Crisi, recessione, disoccupazione. Gli effetti della crisi pandemica sono e saranno pesanti, ce lo ripetono governi, economisti, mass media, imprenditori. In realtà, non dimentichiamolo, da anni già si parlava e scriveva di ‘stagnazione secolare’ (cioè una crescita modesta nonostante misure finanziarie eccezionali). Poi è arrivato Covid-19.
E allora, proprio per questo dovremmo chiederci (riprendendo il titolo di un saggio di Colin Crouch), ‘quanto capitalismo può sopportare la società’ – e aggiungiamo: l’ambiente) e da qui immaginare non solo una pioggia di miliardi su imprese e cittadini (comunque essenziali e urgentissimi, compreso un possibile ‘reddito di emergenza’ per tutti), ma una ‘riconversione’ sia economica che ambientale/green del modello economico imperante e da troppo tempo ‘lasciato libero di fare (e di fare di noi) ciò che vuole’.
Lo ha detto (e anche chi non crede, come chi scrive, dovrebbe ascoltare questo papa ‘filosofo’ e meditare sulle sue parole con molta attenzione) Papa Francesco nella sua preghiera in una piazza S. Pietro vuota e bagnata dalla pioggia, dicendoci che questa pandemia ‘sembra’ naturale ma è umana, che non è un ‘castigo divino’ ma un effetto della ‘volontà di onnipotenza’ che ci pervade: “Siamo andati avanti a tutta velocità, sentendoci forti e capaci in tutto. Non ci siamo fermati davanti ai Tuoi richiami, non ci siamo ridestati di fronte a guerre e ingiustizie planetarie, non abbiamo ascoltato il grido dei poveri, e del nostro pianeta gravemente malato. Abbiamo proseguito imperterriti, pensando di rimanere sempre sani in un mondo malato”.
Green Deal & New Deal
E allora – se l’Europa sta provando a progettare un virtuoso e sempre più necessario (ma ancora troppo parziale) ‘Green Deal’ (lo ha fatto prima dell’esplodere della pandemia, speriamo che ora non si fermi tutto), e quindi una ‘riconversione verde’ capace (pensiamo solo alla manutenzione del territorio e alla efficienza/efficacia ambientale da accrescere in ogni atto di produzione e di consumo), di generare milioni di posti di lavoro; ‘utili socialmente’ per ridurre la disoccupazione e ‘utili ecologicamente’ per farci più sostenibili verso la ‘casa comune’ – perché non immaginare anche un ‘New Deal’ sociale e culturale, sulla falsariga di quello di Roosevelt degli anni ’30 del secolo scorso (ne hanno accennato anche, pur da posizioni politiche diverse, Alfonso Gianni sul ‘manifesto’ e Mariana Mazzuccato su ‘la Repubblica’)? All’obiezione: ma non possiamo tornare indietro e usare categorie e politiche novecentesche applicandole alla realtà postmoderna e digitale di oggi – è facile rispondere che se oggi la postmodernità ci ha in realtà riportato drammaticamente indietro addirittura all’Ottocento (sfruttamento del lavoro, disuguaglianze sociali crescenti, pluslavoro di massa e prolungamento della giornata lavorativa a 24 ore, lavoro ridotto nuovamente a ‘merce’ per di più low cost, e non più ‘diritto’ dell’uomo), allora’ tornare’ agli anni Trenta del ‘900 sarebbe comunque un progresso gigantesco.
Molti, in questi giorni, ri-pensano a John Maynard Keynes, grande economista del ‘900, fautore (sintetizziamo molto, ci perdoneranno i pochi keynesiani ‘doc’ rimasti) di un ‘capitalismo sociale e redistributivo’ e a cui si sono ispirate di fatto tutte le politiche economiche dei ‘Trenta gloriosi’ europei, gli anni di grande sviluppo economico dal 1945 alla metà degli anni ’70.
Ripartire tornando a Keynes
E appunto Keynes, liberale, scriveva: “L’azione più importante dello Stato si riferisce non a quelle attività che gli individui privati esplicano già, ma a quelle funzioni che cadono al di fuori del raggio di azione degli individui, a quelle decisioni che nessuno compie se non vengono compiute dallo Stato”. E aggiungeva (era il 1924/1926, ma di attualità sconvolgente anche oggi): “I difetti lampanti dell’economia odierna sono: la sua incapacità di provvedere alla piena occupazione; e la sua distribuzione arbitraria e iniqua della ricchezza e dei redditi”. E ancora: “Il capitalismo non è intelligente, non è bello, non è giusto, non è virtuoso e non produce i beni necessari”. Inoltre, spreca deliberatamente una quantità enorme di risorse nella lotta per la concorrenza.
