur vero che la sciatteria dovrebbe rimanere circoscritta a certi contesti; sarebbe quasi meglio mantenere sempre una certa “tensione linguistica”, anche nei contesti meno sorvegliati, per evitare di indulgere poi in eventuali errori là dove andrebbero a nostro detrimento; in fondo, siamo ancora una società che giudica le persone in base agli errori linguistici che commettono, come dimostrano i tanti memi in circolazione sull’argomento: proprio per questo, potrebbe avere senso adottare un costante contegno linguistico invece di approfittare dei social per lasciarsi completamente andare.

Ciononostante, è probabile che forse tendiamo a dare al whateverismo linguistico troppo rilievo: magari potremmo chiamarlo nonchalance più che menefreghismo e ricordarci quanto affermato da Giuseppe Antonelli quando definisce l’e-taliano il primo vero italiano scritto completamente informale (Antonelli 2018) e, aggiungerei io, pubblico: prima dell’avvento di massa della rete, infatti, le occorrenze di questo tipo di italiano andavano cercate in testi scritti per scopi privati, come ad esempio le liste della spesa (nelle quali l’attenzione per la perfezione grafica della parola è bassa quasi per forza di cose). La rete ha esposto l’esistenza di questa lingua scritta imperfetta, che non è per forza indice automatico di incultura: proprio per questo non è necessario che diventi un’esposizione al pubblico ludibrio.

Dal tu telematico al “come si permette?”

Un altro punto che può aiutare a compiere una periodizzazione degli utenti della rete è il modo in cui le persone si apostrofano in rete. I pionieri si erano adeguati all’uso anglofono del tu sovraesteso, detto non a caso anche tu telematico (Gheno 2018a), dovuto sia all’influsso dell’inglese sia al fatto che tutti si sentivano in qualche modo amici, facendo parte di una comunità così ristretta. Quando internet è diventata “di tutti”, o quasi, sono state ricreate in rete le stratificazioni sociali tipiche della realtà ed è ritornato l’uso di usare il lei di cortesia.

Anche per questo caso si possono individuare più di due consuetudini differenti. Come i pionieri, anche i più giovani tendono a usare il tu sovraesteso – perché si sa, tra giovani è normale darsi del tu, e in rete non tutti si rendono bene conto del fatto che i loro messaggi non sono letti solo dai loro coetanei, ma potenzialmente da tutti. Ma tra questi due gruppi emerge ancora una volta la generazione di persone arrivate alla rete da adulte, che hanno automaticamente ricreato la stratificazione di allocutivi ai quali erano abituati nella vita reale. In questo caso, la violazione dell’abituale lei di cortesia viene rilevata e anche condannata. Questo esempio è tratto da Facebook, sempre dalla discussione su Simone di Torre Maura, e l’autrice è una scrittrice piuttosto famosa, la quale si risente per il tu rivoltole innocentemente da un altro utente.

“Perché mi dà del tu? ci conosciamo? Considerare disastrosa la situazione di un ragazzo di quindici anni che non sa esprimersi in italiano è spocchioso… benissimo! ma lasciamoli lì, a grufolarsi nell’ignoranza, cosa c’è di meglio per prepararsi a un futuro luminoso?”.

Questo esempio è da Twitter ed è dell’ottobre 2018:

“Chi è Lei?????E mio amico????? Come si permette di darmi del Tu??? Dove vive…sullla luna???? E’ talmente cretino ciò che dice che non merita risposta!!!!!”.

Né pionieri né nativi: introduciamo i disagiati digitali

Abbiamo a più riprese notato l’emersione di una categoria di persone che si pone tra i pionieri e i nativi: quella degli adulti entrati tardivamente, “a giochi fatti”, nel digitale. Non erano parte delle élite dei primordi e, anagraficamente, non appartengono nemmeno al gruppo di coloro che, essendo entrati in contatto in giovane età con il digitale, lo considerano parte integrante della loro esperienza quotidiana. Potremmo chiamarli disagiati digitali. Probabilmente sono spesso adulti, ma anche giovani adulti, di estrazioni sociali varie (non per forza basse), accomunati dal fatto di avere iniziato a frequentare i social praticamente senza alcuna preparazione già da “grandi”, senza beneficiare quindi di quella elasticità mentale e adattabilità tecnologica che hanno i più giovani.

