l'approfondimento

Dall’infosfera alla biosfera, passando per il virus: ecco cos’è (davvero) il web

Il Web, lo sappiamo, è una rete, dunque una sfera, ma è tutt’altro che ovvio stabilire che la stoffa di cui è intessuta sia composta primariamente da informazioni. Una disamina dei tre cerchi concentrici – Infosfera, Docusfera, Biosfera – per rispondere alla domanda “Cosa è il Web?”

Pubblicato il 29 Set 2020

Maurizio Ferraris

professore ordinario di filosofia teoretica presso la Facoltà di Lettere e Filosofia dell'Università degli Studi di Torino

digitale

Va riconosciuto a Luciano Floridi l’enorme merito di essere riuscito a sensibilizzare l’opinione pubblica sul fatto che il Web è un problema filosofico di primaria grandezza. Per parte mia, lo considero il problema fondamentale del nostro tempo, esattamente come il capitale industriale all’epoca di Marx. Sono tuttavia persuaso che per fondare questa centralità la concezione del Web come infosfera, ossia come uno spazio di pura informazione (sia pure concepita nell’accezione più vasta possibile) sia insufficiente. E dunque cercherò di definire il Web con una accezione più ampia e comprensiva, fatta di cerchi concentrici.

Il primo, e il più manifesto, è per l’appunto costituito dalla infosfera: è indiscutibile, nel Web si producono, raccolgono e distribuiscono delle informazioni.

Il secondo, meno evidente, ma molto più importante, è quello che chiamo “docusfera”. La condizione perché ci siano delle informazioni è che queste siano registrate, ossia costituiscano dei documenti (questo non è assolutamente il caso di qualunque tipo di informazione: la radio, il telefono e la televisione, a metà del secolo scorso, erano indubbiamente una infosfera, ma non una docusfera: non lasciavano tracce se non nella labile memoria degli utenti). Erano cioè apparati di comunicazione e non di registrazione. Definendo “infosfera” ciò che è a tutti gli effetti una docusfera, ossia un ambito di documenti, ci lasciamo sfuggire il carattere distintivo della società prodotta del web, una società della registrazione prima che della comunicazione, per il semplice motivo che il tratto saliente del digitale rispetto all’analogico sta nel fatto che in quest’ultimo la registrazione può (anche se non necessariamente deve) seguire la comunicazione, mentre nel digitale la registrazione è logicamente, tecnologicamente e ontologicamente preliminare alla comunicazione.

Il terzo, che a mio parere è il punto davvero qualificante, è che questa docusfera non registra principalmente idee e informazioni, ma atti, comportamenti, gesti e bisogni che sono dettati dal fatto che siamo organismi, sottoposti a metabolismo e perciò dotati di intenzioni, di tempi, di fini – tutto ciò che manca a un meccanismo. Dunque, il vero movente, e il vero padrone della situazione, che dà il tempo e lo scopo, è la vita. E ci ricorda perciò che la grande rivoluzione in corso non ci sta portando su una nuvola di informazione lontana dalla vita, ma genera una biosfera più potente, presente e determinante di ogni biosfera che l’ha preceduta. Per rispondere dunque alla domanda “Cosa è il Web?” procederò all’esame dei tre cerchi concentrici: Infosfera, Docusfera, Biosfera, con una immancabile (dati i tempi) coda sul virus, che da traslato tecnologico è tornato a essere un proprio biologico, del resto insegnandoci che la differenza tra vita e tecnica, organismo e meccanismo, è più complessa e ricca di insegnamenti di quanto non avremmo potuto pensare sino a non molto tempo fa.

Infosfera

È limitativo concepire il Web come una infosfera perché ciò che raccoglie sono comportamenti che non costituiscono immediatamente informazione, e che hanno a che fare molto più con la vita che non con il sapere. Se non parlo l’ungherese, di un libro in ungherese posso solo dire che è un libro. Non molto, come informazione. Per la maggior parte degli utenti, il Web è – nella stragrande maggioranza delle sue funzioni davvero decisive, quelle legate alla raccolta e al calcolo dei comportamenti – un libro in ungherese, ed è una autentica infosfera solo per chi parla l’ungherese, ossia, fuor di metafora, per chi dispone degli strumenti di archiviazione, calcolo e informazione.

Gli antenati dell’infosfera

L’infosfera ha un pedigree di tutto rispetto. La noesis noeseos di Aristotele, l’intelletto unico degli averroisti, gli ideali enciclopedici di Wolff, Diderot e d’Alembert, il Sapere Assoluto di Hegel e, più prossimamente, in General Intellect di Marx, la noosfera di Pierre Teilhard de Chardin o il “terzo regno”, quello del pensiero, di Frege o di Popper. Ma con una differenza essenziale, e cioè che (tranne nel caso del General Intellect di Marx) in tutti gli altri esempi abbiamo a che fare con delle ipotesi teleologiche o con delle proposte tecnologiche. Per tutti i filosofi che ho menzionato, tranne Marx, l’infosfera è un ideale teleologico, una ipotesi speculativa per cui i singoli e limitati pensieri che ognuno di noi ha dipendono da un dominio generale universalmente valido (2 + 2 fa 4 non perché lo penso io, ma perché è così in generale). A loro volta, gli enciclopedisti cercano di fornire una versione mondana di questo intelletto, in forma di sapere positivo, ma sono ben consapevoli del fatto che, come disse Borges, è vero che anche la più modesta delle enciclopedie è più colta del più dotto tra i suoi compilatori, ma che si tratta solo di un modo di dire: il compilatore sa qualcosa, poco o tanto che sia; l’enciclopedia non sa niente.

Questa circostanza non è priva di conseguenze indesiderate e politicamente problematiche. Secondando l’ipotesi del General Intellect, ossia del fatto che la tecnica genera una infosfera, i teorici del capitalismo cognitivo hanno sostenuto che i lavoratori sarebbero diventati così colti da non aver bisogno del capitale per produrre valore. È ovviamente avvenuto il contrario: il capitale non ha bisogno dei lavoratori per produrre valore, li manda tutti a casa, e produce sempre più valore avvalendosi non della loro intelligenza, ma dei loro bisogni e consumi, che vengono certo a costituire una infosfera, ma limitata a coloro che sono capaci di interpretare i dati. A voler essere apocalittici, ma non troppo, questa infosfera non è un pleroma che circonda l’umanità, una “sfera di riflessione, di invenzione consapevole e di anime coscienti” come la noosfera di Teilhard de Chardin, bensì un circolo di poche decine di persone basate principalmente nell’area di San Francisco.

Panglossismo

Insomma, parlare di Infosfera e di Capitale semantico è un caso di panglossismo. Il capitale semantico è strutturalmente, e non da oggi, soggetto alla minaccia delle fake news (una biblioteca è in gran parte un ammasso di fake news) e della sottoutilizzazione, e non solo per le mene di un Capitale che vuole privatizzarlo o nasconderlo, ma semplicemente per lo scarsissimo interesse che l’umanità ha per la cultura (anche qui, basta andare in biblioteca e constatare quanto sia facile trovare un posto libero).