Keynes sosteneva quindi che fosse necessario, da parte della politica e della società, ‘guidare’ l’economia attraverso precise politiche monetarie, industriali, sociali e fiscali poiché i mercati quasi mai sono in grado di raggiungere un equilibrio efficiente. Come appunto fece Roosevelt, introducendo la figura dello ‘stato imprenditore’ (che ‘fa’ in prima persona: dighe, scuole, infrastrutture, lavori pubblici, ma anche teatri e cultura).
Oggi ci accorgiamo di nuovo – dopo avere creduto per troppo tempo che un ospedale potesse essere gestito come un’impresa privata – che salute e ambiente sono invece ‘beni pubblici’ e/o ‘beni comuni’ e che quindi, essendo di tutti, non dovrebbero mai essere privatizzati; ma che lo è pure il lavoro. E questo giustifica(va) appunto l’intervento dello Stato. Anche perché, cosa ben più grave, il capitalismo è incapace – sempre Keynes – “di garantire l’allocazione inter-temporale delle risorse, dunque solo lo Stato potrà occuparsi del nostro futuro ‘a lungo termine’”. Da qui l’esigenza di avere sì un mercato efficiente e ben funzionante, ma di averlo soprattutto fortemente regolato e finalizzato alla ‘utilità sociale’ (come recita l’articolo 41 della nostra Costituzione, ancora vigente e prescrittiva, riconfermata a furor di popolo nel 2016).
Una incapacità del mercato di autoregolarsi che si è accresciuta, diventando devastante appunto in termini sociali e ambientali, da quando il neoliberalismo (neo-liberismo americano & ordo-liberalismo tedesco) si è imposto non solo di promuovere il mercato facendolo diventare una ‘forma di vita integrale dell’uomo,’ ma di sovrapporre e di sovra-ordinare l’ordine capitalistico allo stato, annullando quindi la necessaria e doverosa distinzione e distanza/separazione tra ciò che ‘deve’ essere ‘mezzo’ (il mercato) e ciò che invece ‘deve’ essere ‘fine’, cioè appunto la società ma anche l’ambiente e la qualità della vita.
Per questo occorre pensare ‘da subito’ a un diverso modello economico – evitando di ricadere nella semplice replica/riproposizione/riverniciatura del sistema attuale.
Gli effetti del covid-19 sull’occupazione
Lo ha dimostrato l’Organizzazione internazionale del lavoro che nei giorni scorsi ha offerto una analisi cupa e pessimistica della situazione, stimando a 25 milioni il numero di disoccupati che si produrranno per la crisi economica e del lavoro causata dal Covid-19 e che si sommeranno ai 188 milioni (molto sottostimati, per la verità) di disoccupati globali già esistenti oggi nel mondo. Cifre imponenti. Non dimentichiamo però che in sette anni, partendo dal 2008, cioè l’anno della crisi finanziaria, il numero dei disoccupati nella sola Europa (prodotti non da un virus ma soprattutto dalle politiche di austerità e dal Patto di stabilità, ‘salvando’ le banche ma ‘dannando’ la società) aveva superato già quota 25 milioni (18 milioni nella sola Eurozona). Allargando il campo all’intera area Ocse, i disoccupati erano saliti a 44,7 milioni nel 2014, 10,1 in più rispetto a luglio 2008.
Nella sua nota, l’Oil ritiene tuttavia, con speranza, che se verrà adottata una risposta a livello internazionale – come accaduto, afferma, dopo la crisi economica e finanziaria mondiale del 2008 (in realtà no, come dimostrano i dati riportati sopra) – l’impatto della pandemia sulla disoccupazione potrebbe essere inferiore al temuto ed esserlo in modo significativo. Comunque, e soprattutto, sono necessarie, per l’Organizzazione, misure urgenti, agendo su tre fronti:
- proteggere i lavoratori sul luogo di lavoro;
- stimolare l’economia e l’occupazione;
- sostenere il lavoro e il reddito.
A crescere sarà tuttavia anche o soprattutto (sempre l’Oil) la sottoccupazione “poiché le conseguenze economiche della pandemia si traducono nella riduzione delle ore di lavoro e dei salari. Il calo dell’occupazione causerà conseguentemente grandi perdite di reddito per i lavoratori (…) stimate tra 860 e 3.400 miliardi di dollari americani entro la fine del 2020. Ciò si tradurrà in una riduzione dei consumi di beni e servizi che, a loro volta, impatteranno sulle imprese e le economie…”. Un circolo vizioso, se non corretto e rovesciato. Anche la ‘povertà lavorativa’ dovrebbe aumentare poiché “l’impatto sui redditi derivante dal declino dell’attività economica avrà effetti devastanti per i lavoratori e le lavoratrici che hanno un reddito prossimo o inferiore alla soglia di povertà”.