Stanno su Facebook, soprattutto, ma non solo (se ne trovano anche su Twitter o Instagram, oltre che nelle famose e vituperate chat di WhatsApp dei genitori dei ragazzini a scuola e simili); popolano i gruppi sottoposti ormai a un pesantissimo scrutinio sociale come quelli delle mammine pancine (Il Signor Distruggere 2017); condividono ogni mattina memi demenziali che augurano il buongiornissimo (non a caso sono detti buongiornisti), vanno sui profili pubblici dei politici, li insultano e poi si stupiscono se scatenano, in risposta, una shitstorm (Drogo 2018), oppure perdono le staffe sul proprio profilo contro qualcuno o qualcosa e rimangono turbati se il “popolo della rete” li sottopone a una vera e propria lapidazione (Ronson 2015).

Spesso, ma non sempre, il disagiato digitale scrive male perché probabilmente è affetto da qualche forma di analfabetismo funzionale, se non di analfabetismo di ritorno (perché, si sa: non è che le competenze linguistiche, una volta acquisite, rimangano stabili, se non esercitate); è una creatura appartenente a una sorta di terra di mezzo tra il passato e il presente, rappresentante della generazione forse più critica sulla quale intervenire perché sa di dover stare online, ma non sa bene come fare; eppure, non sempre ha volontà o possibilità di formarsi sull’argomento. Sono estremamente rilevanti da leggere le interviste ai cosiddetti hater, quasi sempre persone di una certa età, che normalmente si difendono dicendo «non pensavo che così tante persone avrebbero letto quel commento» (Fatucchi 2016): la consapevolezza di dove si svolga quell’atto, non online ma in pubblico, come suggerisce Bruno Mastroianni, è davvero bassa.

Il disagiato digitale, tuttavia, può anche essere un personaggio di rilievo abituato ad avere un seguito e un certo tipo di interazione con i suoi seguaci sui mezzi di comunicazione di massa tradizionali, preso alla sprovvista e colpito negativamente dal fatto che gli utenti in rete non sembrano rispondere alle dinamiche note. Spesso, in questi casi, il VIP a disagio si disiscrive dai social, definendoli inutili e fastidiosi, rifugiandosi su una sorta di Aventino della comunicazione (Gheno 2017b).

L’importanza di avere o non avere un nickname

Cercando differenze tra generazioni di utenti, e nel tentativo di individuare meglio la categoria del disagiato digitale, c’è un ultimo aspetto da analizzare: l’abitudine di usare soprannomi, o nickname, in opposizione all’impiego, in rete, del proprio nome reale. Anche qui si può tentare una periodizzazione: tra gli utenti della prima ora, il nickname era molto rilevante (Gheno 2017a, 108-110), perché rappresentava la possibilità di scegliersi un nome magari più calzante, sicuramente più “parlante”, di quello di battesimo. E non era un modo per rimanere nell’anonimato – o meglio, poteva esserlo per chi si occupava di affari illegali, magari – quanto una delle rare possibilità date da una rete solo testuale, come era a quel tempo, per “raccontarsi”, per esplicitare la propria personalità. Nickname e tagline – le poche righe di autodescrizione che si possono ancora oggi aggiungere sul proprio profilo social, definite anche mini-bio – venivano scelti con spasmodica attenzione, tanto che alcune personalità della rete particolarmente rilevanti una decina o ventina di anni fa, per esempio le blogstar dell’epoca d’oro dei blog, esibiscono ancora adesso i loro soprannomi con orgoglio, come una specie di personalità aumentata, non come un modo per nascondersi.

Successivamente, Facebook in particolare ha fortemente caldeggiato, se non imposto, l’impiego del proprio nome e cognome sul profilo. Questo ha portato ad almeno una generazione di utenti, quelli entrati in rete con il boom del social di Zuckerberg, ad abituarsi a usare se non il proprio nome e cognome reali, qualcosa che potesse sembrare un vero nome e cognome anche se magari falso: molti, infatti, si attengono ai consigli dati dai mezzi di comunicazione di massa in merito ai problemi di privacy e preferiscono ancora oggi non usare le loro vere generalità in rete (ma allora, verrebbe da chiedersi, che ci fanno sui social?).