Il panglossismo più grave, poi, sta nel considerare il regno dell’informazione un regno dell’intelligenza. Ovviamente essere informati non significa essere intelligenti e soprattutto l’intelligenza collettiva non è una intelligenza – a meno che si voglia interpretare anche una biblioteca come una forma di intelligenza collettiva, mentre è ovviamente un supporto tecnico a delle intelligenze individuali. La conoscenza può benissimo essere privatizzata, perché non è immediatamente accessibile e intelligibile: non abbiamo a che fare con una crescita di conoscenza, perché ciò che si incrementa è la registrazione, non l’informazione. Inoltre, diversamente dalla ricchezza, che può anche essere usata da un imbecille, la conoscenza è redditizia solo se adoperata da una persona intelligente.

Secondo il Frammento sulle macchine, la crescita di informazioni avrebbe distrutto il capitalismo diffondendo la conoscenza tra i lavoratori. I teorici del capitalismo cognitivo considerano che l’abbondanza della informazione, attualmente, è troppo elevata e a un prezzo troppo basso perché possa sopravvivere un modello basato sulla proprietà privata. Si apre infatti un conflitto tra la conoscenza (che è illimitata) e la proprietà (che è limitata), e la conoscenza avrà la meglio sulla proprietà. Si tratta di un errore fatale. Il capitale documediale non è così unilateralmente interessato ai soldi come il capitale finanziario, ma non è nemmeno così dotto e consapevole come nel quadro dipinto dagli amici del capitalismo cognitivo. Sicuramente, è molto più informato e curioso di quanto non lo sia il capitale finanziario. Il capitale documediale rivela così due aspetti rilevanti. Il primo è che gli amici del capitale finanziario non considerano che la moneta è memoria, e più precisamente una forma molto primitiva e sintetica di memoria, che ha dunque uno svantaggio competitivo evidente rispetto a memorie più potenti e analitiche. Il secondo, ampiamente sottovalutato dagli amici del capitalismo cognitivo, è che il capitale, prima che di “conoscenze” è fatto di documenti, ossia di registrazioni di atti. Nella riflessione sulla intelligenza artificiale si è formato dunque un equivoco che dipende da due elementi.

Il primo è l’antropomorfismo per cui quando si parla di “intelligenza artificiale” ci si rappresenta una sorta di riproduzione dell’intelletto umano che include caratteristiche come ad esempio la finalità, la volontà di potenza, il desiderio e la speranza. Nasce da questo equivoco il timore, così ricorrente nel discorso pubblico di una presa del potere da parte del computer.

Il secondo equivoco, che in qualche misura è complementare, nasce dal fatto che l’intelligenza artificiale, assimilata all’intelligenza umana, genererebbe una forma di intelletto generale e condiviso, un sapere assoluto nato dalla interazione uomo-macchina. Questa visione può declinarsi sia in forma euforica, come avveniva quando il Web mosse i suoi primi passi, sia nella forma disforica, oggi prevalente, per cui il Web, in quanto intelligenza collettiva, diventerebbe una grande macchina di controllo e di spionaggio. Entrambe le visioni sono fuorvianti. L’intelligenza artificiale, infatti, non mira alla comprensione e a ciò che ne deriva, finalità e volontà di potenza compresa, bensì alla automazione di processi. Un grande archivio e una enorme capacità di calcolo divengono capaci di surrogare tutto ciò – ed è moltissimo – che nell’umano e meccanico, trasformando tutto il lavoro vivo in un lavoro morto incorporato nella macchina.

Ciò che offre l’intelligenza artificiale non è dunque una intelligenza ma una capitalizzazione che di per sé non ha nulla di cognitivo. La capitalizzazione è l’accumulo di risorse, non necessariamente finanziarie, che si oppone alla ridistribuzione, cioè all’uso periodico delle risorse in questione. Ciò che è realmente interessante, nel caso del sapere, così come in quello della competenza tecnologica, è che ridistribuzione e uso non si contrappongono. Tutto ciò che l’umanità ha appreso in termini di comprensione e di competenza può essere adoperato senza che il capitale venga intaccato, E anzi incrementandolo ulteriormente. La sola condizione perché ciò avvenga è il possesso di buoni strumenti di registrazione che consentono insieme capitalizzazione e ridistribuzione.

Il fatto che le registrazioni abbiano luogo in una rete interconnessa e possano avvalersi dell’apporto di una enorme quantità di utenti umani, permette altresì una capitalizzazione del servizio, che trasferisce all’economia in generale una caratteristica che precedentemente apparteneva soltanto all’economia della conoscenza. Il fatto che una idea, diversamente da un oggetto fisico, resti in possesso di chi l’ha data, caratterizza tutti gli scambi che hanno luogo nella sfera dell’intelligenza artificiale. Rispetto alla tradizionale economia della conoscenza, tuttavia, l’incremento della registrazione in rete permette non solo di conservare l’oggetto che viene trasferito all’utente, ma di trasformare l’utente in un fornitore di oggetti che, nel suo caso, non gli ritorneranno più. Se io fornisco una informazione al sistema di traduzione di Google potrò certo beneficiarne successivamente, ma non ne sono più in possesso, perché si trattava di un sapere implicito che Google ha reso esplicito, conferendo al sistema una conoscenza che trascende quella dell’utente. È una situazione simile a quella in cui si trovavano i nativi nei loro rapporti con gli antropologi, che scrivevano libri rendendo esplicite e trasformando in conoscenze accademicamente utili le consuetudini di vita dei nativi. Se tuttavia erano gli antropologi che dovevano andarsi a cercarsi i nativi, qui la situazione estremamente più conveniente, perché, proseguendo nel paragone, sono i nativi che cercano gli antropologi e che pagano per gli strumenti che permettono loro di ottenere informazioni apparentemente gratuite (da questo punto di vista, il paragone più calzante potrebbe essere non quello dell’antropologo, ma quello dello psicoanalista).

Rivoluzione copernicana

Ho parlato di “registrazione”, e il punto cruciale è proprio questo. L’informazione è solo un effetto secondario del Web, e la vera forza motrice che lo anima non è l’informazione, bensì la registrazione, che nel Web, attraverso il processo di spacchettamento dei documenti, è prioritaria rispetto alla informazione. In altri termini, se nell’epoca precedente il Web la registrazione era un atto successivo alla comunicazione (che poteva anche non aver luogo), ora ogni comunicazione suppone una registrazione, e questa è la causa prima della esplosione della registrazione che ha caratterizzato le tecnologie digitali così come la loro pervasività, il fatto cioè che ogni tecnologia si presti alla digitalizzazione. La manipolazione tecnologica richiede la costanza degli elementi manipolati e la fissazione dei movimenti prodotti dalla manipolazione.

Occorre dunque una rivoluzione copernicana. Ben più che produrre informazioni, il Web registra atti e genera documenti. Significativamente, nell’analisi del Web si è a lungo trascurata questa circostanza cruciale, tanto che oggi si confrontano un Web tolemaico (che non tiene conto della priorità della registrazione) e un Web copernicano (che ne tiene conto).