Crisi sommata a crisi
Sottoccupazione, precarietà lavorativa e di vita, lavoratori poveri, impoverimento generalizzato delle società. E disuguaglianze crescenti. Ma questo era vero anche ‘prima’ del Covid-19. Disuguaglianze che non sono state infatti un ‘accidente della storia’ quanto (Joseph Stiglitz, premio Nobel per l’Economia del 2001) una ‘scelta politica’ deliberata, perseguita con determinazione e ostinazione appunto dal neoliberalismo imperante in questi ultimi trent’anni e soprattutto negli ultimi dieci, attraverso la flessibilizzazione/precarizzazione del lavoro e della vita umana.
Pensiamo allora ai rider/ciclo-fattorini, la cui sicurezza ha registrato ulteriori minimi storici. Pensiamo al blocco delle imprese: inizialmente (ma anche poi) con troppe eccezioni. Pensiamo al riemergere, di nuovo, del conflitto tra economia e salute. Pensiamo a certe azioni imprenditoriali decisamente negative e prive di ‘responsabilità sociale’, con imprese che invece di assumersi il doveroso ‘rischio d’impresa’, lo scaricano sulla parte debole del contratto di lavoro: Quantas che lascia a terra 20mila dipendenti senza stipendio; Google dove si è accresciuta la differenza/disuguaglianza tra lavoratori tutelati – gli FTEs, cioè full-time employees – e gli oltre 135mila esterni/esternalizzati – la sua extended workforce.
Ma pensiamo invece agli esempi positivi: quello di Rana (maggiorazione dello stipendio del 25% per ogni giorno lavorato e un ticket mensile straordinario di 400 euro per le spese di baby-sitting, in più una polizza assicurativa a favore di tutti i dipendenti, compresi quelli in smart-working, in caso di contagio da Covid-19); di Thun (negozi chiusi fino a maggio, ma con stipendi al 100% per i dipendenti); o di Enel con 35mila dipendenti che lavorano online – per non citare che alcuni esempi virtuosi e socialmente responsabili, il cui numero, fortunatamente, si accresce di giorno in giorno. Ma pensiamo anche alle molte imprese che hanno saputo riconvertirsi rapidamente.
Il lavoro materiale e il corpo ritrovato
Quello che la pandemia ha portato in luce è però anche molto altro. Ha scritto il collega Marco Revelli: “Vorrà pur dire qualcosa il fatto che mentre tutti sono costretti a ‘restare a casa’ – anzi, a ‘chiudersi in casa’ – gli unici a dover ‘uscire’ siano i lavoratori. O meglio, i ‘lavoratori manuali’. Anzi, diciamola pure la parola obsoleta: gli operai. E quelli che come loro lavorano con le mani”. E commentava: “Ora, nella gran massa di cose che il coronavirus ha spazzato via in pochi giorni c’è anche quella falsa credenza, vero e proprio luogo comune delle retoriche neoliberiste, secondo cui il lavoro manuale sarebbe un residuo del passato. Marginale e poco rilevante”. Tutti convinti che le nostre società ‘avanzate’ vadano avanti nella loro marcia veloce solo in ben altri luoghi rispetto alle officine e alle strade, cioè “nelle towers della banca e dell’alta finanza, nelle ZTL della comunicazione e della creatività, dell’intrattenimento e della produzione di denaro per mezzo di denaro”.
E proseguiva, con toni radicali ma corretti: “Ora, con la brutalità di una natura feroce, il virus ci dice che non è così. Che tutto quello che avevamo posto al vertice della piramide sociale è in realtà ‘accessorio’. E che il ‘bene del paese’ è affidato a quell’esercito di paria, che tutti i giorni sono costretti a esporre il proprio corpo – nei vagoni stipati della metropolitana, su bus contingentati ma pieni nelle ore di ingresso e uscita dalle fabbriche, sui furgoni della rete logistica che credevamo consistesse in un algoritmo ma che in realtà funziona ‘a sudore’, nei reparti delle fabbriche ad avvitare bulloni o produrre mascherine o anche solo a mantenere in vita le filiere della committenza internazionale: costretti a esporre il proprio corpo perché, appunto, lavorano col ‘corpo’. (…) È tutta una gerarchia sociale che si rovescia”. Processi su cui dovrebbero riflettere i molti che in questi giorni vaneggiano di un nuovo ‘umanesimo digitale’ – è la ‘favola’ che i ‘tecnofili a prescindere’ raccontano dagli anni ’90 quando promettevano che ‘grazie alle nuove tecnologie avremmo lavorato meno, fatto meno fatica e avuto più tempo libero’: il fatto che sia accaduto l’esatto contrario dovrebbe farci discernere meglio tra favole e realtà.
