Dai giorni della Guerra Fredda alla moderna intelligenza artificiale, la tecnologia militare ha subito cambiamenti radicali. Mentre le armi nucleari garantivano un fragile equilibrio, oggi l’automazione e la guerra cibernetica ridefiniscono le strategie militari, sollevando preoccupazioni internazionali.
Dall’atomica alla guerra fredda: la deterrenza nucleare
La distruzione e le decine di migliaia di vittime delle bombe a fissione di tipo A sganciate su Hiroshima e Nagasaki nel 1945 non hanno fermato lo sviluppo della tecnologia atomica in un mondo che da quel momento fu a lungo segnato dal contrasto bipolare USA-URSS.
Se nell’immediato dopoguerra gli Stati Uniti hanno goduto di un importante vantaggio strategico in quanto unica superpotenza nucleare, capace di una risposta immediata a un qualsiasi attacco, nell’ultimo scorcio degli anni Quaranta questa supremazia andò sfumando, quando l’Unione Sovietica, che fino ad allora aveva sofferto condizioni di ricerca e sperimentazione più arretrate, testò la sua prima bomba atomica nel poligono di Semipalatinsk, nel cuore della Repubblica Kazaka. È l’inizio della corsa agli armamenti, che inaugura un nuovo capitolo della Guerra Fredda tra i due blocchi, iniziata già all’indomani dell’epilogo del conflitto mondiale.
Il manifesto Russell-Einstein: pacifismo e armi nucleari
Di fronte a un deciso cambiamento di passo nelle strategie militari, alla proliferazione nucleare e allo sviluppo americano nei primi anni Cinquanta della bomba all’idrogeno o bomba H a fusione – un’arma ancora più distruttiva della A –, in una parola al rischio concreto di un’apocalisse, a muoversi è il filosofo inglese Bertrand Russell, allora ottantatreenne, che scrive al settantaseienne Albert Einstein per «aprire gli occhi ai governi sui disastri che possono verificarsi» in seguito a quell’accelerazione che pareva incontrollata. Insieme ad altre nove autorevoli firme, il 9 luglio 1955 i due pubblicano un documento conosciuto come il Manifesto Russell-Einstein, assunto immediatamente a bandiera del pensiero pacifista mondiale e capace di provocare una forte scossa morale oltre che un effetto tabù rispetto alle armi e alla guerra nucleari, come più volte rimarcato dallo storico americano Lawrence S. Wittner.
In tale dichiarazione si chiede da una parte al consesso degli scienziati di riunirsi e valutare i pericoli conseguenti allo sviluppo delle armi di distruzione di massa, e dall’altra agli uomini tutti, al di là dell’appartenenza a una nazione o a una fede religiosa, di accantonare le proprie convinzioni e pensarsi appartenenti a un’unica specie biologica degna di essere salvaguardata dallo sterminio.
Non c’è scelta: arrendersi all’idea della fine della razza umana o rinunciare alla guerra e accordarsi su una riduzione degli armamenti come primo passo necessario verso un progresso di felicità, conoscenza e saggezza.
L’invito a sottoscrivere la risoluzione finale è rivolto a Congresso, scienziati e persone comuni: «In considerazione del fatto che in una qualsiasi guerra futura saranno certamente usate armi nucleari e che queste armi minacciano la continuazione dell’esistenza umana, noi invitiamo i governi del mondo a rendersi conto, e a dichiararlo pubblicamente, che il loro scopo non può essere ottenuto con una guerra mondiale, e li invitiamo di conseguenza a trovare i mezzi pacifici per la soluzione di tutti i loro motivi di contesa».
Equilibrio del terrore e crisi nucleari
Nonostante alcuni importanti effetti pratici derivati dal Manifesto, tra cui la nascita del movimento internazionale Pugwash Conferences on Science and World Affairs, teso a favorire il dialogo e contribuire al disarmo, prevarrà in quei decenni il concetto dell’“equilibrio del terrore”, uno dei più paradossali paradigmi della politica internazionale moderna che guidò le sorti del mondo con alterno andamento fino al 1991, anno della dissoluzione dell’URSS, influenzando politiche, alleanze e diplomazie. È la strategia della deterrenza nucleare tra i blocchi USA e URSS, in base alla quale la potenza dei rispettivi arsenali, entrambi smisurati, avrebbe dissuaso entrambe le parti da un attacco atomico per il terrore della distruzione reciproca e del mondo intero. Una stabilità, questa, che si fonda non su un intento di pace bensì su una pericolosa minaccia bellica che non prevede vittoria per nessuno dei contendenti.
