Avevamo accettato il lockdown per necessità, ma soprattutto per responsabilità: verso noi stessi (non contagiarci e morire con un alto tasso di probabilità), e verso gli altri (non contagiarli, facendoci untori del Covid-19). Avevamo riscoperto buone pratiche etiche chiamate responsabilità e solidarietà. Riscoprivamo i nostri figli e la loro esistenza e presenza. Si accettava di stare chiusi in casa e si riorganizzava la vita – e il lavoro, via home-working, però tanto simile al lavoro a domicilio ottocentesco (a parte le “nuove” tecnologie) – ci mettevamo in coda per andare al supermercato a fare la spesa, mentre molti riscoprivano i negozi di prossimità e i social erano utilizzati anche per raccontare storie ai bambini. E soprattutto, riscoprivamo un altro modo di vivere il tempo. E le meduse tornavano a Venezia, il cielo e le acque dei fiumi (persino quelle del Sarno!) si facevano più pulite, ci stupiva il silenzio delle città e magari iniziavamo a leggere un buon libro.
La responsabilità e la solidarietà
Ovvero e giustamente si applicava la regola: prima la vita, poi l’economia; e lo Stato (ma in democrazia lo Stato siamo noi) imponeva la sua autorità applicando – certo con molte difficoltà e molte carenze di organizzazione (dovute in primo luogo ai tagli che il neoliberalismo ha imposto negli ultimi decenni alla sanità pubblica a favore di quella privata, dimostratasi poi sostanzialmente assente durante l’emergenza) – i principi scritti nella Costituzione. Due in particolare: quello per il quale (articolo 31), “La Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività…”; e quello per cui (articolo 41) “L’iniziativa economica privata è libera, ma non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale…” – dove è evidente che la tutela della salute è una delle forme massime di utilità sociale, a cui l’economia privata deve necessariamente e doverosamente subordinarsi.
Poi (in realtà quasi da subito – e semplifichiamo un po’ per motivi di spazio) industriali e politici irresponsabili – con la correità di molti mass-media e di molti falsi libertari e il contorno di fake news e di complottisti/negazionisti di vario genere – hanno iniziato a sostenere che l’economia non poteva fermarsi e che le mascherine erano una intollerabile museruola. E così si sono progressivamente riaperte le fabbriche, sia pure imponendo forme di controllo e di tutela delle persone. Ma poi si è aggiunto, in una progressione di tecniche di soft power utilizzate per raggiungere lo scopo, che stava arrivando l’estate e non si poteva certo far morire l’industria del turismo e quella del divertimento che tanto peso hanno sul Pil, quindi bisognava tornare a produrre e a consumare e a muoversi e anche a divertirsi come prima, dopo tutte le pene esistenziali del lockdown.
E più passavano i giorni e sempre più vani e inascoltati si rivelavano gli inviti – compreso, modestamente il nostro, anche su queste pagine – di cogliere invece la pandemia come l’occasione giusta per ripensare radicalmente l’intero modello tecno-capitalista. Che se non l’ha prodotta direttamente, certo ha favorito la diffusione della pandemia; ma che, sicuramente e soprattutto è responsabile diretto del mutamento climatico e della crisi ecologica.
Liberi tutti. E divertiamoci
È cresciuta così una richiesta di “liberi tutti”, confortata dal progressivo calo dei contagi e dei ricoveri e della mortalità. E in brevissimo tempo siamo passati dalla responsabilità e dalla solidarietà, all’egoismo più sfrenato, ad un collettivo “me ne frego” degli altri e di me stesso (“sapevo che andare al mare in Croazia era rischioso, ma l’ho fatto lo stesso”), l’egoismo e il narcisismo vissuti come inalienabili diritti individuali e considerati ora ben superiori e prioritari rispetto alla tutela della vita – come quello di poter rimettere un po’ di adrenalina e dopamina nella propria vita, nel lockdown essendo andati in una non più sopportabile crisi di astinenza. Così comportandosi come i giovani che si lanciano nell’acqua del lago da un ponte vicino a Lecco: “Prendo la rincorsa e mi butto. L’adrenalina che si prova non si può spiegare. Sappiamo che è pericoloso, ma un tuffo nel vuoto di una quindicina di metri è come volare, ne vale la pena. Guardi gli altri che si tuffano e alla fine li segui, anche se sai che qualcuno non è più riemerso, perché l’emozione e la voglia di superare il limite sono più forti della paura”.
Certo: i giovani, gli ormoni, la voglia di trasgressione… tutte cose conosciute dalla psicoanalisi. Ma non è stato un comportamento solo giovanile/adolescenziale. E così, movide affollate, vacanze in spiagge senza distanziamento, discoteche senza mascherine (poi magari giustificandosi con un: “Noi tutti positivi dopo le nottate sull’isola. Ma non abbiamo fatto nulla di illegale” – manifestando così una assoluta mancanza di senso di responsabilità e di maturità/autonomia esistenziale), assembramenti nelle piazze. Come se avessimo un bisogno impellente e ormai incontenibile appunto di trasgressione, di eccezionalità rispetto alla normalità del lockdown e di socialità fisica – evidentemente non bastandoci la dopamina generata dai like dei social e l’adrenalina offerta dai videogiochi, ottenute stando chiusi in casa.