‘Carpe diem’, cogliamo l’attimo
Questa pandemia sia allora e piuttosto davvero l’occasione per ripensare umanisticamente anche al lavoro e alle persone che lavorano: ad esempio cancellando, per legge tutte le forme di flessibilizzazione/precarizzazione del lavoro esistenti e imponendo per tutti il contratto di lavoro a tempo indeterminato (il lavoro come ‘diritto’) e, insieme, il ritorno a politiche di perseguimento della piena occupazione; perché, scriveva un altro grande liberale inglese – non un comunista – del ‘900, William Beveridge: “lo Stato deve sempre tutelare in primo luogo la parte debole del rapporto di lavoro e promuovere la piena occupazione”.
Questa sia cioè l’occasione – ‘cogliamo l’attimo’ – per ripensare radicalmente il nostro modello sempre più insostenibile di crescita e di consumo, modello che con la pandemia e con i modi con cui si è diffusa ha molto a che fare. Le due cose ‘si tengono’, infatti, molto più di quanto vogliamo ammettere. Ripensando quindi soprattutto al ruolo dello Stato in economia, ricordando appunto Keynes.
Se il presidente Mattarella ha detto giustamente che questa crisi è analoga a quella del secondo dopoguerra e ha invocato un’Europa non più egoista, ebbene da quella crisi si era usciti appunto (non solo ma) soprattutto grazie a politiche economiche keynesiane.
Di regolamentazione dei mercati e di ‘programmazione economica’ (parola oggi sconosciuta ai più) – e non di promozione/estensione/liberalizzazione dei mercati come ci ha imposto il neoliberalismo di oggi. I ‘falchi’ europei neo-liberali (tedeschi ma ancora di più olandesi), sono invece drammaticamente (per noi e per l’Europa) incapaci di fare autocritica e, come tutti gli integralisti, incapaci di fare i conti con la realtà: pensiamo al conflitto sui coronabonds; alla voglia di molti ordo-liberali di tornare al più presto alle regole del Patto di Stabilità (“quello stupido patto tedesco”, lo aveva definito Prodi e che ha imposto di tagliare la spesa sanitaria e di privatizzare il welfare; portando negli ultimi anni la Commissione ad emettere ben 63 ‘Raccomandazioni’ in tal senso); o di legare gli aiuti e i prestiti a nuove ‘riforme strutturali’ (‘strutturali’ per il capitalismo; ‘destrutturanti’ per la società e l’ambiente).
Draghi for President?
“Una tragedia di proporzioni bibliche”, ha scritto l’ex presidente della Bce, Mario Draghi. Non solo per la perdita di vite umane, ma anche per le conseguenze economiche. I governi devono quindi mobilitare tutte le risorse disponibili, non importa se il costo è l’aumento del debito pubblico perché, l’alternativa, “una distruzione permanente della capacità produttiva e quindi fiscale, sarebbe ancora più dannosa per l’economia” e in futuro per la credibilità del governo. “In primo luogo bisogna evitare che le persone perdano il loro lavoro”, altrimenti “emergeremo dalla crisi con un livello di occupazione stabilmente più basso”, e le famiglie faranno fatica a ritrovare un loro equilibrio finanziario. Per questo bisogna immettere liquidità nel sistema e le banche devono “prestare danaro a costo zero alle imprese” per aiutarle a salvare i posti di lavoro. Subito: “i costi dell’esitazione potrebbero essere irreversibili”.
Qualcuno ha proposto ‘Draghi for President’. Ma per quanto abbia fatto (moltissime) cose egregie e salvato l’Euro, anche lui si è sempre considerato (come la stessa Bce) un ordo-liberale. Ed è stato parte attiva del ‘sistema’ che – a colpi di ‘riforme strutturali’ e di ‘privatizzazioni’ – ha devastato l’Europa sociale e poi la Grecia, appunto ben prima del coronavirus. Il ‘sistema’ chiede ora (di nuovo!) allo Stato di salvarlo e di salvare il lavoro perché ne ha riscoperto l’importanza.
Ma per salvare società/socialità, responsabilità, diritti, ambiente e future generazioni, abbiamo bisogno di ben altro che di agire su finanza e banche e imprese private e cassa integrazione. Abbiamo bisogno di ‘Green’ e ‘New Deal’ – il vero ‘nuovo’ – e meno di Industria 4.0 (che è troppo spesso il ‘vecchio’ taylorismo, anche se riverniciato di digitale). E di un’Europa – almeno – (neo)keynesiana; e non più neo-liberale.
Soprattutto servono idee nuove e di rottura rispetto al passato recente: come fece Roosevelt. E non ci serve un banchiere o un populista (entrambi sempre e comunque neo-liberali) per uscire dalla ‘doppia crisi’ (secondo il grande sociologo Luciano Gallino) del capitalismo e dell’ambiente; cui ora si aggiunge quella indotta dal coronavirus.