Nella realtà storica, le relazioni tra Stati Uniti e URSS conobbero tentativi di distensione già dalla seconda metà degli anni Cinquanta, a fronte, però, di alcuni momenti di grave crisi come la costruzione del muro di Berlino o la crisi missilistica di Cuba del 1962, il momento in cui probabilmente si è stati più vicini proprio a un conflitto nucleare mondiale.
La strategia della “risposta flessibile”
Era il tempo in cui l’amministrazione Kennedy (1961-1963) aveva abbracciato la strategia della “risposta flessibile” o “guerra nucleare limitata”, già suggerita da un giovane Henry Kissinger nel suo studio Nuclear Weapons and Foreign Policy del 1957. Si teorizzò che la politica non dovesse cessare laddove iniziasse la guerra e che, per limitare una risposta nucleare automatica, si dovesse prendere in considerazione una gradualità di intervento, dalla forza convenzionale all’uso delle armi tattiche e, solo come ultima eventualità, delle armi strategiche, commisurando la risposta alla natura e alla gravità della minaccia.
Una dissuasione di questo tipo comportava collateralmente l’impegno a mantenere efficiente e ad ammodernare l’arsenale nucleare tattico, che differisce da quello strategico, che ha essenzialmente funzione di deterrenza, per minore potenza e minore gittata ed è destinato all’uso sul campo di battaglia per colpire obiettivi specifici.
Ma si trattò solamente di una parentesi, perché presto si tornò a idee più aggressive di annientamento reciproco con la MAD, “Mutual Assured Destruction”, una definizione postuma del 1969 di Donald G. Brennan dell’Hudson Institute che, con evidente gioco di parole, trasformò spregiativamente il nome “Assured Destruction” assegnato qualche anno prima dall’allora Segretario della Difesa americano Robert S. McNamara alla strategia basata sulla “capacità di distruggere l’aggressore come società vitale”, colpendolo nei centri urbani – con un annientamento di almeno il 30% della popolazione – e nell’economia industriale – con una distruzione di almeno il 50% delle infrastrutture.
A distanza di settant’anni dalla pubblicazione del Manifesto di Einstein-Russell, dopo un periodo di apparente distensione seguito alla fine della Guerra Fredda, le proposizioni che esso contiene suonano terribilmente attuali in un mondo in cui si non solo si è arrestato il processo di disarmo atomico avviato nell’ultimo scorcio del secolo scorso, ma sta aumentando il numero delle potenze nucleari, tra ufficiali e non ufficiali. Se è vero che qualche passo in avanti si sta compiendo, come l’entrata in vigore, il 22 gennaio del 2021, del Trattato per la proibizione delle armi nucleari, la minaccia viene rinnovata a ogni conflitto insorgente. Non ultimo quello tra Russia e Ucraina, con il recente intervento del presidente russo Vladimir Putin che, in risposta al permesso statunitense incassato da Kiev di utilizzare missili a lungo raggio, ha aggiornato la dottrina nucleare del suo Paese con un decreto sulla deterrenza in base al quale sarà consentito il ricorso alle armi nucleari anche nel caso in cui Russia e Bielorussia vengano attaccate con armi convenzionali, se saranno messe in pericolo le rispettive sovranità o integrità territoriali.
Nuove tecnologie: dalla cybersicurezza all’intelligenza artificiale
Al di là della minaccia nucleare, oggi il mondo deve misurarsi anche con nuove tecnologie belliche, destinate in un prossimo futuro a incidere profondamente sui rapporti di forza. Oltre ai missili ipersonici che possono montare bombe convenzionali e non-convenzionali, le armi anti-satellite in via di sviluppo o le armi a energia diretta basate sull’uso di laser ad alta energia o microonde ad alto potenziale, nei conflitti hanno fatto la loro comparsa l’Intelligenza Artificiale, la guerra cibernetica, la robotica, i veicoli terrestri senza equipaggio e i droni. I molteplici scenari dei conflitti in atto, in particolare il fronte russo-ucraino, hanno accelerato lo sviluppo di questi sistemi in chiave sia offensiva sia difensiva, andando oltretutto a incidere in modo sostanziale sul rapporto tra soldato e tecnologia, non solo perché la velocità di analisi e intervento dei sistemi robotizzati è infinitamente maggiore rispetto a quella umana ma anche perché questi, quando guidati da avanzati algoritmi di intelligenza artificiale, sono predisposti a decisioni autonome (LAWS, ovvero “Lethal Autonomous Weapons Systems”).