Il web tolemaico interpreta se stesso come una tecnologia della informazione, cioè come la semplice evoluzione digitale della televisione del tipo amnesico dominante nella metà del secolo scorso. Lo stesso acronimo ICT, che designa le tecnologie del web, è eloquente sotto questo profilo: Information and Communication Technologies. Si è così fatto del mondo documediale un mondo “virtuale”, un mondo dietro al mondo, o una rappresentazione del mondo, in cui si potesse svolgere una seconda vita immaginaria. Se applicata al web, questa concezione interpreta la società documediale come una società liquida, in cui si danno appuntamento le idee, e non come il campo di una vita che – se non è “solitaria, povera, brutta, brutale, breve”, d’accordo con l’immagine della vita dell’uomo fuori della società secondo Hobbes: e saremo gli ultimi a lamentarcene – di certo è più faticosa, meno informata e meno trasparente di quanto si vorrebbe. Quando i social network e i servizi informatizzati hanno chiarito che si trattava invece del mondo reale, dell’unico che c’è, si è ribadito che il web costituiva una infosfera, cioè di un ambito di informazione e non, prima di tutto, di azione.

Nella visione tolemaica si trascura il fatto, decisivo, per cui tutto quello che ha luogo sul web è archiviazione prima che comunicazione. Questo è il tratto davvero essenziale, metafisicamente parlando: il web non è né un mondo di sogno, né una sfera di parole al vento: è appunto ciò che tra poco caratterizzerò come “docusfera”, un ambito che, attraverso una capacità di registrazione senza precedenti, crea documenti.

Il web non è una rappresentazione della società, bensì un pezzo sempre più grande della società, in quanto per l’appunto la società si compone di oggetti sociali come atti registrati, e la registrazione ha oggi luogo in modo sempre crescente sul web. Infatti il web è molto più che una super-televisione che sposta e comunica informazioni passivamente ricevute dall’utente. Il web registra e archivia, e mentre nei casi della parola e dei vecchi media ci può essere comunicazione senza archiviazione (la registrazione si perde), con l’avvento della scrittura, così come del web e dei nuovi media che ne dipendono, la registrazione è preliminare alla comunicazione e se dunque non si dà comunicazione senza archiviazione è facilissimo ottenere archiviazione senza comunicazione.

La rivoluzione copernicana nel Web evidenzia sei caratteristiche fondamentali:

  • il web è anzitutto registrazione, e non solo comunicazione; funziona non come una televisione, ma come un archivio;
  • è azione e performatività prima che informazione, non si limita ad accumulare conoscenza, ma definisce uno spazio in cui hanno luogo atti sociali come promesse, impegni, ordini;
  • è reale prima che virtuale, ossia non è una semplice estensione immateriale della realtà sociale, ma si definisce come lo spazio elettivo per la costruzione della realtà sociale;
  • è mobilitazione prima che emancipazione, ossia non fornisce immediatamente liberazione (come si credeva quando il web mosse i suoi primi passi) né semplicemente si configura come uno strumento di dominio, ma è piuttosto un apparato che mobilita, ossia fa compiere delle azioni;
  • è emergenza molto più che costruzione, nel senso che non è il progetto deliberato di qualcuno, ma piuttosto il risultato di molte componenti che sono venute convergendo in forma non programmatica;
  • infine, è opacità e non trasparenza, ossia non si chiarisce da solo (gli umani agiscono e interagiscono, però nella stragrande maggioranza dei casi non conoscono i princìpi che li guidano) ma, al contrario, chiede di essere chiarito, anche in questo caso rivelando uno stretto isomorfismo con la realtà sociale, e in particolare con quella sua punta emersa che è il capitale. Sviluppo rapidamente questi punti prima di passare alla trattazione della Docusfera che, in base a quanto sto sostenendo, costituisce una interpretazione del Web più veridica della Infosfera.

Registrazione

La condizione di possibilità del Web è l’esplosione della registrazione, il fatto che in linea di principio ogni atto della vita possa essere registrato. In questo senso, è lo strumento di una rivoluzione documediale, che consiste nella proliferazione dei documenti (prodotti in automatico, dunque in una quantità clamorosa) e nella orizzontalizzazione dei media (che non procedono più da uno a molti, ma da molti a molti).

Più precisamente, la rivoluzione in corso nasce dunque dall’incontro, reso possibile dal web, tra la forza costitutiva dei documenti, la possibilità di produrli automaticamente, e l’orizzontalizzazione delle comunicazioni nei social media. Non ci sono mai stati così tanti documenti, e la medialità, sempre in forza della esplosione della registrazione, determina un passaggio da una comunicazione monodirezionale (da un emittente a molti riceventi) a una comunicazione bidirezionale e polidirezionale (ogni ricevente è un potenziale emittente).

Nella storia umana non è mai stato così facile registrare né farlo in maniera più economica, automatica, ubiqua. Ogni nostro atto sociale, anche minimo, è potenzialmente registrato sul web. Una umanità abituata a vivere con una scarsità di documenti ora ne dispone in un modo sovrabbondante. Questa rivoluzione trasforma il mondo con la stessa forza che la rivoluzione industriale. Ma ne è radicalmente differente, e se non ce ne accorgiamo è perché non ne abbiamo ancora riconosciuto le caratteristiche essenziali, e in particolare la natura del capitale che sta alla sua base.

Siamo passati dalla strutturale penuria di documenti a una sovrabbondanza che non ha precedenti nella storia, e questo nuovo assetto si è manifestato come la vera essenza del capitale, che ora è capace di operare senza residui, capitalizzando l’interazione sociale, gli atti registrati che hanno luogo sul Web, e che divengono valore potenziale per il Capitale Documediale. Quest’ultimo non è più un capitale ristretto, riferito a un ambito particolare, quale era il caso del capitale commerciale, industriale e finanziario (nei quali peraltro era osservabile la forma di una progressiva generalizzazione) bensì con un capitale generale.

Azione

Guardare al web non significa occuparsi di tecnica più di quanto guardare al Palazzo dello sport significhi interessarsi di sport. Si tratta di occuparsi di umanità: molto prima che essere un animale razionale (la psicologia del pensiero, oltre che l’economia e la vita quotidiana, rivelano quanto poco siamo naturalmente razionali), e un animale sociale (la socialità sembra una imposizione, sempre precaria, dettata da esigenze evolutive), l’uomo è un animale mobilitato, e proprio attraverso questa mobilitazione accede alla razionalità e alla socialità, ma lo fa in una forma non sovrana, bensì sottomessa e subalterna. Molto prima di ragionare, agiamo. E soprattutto agiamo senza ragionare nella maggior parte della nostra vita. L’ontologia dell’essere sociale è una ontologia della azione molto più che una epistemologia della riflessione. Ecco perché sia le interpretazioni dei comportamenti umani in termini di razionalità sia le teorie circa l’incidenza degli schemi concettuali sulla realtà non spiegano i nostri comportamenti. Capire l’umano non è guardare al suo interno (secondo l’ipotesi della introspezione), né semplicemente studiarne i comportamenti (secondo l’ipotesi del behaviorismo): è capire che cosa lo mobilita. Debole per natura, bisognosa di cure parentali per tempi enormemente più lunghi delle altre specie animali, la specie umana non ha inventato solo la tecnica e la cultura, ma anzitutto la mobilitazione, la disponibilità a una strategia complessa che comporta la memoria, la responsabilità, il differimento temporale. È qui che va cercata l’origine di fenomeni come la religione, l’economia, il diritto, il conflitto militare.

