storia della tecnologia

Da Simulmatics a Meta: così il digitale ci toglie memoria e futuro



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Ripercorrere la storia della Simulmatics Corporation vuol dire arrivare all’embrione della digitalizzazione totalitaria di massa odierna. Una riflessione su come la tecnologia influisce sulla nostra percezione del tempo, sul nostro rapporto con il passato e sul modo in cui immaginiamo il futuro

Pubblicato il 13 nov 2023

Lelio Demichelis

Docente di Sociologia economica Dipartimento di Economia- Università degli Studi dell’Insubria



Investimenti digitalizzazione
(Immagine: https://pixabay.com/geralt)

Scriveva il filosofo e sociologo francofortese Theodor W. Adorno (1903-1969), nei suoi “Scritti sociologici[i]: “ Solo chi capisce che il nuovo è identico all’antico, opera al servizio di ciò che sarebbe diverso. […] L’organizzazione totale della società da parte del grande monopolio e della sua tecnica onnipresente ha occupato così completamente la realtà e la mente degli uomini che l’idea che le cose potrebbero essere in qualche modo diverse è diventata uno sforzo quasi disperato”.

Dovremmo quindi esercitare la memoria, perché solo l’esercizio della memoria, solo ricordare il passato e confrontarlo con l’oggi permette di immaginare e poi di costruire il futuro e soprattutto un futuro diverso e possibilmente migliore; e invece tutto ci porta oggi a voler dimenticare il passato, tutto è nel cloud, allo stesso tempo, quindi, noi perdendo anche il futuro.

Effetto soprattutto della tecnologia? Sì. E il caso della Simulmatics ne è la riprova. Una storia appunto dimenticata, rimossa – e invece proprio nella Simulmatics troviamo l’embrione della digitalizzazione totalitaria di massa di oggi.

Ripetizione e illusione del nuovo

Una storia inquietante. Che però ci permette di capire come e perché, davanti alla tecnologia (come davanti alle merci e ai beni di consumo e al divertimento), siamo come bambini che vogliono tutto e subito, ma anche la ripetizione e amano il sempre nuovo anche quando non lo è ma viene offerto come nuovo. Come diceva il filosofo Walter Benjamin (1892-1940), niente il bambino ama ed esige di più che l’ancora una volta. Il suo gioco è per natura infinto e comporta un’infinità di interruzioni e variazioni. La formula magica che la designa è: di nuovo. Che è appunto ciò che incessantemente produce/ingegnerizza per noi il tecno-capitalismo. Facendoci dimenticare il passato e il futuro e facendoci credere che tutto sia sempre nuovo, ma anche ripetizione. Facendoci rimanere bambini. Facendoci credere ad esempio che la cosiddetta quarta rivoluzione industriale sia tutta nuova, un autentico cambio di paradigma, nascondendoci così il fatto, incontrovertibile, che sia sempre basata sulla legge del lavoro industriale, come nella prima rivoluzione industriale e cioè suddivisione, parcellizzazione e specializzazione, per poi integrare/totalizzare meglio le parti prima suddivise; o che le piattaforme siano produzione sociale e lavoro autonomo e non la forma digitale delle vecchie fabbriche fisiche; o che l’Industria 4.0 sia tutta nuova quando è solo taylorismo digitalizzato.

Analogamente per il caso – appunto altrettanto dimenticato – della Simulmatics. Una storia che la storica Jill Lepore recupera dal passato e ci mette a portata di lettura, in questo suo libro – ne aveva accennato, in queste pagine anche Luigi Mischitelli[ii] – intitolato appunto “Simulmatics. Ascesa e caduta dell’azienda che inventò il futuro”[iii], un quasi saggio storico però romanzato o un romanzo storico densamente popolato di fatti, comunque di piacevolissima – e, come detto, inquietante – lettura.