Dunque, coloro che hanno avuto accesso al mondo social tramite Facebook hanno assunto che avere un nickname fosse quasi per forza il segnale di qualcosa di losco, del fatto di avere qualcosa da nascondere, anche se il vero pericolo, oggi, non è chi si firma “Marylin Monroe”, quanto piuttosto chi si crea un alter ego dal nome apparentemente reale: di solito sono questi ultimi che si creano un alias per compiere nefandezze (sulla questione dei fake cfr. anche Gheno 2015b).

Da Facebook l’uso si è diffuso anche su altre piattaforme, per esempio su LinkedIn – dove firmarsi nome e cognome ha un senso, dato che ciò che le persone mettono in rete sono i loro CV, ma anche su Twitter, che nel corso degli anni è via via diventato il social degli “addetti ai lavori”. In questi contesti non è raro che qualcuno abbia da eccepire su chi usa un nickname, come se non potesse essere un interlocutore degno di stima o attenzione.

“Potrei dire lo stesso di te…ma non posso. Sai mi sono sempre chiesto che dignità possa mai avere uno che in un social non si firma si mostra con loghi o nickname. Sicuramente non è persona libera ma serva di sistema”

[Twitter, 28 novembre 2017]

“La verità é che sei un leone da tastiera che si nasconde dietro un nickname! Non come @XXX che ha le palle e si firma con nome e cognome!!”

[Twitter, 25 marzo 2019]

Se però osserviamo le generazioni successive, quelle che su Facebook, di fatto, non ci stanno, si nota che non c’è alcun problema particolare connesso all’uso dei soprannomi – che sono comuni su Instagram, su Tik Tok e anche su Youtube. Il nickname, come usato dai più giovani, appare spogliato della sua enfasi, ed è impiegato come un normale “accessorio” del loro quotidiano. Ricordiamoci che i più giovani entrano in una rete già ipersatura di persone, per cui diventa talvolta un problema trovare una combinazione presentabile di nome e cognome che non sia già di qualcun altro. Questo problema è drammatico per gli indirizzi di posta elettronica, che non sono duplicabili, ma non è meno fastidioso su un social network, dove ognuno vorrebbe comune avere una sua personalità online unica e irripetibile, senza condividerla con un omonimo (che invece quasi sempre esiste già). I ragazzi usano il nome e il nickname con maggior naturalezza, non dando, in molti casi, un peso particolare alla scelta in un senso o nell’altro. Gli influencer, ad esempio, si dividono equamente tra chi è conosciuto per nome e cognome (come Elisa Maino, top muser da milioni di seguitori) e chi per nickname (come St3pny, youtuber famosissimo).

Non ho l’età; o forse, non è l’età

Oggi è difficile fare a meno della rete, e quindi in un modo o nell’altro tutti ci dobbiamo misurare con essa. Quello che si vede prevalere, un po’ a tutti i livelli, è lo scontento.

In primis, i cacciatori della prim’ora sembrano avere qualche difficoltà nell’accettare che la rete, ormai, sia di tutti. Molto spesso fanno riferimento a un passato aureo in cui c’era, invece, una qualche selezione all’ingresso, e certe brutture non si vedevano. Il fatto che la rete non sia più appannaggio di pochi ha fatto sì che il ruolo dei cacciatori, in qualche modo, venisse ridimensionato: più che di guru, adesso, abbiamo bisogno di una maggiore enfasi sul CIQB, sul cittadino informato quanto basta (Mastroianni 2019), la nuova incarnazione del cittadino medio. Questo, però, lascia il cacciatore (passato, nel frattempo, anche dalla fase di guerriero, di guru campione della comunità) in parte senza lavoro: di conseguenza il guru vive l’iperconnessione con disagio, dato che non gli viene più riconosciuto il ruolo chiave che aveva nel sistema precedente. È quasi come se l’ex cacciatore e guerriero vivessero in uno stato di perenne disturbo da stress post-traumatico, non avendo più nulla di veramente rilevante da cacciare o da combattere: Rambo è rimasto disoccupato.