Non è mai stato necessario capire per agire, e oggi meno che mai. Di qui l’equivoco fondamentale di coloro che hanno visto nel Web una intelligenza collettiva. Il Web non è un catalogo di idee, ma di azioni registrate.

Nel Web assistiamo minimamente a una crescita della conoscenza. Proprio al contrario, c’è un passaggio dalla comprensione alla competenza, dalla epistemologia alla tecnologia. Non c’è bisogno di sapere che cos’è la matematica per fare dei conti, non c’è bisogno di sapere che cos’è la politica per elaborare dei dati. In questo emerge una profonda verità. Non c’è bisogno di sapere quello che si fa per fare con successo. Non c’è bisogno di conoscere la matematica per fare calcoli complessi; soprattutto non c’è bisogno di conoscere i principi per realizzare compiti con successo (come insegnano le interazioni sociali: “non sanno quello che fanno, ma lo fanno”, diceva Marx riproponendo il tema dell’astuzia della ragione); e, ancor più, non c’è bisogno di conoscere le regole del proprio funzionamento per rispondere ai bisogni della natura. La comprensione è un lusso, la competenza una necessità, e nel passaggio dalla comprensione alla competenza la rivoluzione documediale attua una enorme economia. Sapere il significato di quello che si fa, in termini di prestazione, è una gran perdita di tempo e peggiora la resa. La cosiddetta “intelligenza artificiale” fa tesoro (è il caso di dirlo) di questa circostanza.

Realtà

C’è un senso in cui, progressivamente, il Web si può trasformare nella mappa dell’impero 1:1 di cui ci parla Borges. Il che di nuovo depone contro l’ipotesi della infosfera, dal momento che una mappa grande quanto il territorio è scarsamente informativa per gli utenti non attrezzati con grandi capacità di calcolo. C’è tuttavia un aspetto del territorio che si sottrae strutturalmente alla mappa. Come abbiamo detto, quelle che vengono registrate sono delle azioni, che hanno dunque alla loro base degli organismi che sono motivati da spinte biologiche le quali, nel caso degli organismi umani, si trasformano in atti sociali. È proprio questo ciò che viene capitalizzato dal Web, e che va riconosciuto come produzione di valore.

Buona parte della realtà sociale ha origini inaccessibili a qualunque ricostruzione. Noi possiamo semplicemente ipotizzare che nel lungo percorso evolutivo che ci porta dalla vita animale alla vita sociale ci siano stati momenti, probabilmente con una gradualità che ha richiesto migliaia di anni, che non si è ancora conclusa e di cui sappiamo ben poco, in cui si è progressivamente attuato il passaggio dalla natura alla cultura. Ma tutto quello che ci è noto dell’umanità ce la presenta (del tutto ovviamente, visto che il concetto di una umanità allo stato di natura è contraddittorio) come già dotata di norme sociali che si applicano alla intenzionalità collettiva, che dunque non può essere vista come l’origine della normatività, bensì come un suo effetto. Noi non siamo costruttori di significati. Nel migliore dei casi ne siamo dei recettori e, nella maggior parte dei casi, gli esecutori passivi. Seguiamo la regola “ciecamente”, ecco il tratto caratteristico del nostro rapporto con il mondo sociale. E se dalla generica astrazione “uomo” veniamo alla molteplicità degli uomini e, soprattutto, degli oggetti sociali che questi ultimi producono incessantemente, vediamo quanto poco sia vero il detto vichiano secondo cui la società è trasparente perché è opera umana, e quanto vero sia, viceversa, l’altro detto vichiano homo non intelligendo fit omnia.

Mobilitazione

Proprio come il capitale documediale consiste anzitutto in registrazione, e non in informazione (che richiede interpretazione), così le azioni che lo producono sono molto più mobilitazione (che non richiede intelligenza) che non intellezione.

La rivoluzione documediale comporta un passaggio dal lavoro alla mobilitazione, che – come vedremo nel prossimo capitolo – svela l’arcano delle merci ma suscita un nuovo arcano, che questa volta riguarda il lavoro. Le persone lavorano (producono valore) attraverso la loro mobilitazione sul web. Si genera dunque uno sfruttamento, di cui però i soli responsabili, un senso stretto, sono gli sfruttati, cioè noialtri, mandanti principali della nostra mobilitazione. Questa circostanza sta alla base del disagio sociale contemporaneo, che è paradossale, dal momento che, come cercherò di dimostrare, questa è l’epoca più egalitaria e soddisfacente che la storia umana abbia conosciuto sin qui.

Ecco il grande mistero della nostra epoca. Mentre pensiamo di vivere la nostra vita extra-lavorativa, di soddisfare i nostri bisogni, di inseguire i nostri desideri e di esprimere le nostre idee, surroghiamo le funzioni di banche, giornali, pubblicità e agenzie di viaggi. Soprattutto, stiamo riempiendo archivi sconosciuti con dossier dettagliatissimi sui nostri gusti e i nostri guai, sulle nostre abitudini e sugli strappi alla regola che ci rendono imprevedibili per chi non li conosce (cioè anche per noi stessi).

Se il capitale industriale consisteva nella forza lavoro (retribuita) e nei mezzi di produzione (messi a disposizione dal capitalista) il capitale documediale consiste nella mobilitazione (non retribuita) e nei mezzi di registrazione di questa mobilitazione (comprati dai mobilitati). Quello che il capitalista documediale mette di suo sono i mezzi di interpretazione, che costituiscono realmente gli strumenti di un capitale cognitivo che, però, non consiste, come si potrebbe pensare, in una conoscenza diffusa ma, proprio al contrario, trae vantaggio dalla conoscenza centralizzata e riservata di una mobilitazione totale degli utenti.

Emergenza

Il web è una grande forma di emergenza, esattamente come l’eusocialità delle termiti o la civiltà egizia, e diversamente dall’Io penso kantiano, che viceversa è la costruzione di un singolo pensatore. Rispetto alle emergenze remote, il web ha l’enorme vantaggio di essersi sviluppato sotto i nostri occhi. Dunque non richiede congetture: ciò che il web è divenuto, sorprendendo coloro che lo hanno progettato, occupa un periodo storico breve e perfettamente controllabile, di cui io, per esempio, sono stato testimone oculare. Più telefonini che umani. Metà dell’umanità sul web. 64.000.000.000 di e-mail al giorno. 22.000.000 tweet. 1.000.000 di post. L’espressione “World Wide Web” può essere presa alla lettera, dal momento che il web rappresenta un modello attendibile del mondo sociale – uno spaccato di una umanità globalizzata e non più eurocentrica, e che nel giro di pochi anni è destinata a crescere e forse addirittura a saturare la totalità degli spazi sociali del pianeta.