La psiche umana e la voglia di adrenalina/dopamina
Qualcosa di umano, certo, perché la nostra psiche e i nostri comportamenti sociali/a-sociali vivono (ma ne muoiono anche) di questo nostro alternarsi esistenziale tra obbedienza e dis-obbedienza, tra regole/responsabilità per il bene di tutti e voglia di trasgressione/nichilismo individualistico, tra autonomia/solidarietà ed eteronomia/bisogno di gregge, tra principio di realtà (la pandemia) e principio di piacere (il divertimento) da soddisfare sempre più in fretta, compulsivamente e coattivamente.
Ma è la velocità con cui si sono rovesciati i nostri comportamenti sociali e morali a lasciare sconcertati. Se dopo quello che potremmo definire il lockdown esistenziale e fisico durato 5 anni dei nostri padri e nonni nella seconda guerra mondiale sono occorsi 15 anni di duro lavoro per diventare società consumistica e per poter andare al mare a divertirsi con la 600, consumando firmando cambiali; se dopo il decennio triste degli anni ‘70 (due crisi petrolifere, stagflazione, domeniche a piedi e circolazione a targhe alterne, Natale senza luminarie, la televisione spenta alle 22.30) sono bastati poco più di 5 anni al sistema consumistico e tecnologico per farci arrivare alla società edonistica delle televisioni commerciali e del “Drive In” e alla società del divertimento, dell’iper-consumo e alle “nuove” tecnologie per farci dimenticare/rimuovere la tristezza e farci consumare più di prima, ora in neppure 6 mesi siamo passati appunto dalla responsabilità alla irresponsabilità, all’eteronomia e al conformismo di gregge (“in spiaggia eravamo solo noi con la mascherina e alla fine l’abbiamo tolta”); dalla consapevolezza della gravità della pandemia alla sua totale rimozione/sottovalutazione di massa. Perché – così siamo indotti a pensare – se il virus si è fatto più contagioso ma meno pericoloso si può accettare il rischio del contagio – e poco importa se scende l’età media dei contagiati e sono i giovani che contagiano genitori e nonni; oggi poi non si muore quasi più e ci si ammala perfino senza sintomi; in fondo il Covid-19 sembra trasformarsi in una sorta di influenza… Ovvero, ci si adatta e prima si trasgredisce e ci si diverte e poi si corre a fare il tampone.
È una forma di esercizio del potere che ha in verità radici antiche: dal panem et circenses degli antichi romani alle discoteche/movide di oggi, passando per il “Grande Inquisitore” di Dostoevskij (“noi che siamo il potere li faremo lavorare; ma poi li faremo anche divertire, organizzando per loro spettacoli, feste e giochi di bimbi…”). Ma che oggi è molto più pervasiva e di massa rispetto a ieri.
Perché tutto resti come prima
E così i contagi sono ovviamente risaliti. Grazie al prevalere delle logiche dell’economia su quelle della salute.
D’altra parte, era ben evidente da quasi-subito che il lockdown (e le buone pratiche di responsabilità e di solidarietà connesse) non potevano reggere a lungo, essendo in conflitto strutturale con il funzionamento del capitalismo: che “se ne frega” della società e dell’ambiente perché il profitto si genera solo producendo e poi facendo consumare anche divertimento, trasgressione, vacanze, movide, discoteche. Ed è da quasi mezzo secolo (in realtà il processo inizia tre secoli fa con l’avvio della rivoluzione industriale, ma esplode negli ultimi decenni) che veniamo formattati/addestrati/ingegnerizzati a vivere secondo una ideologia neoliberale per la quale “la società non esiste, esistono solo gli individui”; ideologia che produce un individuo asociale, narcisista/solipsista e de-socializzato (quindi più facilmente integrabile/sussumibile in un sistema e in un social); individuo che è il baricentro/idolo e insieme la merce/feticcio prodotta incessantemente del sistema per la propria infinita riproducibilità – un individuo su cui, offrendogli una libertà del tutto illusoria e facendogli dimenticare che l’io esiste solo se esiste anche un noi, il neoliberalismo ha costruito la propria egemonia; e da una ideologia tecno-capitalista dove la stessa tecnica promette a ciascuno di (credere di) poter essere assolutamente e totalmente libero e creativo (una falsa promessa, perché quanto più sono integrato/connesso in/con un sistema/rete, meno sono realmente libero – e i social sono imprese private finalizzate a massimizzare il profitto per sé producendo in noi la giusta dose di dopamina e non certo a favorire la socialità umana, anche se la sfruttano abilmente).