Un libro di storia della tecnologia, dei processi di digitalizzazione del mondo e della vita, ma anche un tuffo nella storia americana (e non solo), storia sia politica (Vietnam e crisi di Cuba, elezioni presidenziali ma anche il maccartismo, i Pentagon papers, il Watergate, Arpanet), sia sociale (ad esempio la contestazione giovanile anche contro l’automazione dell’istruzione, con slogan come: “Non siamo schede [perforate] IBM. Non potete programmare le nostre menti”) e sia culturale, dagli anni Cinquanta ai Settanta, confrontati appunto con questo inizio di ventunesimo secolo. Un’azienda piccola, la Simulmatics, se paragonata ad esempio con la IBM – i suoi primi uffici “occupavano uno spazio di 150 metri quadrati (meno di un terzo dell’atrio della IBM a New York) e dentro non c’era niente di più sofisticato di una macchina da scrivere”.

Ma lasciamo al lettore attraversare questo pezzo di storia e arriviamo alle ultime pagine del libro di Lepore – docente di storia americana alla Harvard University, collaboratrice del New Yorker: “La Simulmatics Corporation è una reliquia della sua epoca, un artefatto della Guerra fredda di Eisenhower, Kennedy e Nixon […]. Ma la sua people machine fu anche ostacolata dalla sua epoca, dai limiti tecnologici che aveva […] I dati erano insufficienti, i modelli deboli, i computer lenti […] e gli scienziati comportamentali della società avevano poco senso degli affari, il suo matematico di riferimento soffriva di malattia mentale, gli informatici non erano aggiornati, il presidente beveva troppo e quasi tutti i loro matrimoni naufragarono”.

Alla fine, la Simulmatics fallì (“La macchina scoppiettò, volarono scintille ovunque, si alzò il fumo e alla fine si bloccò, con le luci che lampeggiarono disperatamente, prima di spegnersi del tutto”). E da qui appunto l’esigenza – l’urgenza – di ricostruirne la storia, di capire come il nuovo di oggi sia solo l’evoluzione di ciò che era nato e poi apparentemente abortito sessant’anni fa, che questo nuovo di oggi non è quindi nuovo ma ripete una volontà e un determinismo che è nell’essenza di quello che chiamiamo tecno-capitalismo oltre che degli scienziati e della scienza, cioè misurare, calcolare, prevedere, manipolare, ingegnerizzare e standardizzare i comportamenti umani, impedendo ogni critica e ogni possibile opposizione (da qui il conflitto strutturale tra tecnologia digitale e libertà/democrazia); ma anche ricordando, con Nietzsche che “la paura dell’incalcolabile è l’istinto segreto della scienza[iv]  ma anche, aggiungiamo, della tecnica e del capitalismo.

Il fallimento della Simulmatics avvenne comunque “non prima che i suoi scienziati riuscissero a creare una primissima versione della macchina in cui, all’inizio del ventunesimo secolo, l’umanità si sarebbe ritrovata intrappolata, una macchina che applica la scienza della guerra psicologica alle questioni della vita quotidiana di ciascuno, una macchina che manipola l’opinione, sfrutta l’attenzione, commercializza l’informazione, divide gli elettori, crea spaccature nella società, aliena gli individui e compromette la democrazia”.

Quando c’era ancora la privacy

Quanto tempo occorre – si chiedeva tempo fa Jaron Lanier, richiamato da Lepore – affinché la gente riconosca che una utopia promessa (quella della rete come comunità libera, libertaria e democratica) è diventata invece una distopia realizzata e totalitaria, portandoci oggi al capitalismo della sorveglianza? “Molto prima della pandemia e del distanziamento sociale” – risponde Lepore – “la Simulmatics contribuì all’atomizzazione del mondo” – cui poi si aggiunse il neoliberalismo e la sua esaltazione dell’egoismo e dell’egotismo individualistici.