La visione tolemaica propone la direzione Umanità Società Tecnica. Da una definizione dell’umano (animale razionale, animale sociale) si ricavano i caratteri del mondo sociale e del mondo tecnologico, concepiti il primo come una costruzione dell’umano, il secondo come una estensione dell’umano. Viceversa, la rivoluzione copernicana, che poggia sull’emergenza, propone la direzione Tecnica Società Umanità. Se vuoi conoscere l’anima dell’uomo, devi partire dalla società in cui vive; ma se vuoi capire in che società vive, quali siano gli dei a cui sacrifica, devi capire quali sono le tecniche di cui dispone (e che molto spesso dispongono di lui).

Opacità

Il senso comune contemporaneo vuole che ci troviamo in un’epoca neoliberista, nozione vaga con cui si assume, erroneamente, che il capitale non trovi altra regola se non nel profitto e nel consumo illimitato delle risorse. Questa concezione ha due versioni: il capitale finanziario e il capitale cognitivo. Esaminiamo anzitutto il capitale finanziario. Per i suoi amici, l’essenza del capitale è oggi costituita dal capitalismo finanziario, in nome del vantaggio insuperabile che la rendita ha rispetto al lavoro. Gli amici del capitale finanziario comprendono con chiarezza il ruolo dei documenti nella costruzione della realtà sociale, e dunque del capitale, ma non ne traggono la conclusione che l’avvenire del capitale non è finanziario, ma documediale. La seconda versione è quella degli amici del capitalismo cognitivo che propongono un progetto alternativo. Attuando quanto previsto da Marx, lo sviluppo dell’automazione fa sì che il capitale, oggi, non sia più mobilitazione di forza lavoro, ma di conoscenza, quella dei lavoratori che regolano i processi lavorativi, diventando così un General Intellect (visione riproposta con l’idea della intelligenza collettiva del Web).

Ma qui sorge, per gli amici del capitale cognitivo, un problema non meno grave di quello che affligge gli amici del capitale finanziario. L’intelletto generale, per loro, va inteso come un intelletto vero e proprio, non come un’opera d’intelletto o come un testo risultante dalle interazioni. L’immagine è più vera di quanto probabilmente non pensino gli amici del capitalismo cognitivo. Questi ultimi infatti si rappresentano il capitale come una sfera che comprende al proprio interno gli intelletti particolari dalla cui unione emerge un intelletto generale, ma questa non è la descrizione di un intelletto vero e proprio, bensì quella di un’opera di ingegno collettiva (poniamo, l’Iliade in quanto frutto del “genio del popolo greco”, ossia di tanti intelletti che nelle generazioni hanno dato vita all’opera quale la conosciamo). Se invece – come ritengono gli amici del capitalismo cognitivo – l’intelletto collettivo va rappresentato come un vero e proprio intelletto, cioè come qualcosa che emerge da un cervello, allora bisogna considerare che una intelligenza reale non è il risultato della somma di tante intelligenze parziali, bensì l’esito di attività fisiologiche di neuroni che non pensano, ma scaricano.

Da ciò possiamo trarre un insegnamento. Non è contrapponendo tecnologia ed epistemologia che si può porre rimedio alla crisi epistemologica. La strategia deve essere radicalmente opposta, e deve basarsi su tre elementi fondamentali. In primo luogo, bisogna riconoscere la componente meccanica all’interno dell’umano. In secondo luogo, bisogna chiarificare il ruolo essenziale che l’organismo assolve nel conferire significato al meccanismo. È ciò che più avanti caratterizzerò con la nozione di “responsività”. In terzo luogo, bisogna vedere nella intelligenza artificiale non la morte dell’intelligenza naturale (sarebbe ripetere l’errore che Platone aveva commesso nei confronti della scrittura) né l’apparato magico che può sostituirla, ma semmai cercare le vie per cui l’intelligenza artificiale può porre rimedio alla imbecillità naturale che costituisce, molto più che l’intelligenza, il tratto caratteristico dell’umano.

Il web è il regno dell’opacità non per ragioni contingenti, ma per motivi strutturali. Importa precisare questo punto perché altrimenti, parlando di “infosfera”, si induce l’equivoco di uno scambio equo tra mobilitati e piattaforme (entrambi darebbero informazioni in cambio di informazioni) nascondendosi così il problema cruciale del plusvalore documentale, il dislivello tra la quantità e qualità delle informazioni a cui accedono, rispettivamente, gli utenti e le piattaforme. L’infosfera suppone che ci sia una trasparenza delle informazioni, e che queste siano espresse sotto forma di idee. Ciò che viene capitalizzato sono dati non immediatamente leggibili, che ricevono senso solo attraverso una comparazione e una interpretazione, e si riferiscono non alla espressione di idee, bensì alla registrazione di atti.

Parlando di “infosfera”, si suggerisce che lo scambio tra le piattaforme e gli utenti consista in uno scambio equo: informazioni e servizi fornite dalla piattaforma all’utente in cambio di informazioni e servizi che la piattaforma fornisce agli utenti. In effetti, però, lo scambio non è alla pari. Come abbiamo visto, il lavoro come lo abbiamo conosciuto negli ultimi millenni, e in particolare negli ultimi due secoli industriali, sta scomparendo, e si rivela come la funzione subordinata di una più ampia mobilitazione, che sembra essere il proprio dell’umano. La cosa davvero interessante, però, è che questa mobilitazione, visto che è registrata (un tempo, e questo passato è molto recente, non era così) genera valore, dunque è in tutto e per tutto assimilabile al lavoro, che a questo punto risulta il più delle volte superfluo, nelle sue forme tradizionali. E proprio come il lavoro industriale genera plusvalore, che nella fattispecie è la differenza tra le informazioni che i mobilitati forniscono alle piatteforme attraverso la loro mobilitazione e quello che le piattaforme sono in grado di farne, cioè di trasformarle in capitale e in ricchezza.

Docusfera

Trattandosi di una produzione e archiviazione di documenti, il Web è una docusfera e non una infosfera: quello che contiene non è come tale informazione o conoscenza, e può diventarlo solo per chi se ne può servire. E si tratta di un numero molto limitato non di persone, ma di piattaforme. Iper-alfabetizzati rispetto alla scrittura, gli umani sono dunque (e strutturalmente) ipo-alfabetizzati rispetto a quell’immane potenziamento della scrittura che è il Web.