Ciò sta portando alla globale evidenza la necessità di una seria riflessione su questioni di sicurezza, su aspetti etici e legali giacché, se da una parte le nuove tecnologie assicurano minori rischi per le truppe in campo, d’altro canto esiste la concreta possibilità di errate decisioni su selezione e attacco del bersaglio con conseguenze non prevedibili e violazioni del diritto internazionale. E però la tecnologia sta avanzando molto più celermente dei negoziati multilaterali che la riguardano. Il Gruppo di Lavoro degli Esperti Governativi sui LAWS, attivo nell’ambito della Convenzione su certe armi convenzionali (CCW), presenterà le proprie conclusioni in proposito solo alla prossima Conferenza di Riesame nel 2026, mentre l’Assemblea ONU del novembre 2024 ha discusso e promulgato, dopo quella della scorso anno, una nuova Risoluzione (votata a favore da 161 Stati, 3 contrari e 13 astensioni) sulla base dell’articolato Rapporto del Segretario Generale delle Nazioni Unite Antonio Guterres, nel quale questo tipo di sistema di armamento viene definito “politicamente inaccettabile e moralmente ripugnante”.
La Risoluzione estende il dibattito al 2025 al fine di favorire una più ampia comprensione del fenomeno, utile a gettare le basi per un solido Trattato internazionale che dovrà essere uno strumento giuridicamente vincolante. Le preoccupazioni sollevate dell’Assemblea, che ha rimarcato l’importanza del ruolo degli esseri umani nell’uso della forza, riguardano essenzialmente le «conseguenze negative e l’impatto dei sistemi d’arma autonomi sulla sicurezza globale e sulla stabilità regionale e internazionale, compreso il rischio di una corsa agli armamenti emergente, di esacerbare i conflitti esistenti e le crisi umanitarie, di errori di calcolo, di abbassare la soglia e l’escalation dei conflitti e di proliferazione, anche a destinatari non autorizzati e ad attori non statali».
La corsa all’intelligenza artificiale
L’intelligenza artificiale è il motore di questo processo di automazione. «L’intelligenza artificiale è il futuro. […] Chiunque sarà il leader in questo campo diventerà il padrone del mondo» ebbe a dire in occasione dell’apertura dell’anno scolastico 2017-2018 il presidente russo Vladimir Putin, una dichiarazione ripresa da Elon Musk – oggi figura di spicco dell’entrante amministrazione Trump – in un tweet nel quale si asseriva che la competizione tra le nazioni per la superiorità in questo campo potrà causare la Terza guerra mondiale. Da qualche anno la IA, attualmente annoverata tra le tecnologie che la NATO definisce “emergenti e dirompenti” (Eemerging and Disruptive Technologies, ovvero EDT), si è effettivamente trasformata da oggetto di ricerca per gli scienziati della Silicon Valley a formidabile strumento geopolitico, sempre più al centro degli equilibri del potere.
Già utilizzata sugli scenari di guerra di Siria, Iraq e Yemen, successivamente i programmi del suo sviluppo, ai quali non sono estranee le Big Tech, sono diventati sistemici per impieghi militari e sicurezza nazionale, con Paesi come Cina, Stati Uniti, Russia, Israele, Iran e Corea del Sud che contano ormai su arsenali ampiamenti dotati di cyberweapons. Anche gli investimenti crescono, con il rischio concreto di disordine internazionale ed escalation involontarie, in un clima che assomiglia a nuova Guerra Fredda.
Il ritorno dell’antagonismo tra grandi potenze
D’altronde non sono pochi gli studiosi, tra tutti il teorico del “realismo offensivo” John Mearsheimer, che prefigurano per il futuro il ritorno dell’antagonismo tra grandi potenze, e la cosiddetta Revolution in Military Affairs, cioè l’intreccio tra progressi tecnologici e nuovi modelli e dottrine militari, è tema di dibattito serrato tra gli specialisti di mezzo mondo.
Il nodo ricorre anche in incontri istituzionali ad alto livello, come quello dello scorso novembre a Lima, in Perù, tra il presidente uscente Joe Biden e il suo omologo cinese Xi Jinping, che hanno trattato, e non era la prima volta, proprio dell’utilizzo dell’intelligenza artificiale in ambito militare, in merito al quale i due leader si sono detti in accordo sulla necessità di politiche prudenti e responsabili, che mantengano sotto il controllo umano la supervisione e la decisione sul ricorso alle armi nucleari. Sul comunicato congiunto non sono pervenuti commenti russi e, al momento, non è possibile prevedere l’atteggiamento che assumerà l’amministrazione trumpiana in proposito.