“Iniziò tutto sessant’anni fa, con le migliori intenzioni” – continua Lepore. “Nel 1959, con l’idea di creare un’America migliore” – e anche questa è una costante della propaganda tecno-capitalista, appunto promettere sempre di rendere il mondo migliore, creare una comunità senza confini (temi ripresi ad esempio da Mark Zuckerberg), realizzando poi il contrario – “la Simulmatics sperimentò per la prima volta l’uso della simulazione al computer, l’individuazione di modelli e la previsione nelle campagne elettorali americane, segmentando l’elettorato in varie tipologie e dividendo i temi politici e sociali in gruppi, in modo da poter suggerire ai candidati quali strategie adottare. Nel 1961 applicò la tecnica della simulazione alla pubblicità, indirizzando ai consumatori già segmentati messaggi confezionati su misura. […] Tra il 1967 e il 1968, per le strade delle città americane, cercò di mettere in piedi una macchina in grado di prevedere le rivolte”. Alla fine, nel 1970, “dopo l’assassinio di Martin Luther King Jr. e di Robert Kennedy […] la people machine [un calcolatore di persone] della Simulmatics andò in rovina e dichiarò bancarotta”.

Ma dall’inizio del ventunesimo secolo – Lepore ci riporta a oggi – “la missione della Simulmatics [prevedere il comportamento umano per standardizzarlo e omologarlo meglio, e oggi abbiamo gli algoritmi predittivi e di accompagnamento, senza dimenticare l’intelligenza artificiale] sarebbe diventata la missione di molte compagnie, dalle industrie alle banche, fino ai consulenti delle forze dell’ordine [per il riconoscimento facciale, ad esempio]. Raccogliere dati, scrivere codici, individuare modelli, creare pubblicità mirata, prevedere il comportamento, orientare l’azione e il fare, incentivare il consumo, influenzare le elezioni”, tutto questo è diventato oggi assolutamente normale, normalizzato e da tutti accettato in nome del mantra teleologicamente distopico per cui l’innovazione [in realtà i profitti privati] non si può e non si deve fermare: “La campagna elettorale di Trump fu accusata di usare l’intelligenza artificiale come un’arma di propaganda e come una macchina per la manipolazione degli elettori. Nuova? Non direi” scrive Jill Lepore – “la Simulmatics aveva inventato quella macchina già nel 1959”.

A quell’epoca e negli anni seguenti molte persone, tuttavia – come ricorda l’autrice nel suo libro – “ritenevano che una people machine fosse completamente amorale”, che dovesse essere dichiarata quindi illegale. E quando, nel 1966, si propose un National Data Center di natura pubblica, molti negli Usa – anche nel Congresso – sollevarono dubbi sul rischio che questa nuova istituzione potesse compromettere la privacy dei cittadini. Da allora il mantra tecno-capitalista ha lavorato nel profondo della psiche collettiva globale tanto da farci dimenticare la privacy, i rischi della manipolazione tecnologica e i pericoli per la democrazia e la libertà. Ma già la Simulmatics aveva come scopo quello di comprendere i comportamenti umani per poterli poi modificare, ovvero scienza e tecnica lavorano da tempo per ingegnerizzare i comportamenti individuali e collettivi, per produrre l’anima/soul funzionale di cui il sistema necessita per garantirsi profitti sempre crescenti. Dimostrando cioè – ma noi non la vediamo ancora, nonostante tutte le prove che ormai abbiamo, noi tutti come bambini davanti alla tecnologia e al feticismo per sé che incorpora o che le viene assegnato dal capitale – la sua vocazione totalitaria.

Scuola e impresa, il patto diabolico

Perché certo, prevedere è necessario, è componente essenziale della ragione umana. Ma lo studio del comportamento umano per poterlo modificare, pianificare, standardizzare, sorvegliare è cosa tutta diversa – e appunto totalizzante/totalitaria – “dallo studio della diffusione di un virus, delle nuvole o del movimento delle stelle. La natura umana non segue leggi come quella della gravità, e crederlo significa prestare giuramento a una nuova religione” scrive Lepore. A quella che abbiamo chiamato religione tecno-capitalista, con una sua propria teologia non più politica ma tecnica[v]. Pratiche religiose – concorda Lepore – “che hanno inoltre segnato l’abbandono quasi totale del sapere umanistico”, con le scuole e le università che diventano non più costruttrici di conoscenza e di pensiero critico, ma fabbriche produttrici e venditrici di competenze a fare senza pensare[vi]. Come in America ai tempi della Simulmatics e ancora di più oggi a livello globale – e Lepore cita, tra i molti esempi quello del Media Lab del MIT che abbatté i confini “tra commissioni aziendali, ricerca accademica e pubblicità d’assalto”, cercando di scoraggiare ogni opposizione e critica perché “più grande era la mistificazione, più erano generosi i finanziatori”.