L’esplosione della registrazione

L’infosfera è un ambito di conoscenza concettualmente imparentato con gli ideali enciclopedici dell’Illuminismo, con il progetto idealistico di un sapere assoluto, e con la successiva teorizzazione di una Noosfera, ossia di una regione del conoscere e della interazione tecnologica in quanto contrapposta alla Biosfera, la regione della evoluzione e della vita. Il prevalere della connessione e della registrazione di atti suggerisce però che abbiamo a che fare con una Docusfera, con un ambito di iscrizione di fatti, registrazione di atti e connessione di documenti molto più che di conoscenza. Quelli che vengono capitalizzati dalle piattaforme sono atti che, in quanto registrati, costituiscono dei documenti. Questi documenti non parlano a chiunque, non più di quanto la sintomatologia di una malattia possa suggerire la diagnosi a un profano.

Il parente prossimo del Web è costituito, ben più che dalla Enciclopedia di Diderot e d’Alembert, dalla Biblioteca di Babele di Borges, ossia da un ambito di combinazioni e di connessioni che contiene tutto e il contrario di tutto, come del resto è suggerito dal fenomeno della postverità. Questa circostanza è importante non solo dal punto di vista concettuale, della definizione di che cosa è il Web, ma anche dal punto di vista politico ed economico, perché spiega che cosa il Web può fare, e motiva le trasformazioni che introduce nella vita delle persone e delle società. Il Web registra azioni e produce documenti, che il più delle volte gli utenti non sono consapevoli di produrre (e che in effetti sino a non molto tempo fa non sarebbero stati prodotti). Documenti che, in quanto tali, non sono più chiari di un codice a barre o di una lingua sconosciuta, e che dunque non generano immediatamente informazione o conoscenza, ma la producono solo per chi ha gli strumenti tecnologici per compararli con altri documenti trovando correlazioni, per capitalizzarli conservandoli e trasformandoli in una ricchezza molto superiore a quella della moneta – e questa è l’intelligenza artificiale. E soprattutto gli strumenti ideologici per capire che cosa rappresentano e che cosa se ne può trarre – e questa è l’intelligenza naturale.

Ciò che viene registrato dalle piattaforme consiste, ben più che in idee, in comportamenti, in atti, ossia negli effetti di una mobilitazione che non è compresa da noi (in quanto utenti) ma può essere interpretata da macchine con grandissima capacità di calcolo che, confrontando i nostri comportamenti con quelli di milioni di altri utenti, riescono a ricavare delle correlazioni, dunque delle informazioni utili. Inoltre, le informazioni a cui possiamo accedere attraverso le piattaforme (a prescindere dal fatto che siano vere o false) sono molto minori di quelle che le piattaforme acquisiscono su di noi nell’atto con cui le ricerchiamo. È questa circostanza che disegna le caratteristiche fondamentali della rivoluzione apportata dal Web: registrazione, automazione, mobilitazione e capitalizzazione.

Affine all’errore concettuale del considerare comunicazione ciò che è registrazione, e informazione ciò che è documentazione, è il concentrarsi esclusivamente sulla sovrastruttura della rivoluzione (quello che chiamiamo “postverità”) invece che sulla struttura, la documedialità che rende possibile, prima e in forma più sostanziale della postverità, fenomeni come l’automazione, la mobilitazione e la capitalizzazione. La postverità merita dunque di essere compresa, ma come sintomo. E la struttura, ossia i processi di capitalizzazione, va compresa a sua volta non con i vecchi canoni del capitale industriale o finanziario, ma mediante le risorse offerte da una comprensione della natura effettiva del capitale documentale.

Il Web è reso possibile dalla esplosione tecnologica della registrazione, che con il digitale diviene preliminare alla stessa informazione, perché se tradizionalmente la registrazione era parte logicamente imprescindibile della comunicazione (se il messaggio non arriva e non è registrato sono parole al vento) ora è una componente che precede ontologicamente la comunicazione: il messaggio è registrato prima di venire trasmesso, sicché ogni comunicazione è in effetti la trasmissione di una registrazione. Se prima del Web e delle tecnologie che lo hanno reso possibile l’informazione era la norma, e la registrazione l’eccezione (giacché poteva anche non aver luogo) ora affinché ci sia informazione è necessaria, preliminarmente, una registrazione. Nell’analogico la registrazione era a monte (per comunicare occorre un codice, e il codice richiede registrazione) e a valle (la comunicazione è ineffettuale senza memoria, e in particolare, nel caso del performativo, senza memoria non si possono produrre oggetti sociali). Nel digitale, che in questo senso rivela l’essenza nascosta dell’analogico, la registrazione è la condizione di possibilità tecnica della comunicazione, che avviene attraverso pacchetti di informazione registrata che vengono ricomposti per generare comunicazione.

La crescita della registrazione non rappresenta soltanto un aumento degli archivi, è anche la possibilità di trasformare in segnale digitale (un codice a barre, un bastone infinitamente più efficace di quello che il nostro primo progenitore raccolse da terra per farne una clava) una enorme quantità di immagini, suoni, filmati, che in precedenza non venivano registrati, o lo erano in codici analogici non integrabili immediatamente all’archivio. Non si tratta solo di una estensione quantitativa (si stima – anche se non è chiaro su che basi che non siano impressionistiche – che negli ultimi due anni si siano prodotte più registrazioni che in tutta la storia precedente), ma anche di un cambiamento qualitativo immanente al passaggio dall’analogico al digitale. Invece di pensare a una registrazione che segue l’informazione – fuorviati dalla visione tradizionale della scrittura come registrazione della voce – pensiamo che è la registrazione a precedere e a rendere possibile la comunicazione, giacché il messaggio viene registrato preliminarmente per poter venire trasmesso e spacchettato.

In questo modo il Web crea un ambiente in cui non solo ogni comunicazione, ma tendenzialmente ogni atto (si pensi alla nostra interazione con il Web, ma presto con il mondo in generale attraverso le tecnologie 5G) viene registrato, dunque si fa documento e può essere capitalizzato (sfruttato industrialmente, venduto, trasformato…). Il Web è dunque il più grande apparato di registrazione che l’umanità abbia sin qui conosciuto, che capitalizza la forza della tecnica e di quella forma eminente di tecnica che è la memoria come possibilità di conservare, ripetere, alterare e accumulare. Realizzando la vocazione unificante della tecnica, un solo apparato, il Web, riesce a riunire in sé tre nature: quella di un mezzo di produzione, quella di un mezzo di comunicazione, e quella di uno strumento di costruzione della realtà sociale.

Dalla registrazione alla documentalità

“Documento” traduce il latino documentum, da doceo, e significa “ciò che mostra o rappresenta un fatto”. Questa descrizione sembra attagliarsi alle tre sfere in cui si è soliti parlare di documento: quella storica, dove “documento” designa tutto ciò che appare rilevante per la ricostruzione del passato; quella informativa, dove il termine comprende tutto ciò che veicola una informazione, più o meno nel senso in cui “.doc” è il formato dei file di scrittura in Word; e quella giuridica, dove indica ciò che ha valore legale. Intuitivamente, è questo terzo senso, che è anche il più antico e tradizionale, ad apparire come più specifico. Gli altri due valori, quello storico e quello informativo, derivano – dicono gli storici – da quello giuridico. Qui “giuridico” va inteso in un senso estensivo, che inerisce al processo complessivo di iscrizione di ciò che è socialmente rilevante, dall’economia alla religione.