I disagiati digitali sono scontenti perché sentono, in molti casi, di non saperne abbastanza, ma non hanno nemmeno l’età o l’attitudine mentale per mettersi a imparare. Sono forse coloro che hanno sofferto di più del cambiamento del sistema mediatico, rimanendone spiazzati.

I più giovani sono frustrati dall’incapacità dei loro genitori e docenti di comprenderli e sono, di fatto, spesso senza una vera guida, dato che la generazione precedente spesso fatica a stare dietro alle loro necessità cognitive. Talvolta accade che diventino quasi dei neoluddisti perché i loro adulti di riferimento si comportano in maniera imbarazzante in rete: meglio starne fuori! (Gheno, Mastroianni 2018, 49).

Valutando vari indizi, la categoria del disagiato digitale appare relativamente trasversale alle altre due; sembra non dipendere tanto dall’età, quanto da fattori differenti. A questo proposito, alcuni studi recenti notano che la dieta multimediale, anzi, multimediatica dei giovani dipende moltissimo dall’estrazione socioculturale e dal tipo di famiglia dalla quale provengono. In altre parole, notando un pattern che appare estremamente simile alle osservazioni di Labov sulle variabili sociolinguistiche (Berruto 1995, 132-145), è stato notato che spesso i ragazzi non fanno che riprodurre online gli esempi di comportamento in rete che vedono in casa. Di conseguenza, chi proviene da un contesto socioculturale povero, deprivato, in cui il padre gioca ossessivamente a poker online e la madre passa il tempo a farsi selfie di dubbio gusto, difficilmente farà, nella sua fruizione della rete, il salto di qualità rispetto alla sua generazione di riferimento.

“Equal access does imply equal opportunities,” says the report, which goes on to point out that while anyone can use the internet to learn about the world, improve their skills or apply for a well-paid job, disadvantaged students are less likely to be aware of the opportunities that digital technology offers. (Hutt 2016)

Insomma, il fatto che appartenere anagraficamente alle generazioni digitali abbia una rilevanza relativa viene sottolineato da più parti; ad esempio, Maton e Kelvin (2008) affermano che:

“A proportion of young people are highly adept with technology and rely on it for a range of information gathering and communication activities. However, there also appears to be a significant proportion of young people who do not have the levels of access or technology skills predicted by proponents of the digital native idea. Such generalisations about a whole generation of young people thereby focus attention on technically adept students. With this comes the danger that those less interested and less able will be neglected, and that the potential impact of socio‐economic and cultural factors will be overlooked. It may be that there is as much variation within the digital native generation as between the generations”.

Certo è che mentre un adulto può avere un interesse limitato per imparare a usare meglio le proprie competenze in rete – anche se basta un solo passo falso, talvolta, per rovinarsi la reputazione, come mostrano i tanti casi di perfetti sconosciuti diventati “mostri” in un batter d’occhio a causa di un singolo post sbagliato nei toni o nella sostanza (con querelle nate e sviluppatesi anche in contesti “alti”) – le giovani generazioni hanno un problema in più: quello di entrare nell’adultità con già un bagaglio di informazioni su di sé disseminate per la rete (da loro ma anche da altri, per esempio i loro genitori), in contesti reciprocamente permeabili, in forma scritta, pubblica e soprattutto longeva. In altre parole, proporsi in rete non è una competenza collaterale, ma centrale per il mondo contemporaneo.

Il superamento della prospettiva generazionale e del mito del nativo digitale comporta l’adozione dell’idea dell’educazione digitale democratica trasversale (cfr. anche Gheno 2019c), tanto per riecheggiare il programma educativo prefigurato da Tullio De Mauro (Loiero, Marchese 2018) e dalla sua scuola, che si concretizza nel motto non uno di meno. Occorre cercare di agire su coloro che, indipendentemente dall’età, per vari motivi manifestano disagi nella loro vita digitale. Il disagio digitale, insomma, non risponde – se non parzialmente – a stratificazioni strettamente anagrafiche, ma va piuttosto a braccetto con gli analfabetismi che affliggono, oggi, la nostra società.

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