Dove l’imperativo categorico che dobbiamo introiettare sempre più, fino a farlo diventare automatismo e appunto normalità di vita è quello – nuovamente adrenalinico – di dover superare ogni limite – proprio come i ragazzi che si lanciano nel vuoto nel lago, in competizione con sé stessi e con gli altri.
E capitalismo e tecnica (il tecno-capitalismo è un sistema che vive producendo e vendendo non solo merci ma soprattutto e sempre più emozioni) – hanno facilmente sfruttato, per accrescere il proprio plusvalore, questa ambivalenza della psiche umana semmai potenziandola offrendosi come principio di piacere (e anche questo è la realtà virtuale) che rimuove il principio di realtà, ma anche la solidarietà, la responsabilità, l’eticità dei comportamenti e il rispetto degli altri e dell’ambiente: perché la loro deliberata e pianificata rimozione era ed è finalizzata a far funzionare al massimo della sua produttività il sistema industriale (di nuovo: superare ogni limite), di cui la rete è oggi la sublimazione – e di cui social e turismo, movide e discoteche e divertimento sono reparti produttivi integrati, sempre più in lean production, in just in sequence e a tempi-ciclo sempre più intensi; di cui noi siamo forza lavoro a pluslavoro crescente e insieme mezzo di produzione e di riproduzione del sistema.
Un sistema per cui anche il nuovo catalogo Ikea deve diventare una notizia da pubblicare sui mass-media (sic!); e dove l’esigenza (che sarebbe) sempre più urgente di cambiare radicalmente questo modello economico e consumistico ecologicamente e socialmente insostenibile – ovvero: “mai più come prima” – viene rovesciata nello slogan della Coca Cola: “ci saremo, come mai prima”, perché in realtà tutto resti come prima.
La grande rimozione
Rifiutiamo oggi l’autorità dello Stato e la responsabilità verso gli altri, senza capire che la trasgressione e il divertimento e lo svago che cerchiamo sono in realtà offerti/prodotti e soprattutto industrializzati (sono merci da far consumare) dal sistema industriale-capitalistico, cioè dalla nuova autorità che governa – ben più dello Stato – le nostre vite. Il lock-down confliggeva con questa industrializzazione incessante e crescente della nostra vita: doveva essere quindi rimosso per tornare a fare/vivere/divertirsi come prima della pandemia. Ma rifiutando le regole e la responsabilità in nome della trasgressione e del consumo (della libertà individuale), svendiamo in realtà la nostra libertà al mercato e al sistema industriale e alla forma industriale che sta imponendo all’intera società. Di cui noi siamo tutti proletari, però felici di esserlo – perché indotti a una falsa felicità dalla dopamina che il sistema produce per noi e dall’adrenalina che attiva in noi.
Dall’autorità dello Stato all’autorità del Mercato
E soprattutto, è la crisi climatica e ambientale che il sistema vuole far dimenticare/rimuovere. Oggi dobbiamo divertici, non pensare. Per questo stiamo tornando alla normalità sistemica di prima del Coronavirus, attraverso micro-comportamenti individuali funzionali a tornare come prima. Ma è una normalità folle, ha scritto George Monbiot sul “Guardian”. Perché certo, “tutti vorremmo lasciarci alle spalle la pandemia con i suoi effetti devastanti sulla salute fisica e mentale, l’esasperazione della solitudine, la chiusura delle scuole e il crollo dell’occupazione”, ma tornare alla normalità di prima, come chiedono i governi e soprattutto il capitalismo “significherebbe aggravare la crisi più assurda e profonda con cui l’umanità si sia mai misurata: il crollo dei sistemi ecologici che ne garantiscono la sopravvivenza”.
Eppure – e nonostante i sondaggi dicano che la grande maggioranza della gente vorrebbe uscire dalla crisi puntando su economia verde e sostenibilità – sembriamo tutti, nei comportamenti concreti adottati, felici di poter tornare come prima, a una normalità comunque divertente e deresponsabilizzante, felicemente e irresponsabilmente assoggettandoci a quello che un altro editorialista del “Guardian”, Mark O’Connell ha definito “il lento atrofizzarsi dell’immaginazione morale”. Cioè, “la normalità”, aggiunge Monbiot, “è un concetto usato per limitare l’immaginazione morale”. E invece, “non c’è” – non deve esserci – “una normalità a cui poter tornare o da desiderare. Viviamo in un’epoca anomala, che esige risposte anomale”. Dove non basta limitarsi a resettare il tecno-capitalismo, come sostiene il “FT”.
E però: che siano soprattutto i giovani a voler tornare a prima del Covid-19 – proprio quei giovani che dovrebbero essere invece esistenzialmente portati all’innovazione e al cambiamento – rende tutto, fatte le debite eccezioni, tremendamente difficile.
Ci serve dunque e in fretta un: “Mai più come prima”. E non certo, lo slogan della Coca Cola…