Se questo significato è quello che prevale nella definizione di “documento”, sia esso pubblico o privato, dispositivo (come una legge) o testimoniale (come un passaporto, una patente, un diploma), allora conviene integrare e in una certa misura precisare la descrizione del documento come “rappresentazione di un fatto” con quella del documento come “registrazione di un atto”. È infatti un carattere essenziale della realtà sociale la necessità di tener traccia degli atti che la costituiscono. In questo senso, il documento è un formatore di realtà sociale, e risponde alla legge “Oggetto = Atto Registrato” (un oggetto sociale è il risultato di un atto sociale, che coinvolge almeno due attori, organici o meccanici, e che ha la caratteristica di essere registrato).

Gli atti sono cose come ordinare, promettere, scommettere. In molti casi sono linguistici, ma non sempre è così (posso ordinare qualcosa con un gesto della mano, salutare con un cenno del capo, ecc.). I documenti li registrano, e in questo sono rilevanti: la carta d’identità prova che io sono io, il testamento di mio nonno giustifica la validità di un certo lascito, la ricevuta della carta di credito certifica che ho pagato. Nella prospettiva che propongo, il documento va concepito, piuttosto che come qualcosa di dato una volta per tutte e costituente una classe di oggetti stabile, come la reificazione di atti sociali i quali, a loro volta, mutano nella storia e nella geografia. La costante, qui, non è offerta dal tipo di atti, e dai documenti che ne conseguono, bensì dal fatto che senza atti e senza iscrizioni non è concepibile una società. Sicché non tutte le iscrizioni sono dei documenti, ma non c’è iscrizione che, in una certa condizione e acquisito un determinato potere sociale, non possa diventarlo.

Parlare di “dati”, in questo senso, è riferirsi solo ai documenti deboli, cioè alle registrazioni di fatti. Anche fuori dell’ambiente documediale, la registrazione di un fatto può essere preterintenzionale, può essere cioè semplicemente la traccia trovata dalla polizia scientifica, il reperto, il sintomo di una malattia in una cartella clinica, la quale, a sua volta, è un documento in senso debole, ma di carattere intenzionale. Ma, per l’appunto, collezionare dei like è già, a un livello minimale, avviarsi verso la dimensione dei documenti forti, della registrazione di atti. Per non parlare poi dei contenuti dei social media e della enorme proliferazione di testi che caratterizzano la documedialità.

Ontologicamente, tra il documento in senso forte e il documento in senso debole intercorre una differenza rilevante, giacché il primo è per l’appunto un atto, il secondo una prova, che può eventualmente essere adoperata in un atto, ma che non necessariamente (anzi, quasi mai) lo è. Reciprocamente, può avvenire che degli atti possano fungere come prove: posso adoperare il registro di una seduta di laurea a cui io abbia partecipato in qualità di relatore per dimostrare in tribunale di non avere commesso un omicidio avvenuto nello stesso orario della seduta di laurea. Ma, caratteristicamente, in quanto attestazioni, difficilmente i documenti possono funzionare da prove di ciò che attestano – senza costituire petizione di principio. Posso esibire la mia laurea in medicina per attestare che non sono un impostore, ma ciò che la rende una prova è il fatto che sia valida, tanto è vero che qualora la sua validità venisse posta in discussione, per esempio in tribunale, occorrerebbe produrre delle prove a sostegno. In altre parole, un documento non può essere esso stesso la prova della propria validità.

Divisi da queste peculiarità, il documento in senso forte e il documento in senso debole sono tuttavia accomunati dalla circostanza di valere solo in un contesto. Posso servirmi di un documento forte medioevale, per esempio di un testamento, come documento debole, per esempio come attestazione dei beni del testatario in un articolo di storia locale. Il documento forte, che è scaduto nella sua funzione legale, trova una nuova attualità in veste di documento debole valido in sede storiografica. In entrambi i casi, però, ci deve essere una assise (almeno due persone) disposta a considerare il documento come documento. Questo è ancora più vero dei documenti non intenzionali, come tracce e reperti, che non hanno mai posseduto di per sé un valore documentale, e che lo acquisiscono all’interno di un determinato contesto giuridico, tecnico, politico, il quale può anche intervenire per rendere evidente la traccia, ad esempio quando si trovano tracce di DNA, o di carbonio 14, che non sono affatto visibili a occhio nudo. Sono questi i profili che si perdono quando, con una semplificazione carica di conseguenze, si sceglie di parlare di “dati” invece che di “documenti” a proposito di ciò che viene prodotto e raccolto sul Web.

Ciò appare particolarmente evidente oggi, nel momento in cui il Web si presenta come una enorme macchina per produrre e archiviare documenti, ma, come sempre avviene, lo sviluppo tecnologico, prima che introdurre elementi nuovi, ha la caratteristica di rivelare, con una luce particolarmente vivida, gli elementi essenziali della natura umana e della realtà sociale.

Dal capitale finanziario al capitale documediale

Il vero capitale del XXI secolo non sono le risorse finanziarie né i mezzi di produzione, ma quelle documentali, prodotte dalla mobilitazione dell’umanità sul Web, che da una parte consentono l’automazione della produzione attraverso la capitalizzazione dei comportamenti umani consentiti dal Web, e dall’altra forniscono informazioni utili per la distribuzione e la pianificazione.

Dalla fine del Settecento conosciamo il mondo del capitale industriale: produceva merci, generava alienazione, faceva rumore, quello delle fabbriche. Poi è stata la volta del capitale finanziario: produceva ricchezza, generava adrenalina e faceva ancora un po’ di rumore, quello delle sedute di borsa.

Oggi si sta facendo avanti un capitale insieme nuovissimo (perché è reso possibile da una tecnologia che prima non c’era) e antichissimo (perché manifesta l’essenza della capitalizzazione): produce documenti, genera mobilitazione e non fa rumore. Si tratta di un capitale più ricco di quello finanziario, che sta avendo e che avrà ancor più un impatto senza precedenti sulla creazione del valore, sui rapporti sociali e sulla organizzazione della vita delle persone, e non parlo ovviamente solo della loro esistenza professionale.

Questo è il vero capitale della nostra epoca, che insieme getta luce sulla natura di ogni capitale precedente, rivelandone la natura documentale: il capitale non è stato, nel tempo, che una forma particolare di archivio, ma nel momento in cui, come oggi, tutta l’interazione sociale può essere archiviata, appare evidente che si assiste alla capitalizzazione della interazione sociale, e precisamente di ciò che chiamo “mobilitazione”, il sistema di azioni che ognuno di noi opera attraverso il web. Archiviare e comprendere questa mobilitazione fornisce una ricchezza ben più sottile e potente di quella offerta dalla finanza, che si limita a tracciare i flussi di ricchezza, mentre nel capitale documentale abbiamo lo specchio e l’archivio dell’intera mobilitazione umana, e in particolare del suo momento fondamentale, il consumo in quanto risposta alle urgenze organiche e alle loro metastasi simboliche.