Scuole e università oggi non più finalizzate all’accrescimento del sapere, soprattutto umanistico, ma solo al funzionamento del sistema (con le materie STEM) e alla progressione della digitalizzazione totalitaria del mondo e della vita, con le destre conservatrici/anarco-capitaliste e le sinistre libertarie e comunitariste accomunate – paradossalmente ma non troppo, perché entrambe sono infatti figlie del positivismo ottocentesco e del mito prometeico – nella costruzione di questa distopia, anche se in nome della libertà e della tecnologia. Finalizzata in realtà a generare profitto privato cambiando la mente delle persone e quindi i loro comportamenti, siano essi consumistici o politici, se non antropologici, avendo oggi la scienza e la tecnica prodotto e ingegnerizzato una società a loro perfetta immagine e somiglianza.

Perché come ha spiegato un ex dirigente di Cambridge Analytica, citato da Lepore: “Li chiamavamo i persuadibili […]. Li bombardavamo tramite blog, siti web, articoli, video, pubblicità, tramite ogni piattaforma possibile [ed è quella che la propaganda chiama saturazione, per colpire con la propaganda l’individuo da tutti i lati, non lasciando vuoto alcuno spazio psichico potenzialmente manipolabile]. Finché non cominciavano a vedere il mondo nel modo in cui volevamo noi, finché non decidevano di votare per il nostro candidato. È come un boomerang: tu lanci i tuoi dati, quelli vengono analizzati e ti tornano indietro sotto forma di messaggi targettizzati che modificano il tuo comportamento”.

Conclusioni

E quindi concludiamo ritornando all’inizio, riprendendo ancora Jill Lepore e il tema del passato e della memoria, cioè della storia e della sua necessità per capire il presente – ma lo vogliamo capire veramente se sempre più deleghiamo alle macchine la nostra vita? Scrive Lepore: “Nella Silicon Valley del ventunesimo secolo, l’insignificanza del passato e l’inutilità della storia sono diventate oggetto di fede, una forma di arroganza esibita con gioia. L’unica cosa che conta è il futuro – ha detto nel 2018 Anthony Levandowski, ingegnere di Google. “Non so nemmeno perché studiamo la storia. È interessante, credo: i dinosauri, l’uomo di Neanderthal, la rivoluzione industriale e cose così. Ma ciò che è gia successo non ha importanza. Nel mondo della tecnologia, ciò che importa davvero è il domani”. E allora, tempi bui ci aspettano se a determinare il domani – a loro discrezione – sono uomini (o macchine umane?) come Levandowski.

Conclude Jill Lepore: “Il domani non è tutto ciò che importa. Non lo è la tecnologia, o il prossimo presidente, o il miglior cibo per cani. Ciò che importa è quello che rimane, che resiste e si conserva”. Perché solo la memoria – la storia – ci permette di restare umani. E di immaginare il futuro. Nostro, non delle macchine.

Bibliografia


[i] T. W. Adorno, “Scritti sociologici”, Einaudi, Torino, 1976

[ii] https://www.agendadigitale.eu/sicurezza/privacy/il-razzismo-dellintelligenza-artificiale-solo-una-societa-privacy-by-design-protegge-i-diritti/

[iii] J. Lepore, “Simulmatics. Ascesa e caduta dell’azienda che inventò il futuro” (trad. di C. Chiappa), Rizzoli, Milano, 2023

[iv] F. Nietzsche, “Frammenti postumi 1885-1887”, Adelphi, Milano, 1975

[v] L. Demichelis, “La religione tecno-capitalista. Dalla teologia politica alla teologia tecnica”, Mimesi, Milano, 2015

[vi] L. Demichelis, “La società-fabbrica. Digitalizzazione delle masse e human engineering”, Luiss University Press, Roma, 2023

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