Oltre che sulla macro-questione nucleare, le autorità mondiali sono chiamate a focalizzare l’attenzione su applicazioni minori generate dalle nuove tecnologie, come i dispositivi per il riconoscimento facciale, con i quali non solo sono stati recentemente individuati militari nordcoreani dietro le linee nel Donetsk, per fare solo un esempio, ma che già equipaggiano droni come il Kargu-2 di fabbricazione turca, utilizzato sullo scenario libico e in grado di viaggiare e colpire in modo del tutto autonomo dopo che nel software siano state inserite le coordinate o il profilo biometrico del bersaglio. È in questo stesso scenario che si innesta il ricorso alle esplosioni di cercapersone e walkie-talkie, probabilmente armati da Israele, contro gli esponenti Hezbollah, segno che la digital tranformation può incidere anche su mezzi antiquati e, in generale, ridefinire i confini della guerra ibrida.
L’arma della propaganda nell’era digitale
Nella guerra ibrida dell’era digitale, un ruolo di assoluto primo piano è rivestito dall’arma strategica della propaganda, già nel passato determinante sull’andamento dei conflitti e da qualche decennio ancor più, giacché le informazioni non sono più appannaggio di governi o di gruppi ristretti ma passano per un web aperto e altri canali di comunicazione multimediale, ampiamente capaci di manipolazione sulla costruzione della “memoria pubblica” data la loro pervasività e l’attitudine a penetrare in profondità nel tessuto delle masse (a livello nazionale, del Paese nemico o internazionale), orientandone i convincimenti o amplificandone le convinzioni. Se già nel 1997 Umberto Eco scriveva: «I media fanno parte della guerra e dei suoi strumenti e quindi è pericoloso considerarli territorio neutro» in un momento storico in cui, dopo la Guerra del Golfo del 1991, la televisione con le sue precise scelte di narrazione era ormai diventata una leva formidabile sull’opinione pubblica, oggi il canale propagandistico si è decisamente complicato, essendo praticamente chiunque in grado di diffondere notizie, vere o false che siano.
L’infodemia relativa al conflitto russo-ucraino
Emblematico il caso dell’infodemia relativa al conflitto russo-ucraino, un vero e proprio diluvio di informazioni più o meno rispondenti alla realtà, che richiede un considerevole sforzo di ponderazione critica per discernere tra fonti autorevoli e fonti eterodirette o ideologizzate.
Secondo gli ultimi report del Centro di monitoraggio della disinformazione proprio su questo conflitto, promossi da NewsGuard, sarebbero oltre 630 i siti che pubblicano disinformazione sul tema, tra i quali anche fonti ufficiali. Il monitoraggio rivela che la propaganda filorussa, diretta sia all’interno sia all’esterno del Paese, diffonde comunicazioni che perlopiù negano le atrocità commesse, accusano la leadership e la società ucraina di ideologia nazista, insinuano l’idea di un genocidio perpetrato dagli ucraini ai danni delle comunità di lingua russa del Donbass, affermano che i militari ucraini usano i civili come scudi umani, ingigantiscono i successi militari russi, imbastiscono argomentazioni ad arte per generare l’idea che sia impossibile determinare una verità dei fatti, fino a negare che la Russia abbia mai attaccato l’Ucraina (dichiarazione del ministro Serghei Lavrov del 10 marzo 2022, in occasione di un incontro con il suo omologo ucraino Dmytro Kuleba ad Antalya, in Turchia).
Da parte della propaganda ucraina si esalta l’eroismo dei propri combattenti e si insiste sulla crudeltà dei russi, si svilisce la cultura russa, si continua con l’irrisione degli apparati militari russi che vengono descritti come arretrati e disorganizzati, si inventano fantomatici prodi dei cieli che annientano i nemici, si insiste sulle presunte debolezze fisiche e psichiche del presidente Putin. «In ogni conflitto c’è una nebbia di guerra che colpisce tutti coloro che hanno accesso alle fonti di comunicazione.
E al giorno d’oggi, questo significa tutti noi» ha affermato Benjamin Strick, direttore al Centre for Information Resilience, un’organizzazione indipendente con sede a Londra che monitora le campagne di disinformazione.
Anche questo altro non è che uno dei fattori paradossali di ogni guerra.