Così facendo, il capitale documentale sussume, rivelandone l’essenza, i capitali che lo hanno preceduto, dal capitale umano (ciò che l’umano fa di sé stesso attraverso la tecnica e la cultura) al capitale mercantile, a quello industriale, sino a quello finanziario. La rivoluzione documediale, come sempre avviene nel caso di una rivoluzione tecnologica e sociale, permette dunque l’emergenza di strutture fondamentali che erano presenti sin dall’origine della civiltà umana. Agire politicamente in modo efficace all’interno di questo contesto richiede consapevolezza teorica, e a questo fine è importante mettere a fuoco la natura del capitale quale emerge dalla rivoluzione documediale.

Il capitale del XXI secolo sono i documenti prodotti dalla mobilitazione degli umani e registrati dalle piattaforme. Come tale, è una funzione sopraordinata rispetto al capitale mercantile, industriale e finanziario, di cui costituisce insieme il superamento e la rivelazione. Perciò dobbiamo scrivere un Capitale per il XXI secolo, cogliendo l’origine, la struttura e i poteri di questo nuovo capitale, che si basa sul consumo e non sulla produzione, visto che il consumo registrato crea valore e produce documenti.

Il principio di base della teoria della documentazione, secondo cui “tutto può essere documento”, ha trovato una attuazione massiccia proprio nell’età della rivoluzione documediale. Il machine learning è reso possibile solo quando si disponga di una quantità enorme di dati. Dunque non è intelligenza artificiale, ma un archivio, che oltretutto non è autocosciente, dunque ha molto più della biblioteca di Babele che non della intelligenza.

Il problema non sono chiaramente i diritti umani (che è qualcosa a cui si rinuncia facilmente: si pensi al fenomeno macroscopico della cessione gratuita dei dati personali sui social), bensì qualcosa che sta più in alto o più in basso, e che ha a che fare con il lavoro, con una mobilitazione che produce valore (i dati come capitale, appunto) e di cui non si ha consapevolezza. Questo perché la situazione presenta delle caratteristiche così originali da non essere ancora state messe nella giusta prospettiva.

Da una parte, si lavora molto meno, eppure cresce la quantità di lavoro implicito, di servizi che eroghiamo senza saperlo o senza pensarci, così come aumenta esponenzialmente un enorme lavoro sommerso, cioè appunto la mobilitazione che ha luogo in ogni istante e in ogni fascia d’età. Questi dati, oltre a costituire una ricchezza in sé, hanno anche un enorme valore politico, perché rendono estremamente facile, per i partiti che abbiano comprato informazioni da agenzie specializzate, l’intercettazione degli umori dell’elettorato; dunque, diventa relativamente facile confezionare programmi elettorali vincenti, ma è poi impossibile esercitare un’azione di governo, visto che l’esecutivo deve essere sensibile e ubbidiente alle minime variazioni d’umore dell’elettorato.

Qui cercherò di definire anzitutto i caratteri di questo capitale, che consistono in una docusfera, in un ambito di atti registrati; quindi esporrò la causa di questo capitale, l’esplosione della registrazione; verrò poi al fine primario della capitalizzazione, che consiste nella automazione dei processi; verrò poi alla materia della capitalizzazione, ossia alla mobilitazione, alla sfera generale dei comportamenti e delle finalità umane che, se registrate, istruiscono l’intelligenza artificiale (che si nutre di intelligenza naturale e la rispecchia); e chiuderò con una descrizione del capitale documentale in quanto sussunzione di tutti i capitali precedenti e rivelazione della loro essenza.

Dalla pentecoste all’emergenza

Come hanno insegnato da bambini a molti di noi, la pentecoste è la discesa dello spirito santo cinquanta giorni dopo l’ascesa di Cristo in cielo. Come si può immaginare, l’evento non è privo di eccezionalità, e ha avuto tra i suoi effetti più invidiabili il fatto di trasformare i discepoli in poliglotti, per farne degli apostoli e dei predicatori. Tutto questo sembra molto antico e pare richiedere molta fede, eppure l’atteggiamento pentecostale è uno dei più diffusi in persone che se ne vorrebbero completamente alieni. Fra i tantissimi esempi, mi limito a uno. La stragrande maggioranza dei filosofi (analitici e non solo) che si occupano di società sostengono che alla sua base ci sia una “intenzionalità collettiva”, che ci renderebbe capaci di interagire socialmente e di condividere principi e valori. I trisnonni di questi filosofi parlavano di volontà generale e di contratto sociale, ma non cambia niente. Ora, per quale motivo dovremmo essere scettici rispetto alla pentecoste e invece creduli nei confronti della intenzionalità collettiva? Concettualmente non c’è alcuna differenza, e oltretutto sono entrambe soggette a solenni smentite empiriche: non si è mai visto nessuno diventare poliglotta in una notte, proprio come non si è mai vista una società priva di conflitti, come dovrebbe ovviamente essere se l’intenzionalità collettiva fosse più che una parola vuota.

Nelle grotte di Lascaux troviamo delle scene di caccia, forse rituali. Che cosa volevano dire esattamente gli umani che hanno fatto quei disegni? Non possiamo saperlo, ma quello che è certo è che si trattava dell’espressione di un significato. Come si è arrivati a questo attraverso la lunghissima successione di anni che separa la cifra astronomica di 13,7 miliardi di anni e la cifra molto più umana del 17.500 avanti Cristo? E poi, come si è arrivati alla fisica delle particelle e ai mutui? Le ipotesi sono due, il significato pentecostale e il quello emergenziale.

Per il significato pentecostale c’è un senso precedente e indipendente rispetto alle forme in cui si esprime e ai modi in cui si imprime – c’è uno Spiro (per parlare come Manzoni) trascendente e assoluto capace di rivolgersi “in suo sermon” all’Arabo, al Parto, al Siro e a ogni forma futura di umanità globalizzata. Il modello è la teoria classica dell’espressione: nella mente sono presenti dei significati che si esprimono attraverso delle parole, che a loro volta sono simboleggiate attraverso la scrittura. Dunque, ci può essere un significato anche se inespresso e, quel che più conta, il significato non ha una genesi: è lì da sempre o è caduto dal cielo. Questo modello non si trova solo nella teoria dell’espressione, ma anche nella maggior parte delle teorie dell’uomo e della società. Nella teoria dell’uomo, si postula che ci sia un in sé, la natura umana, che viene alienata da circostanze esteriori, generalmente associate alla tecnica, e che va restaurata attraverso un ritorno alla natura umana quale realmente e naturalmente (cioè, idealmente o fantasmaticamente) è. Nella teoria della società, si pone all’origine del mondo sociale una intenzionalità collettiva che si manifesta attraverso un contratto che genera la società. Trattandosi in tutti e tre i casi di una idealizzazione e di una sublimazione non sorprende che il significato pentecostale costituisca l’opzione tipica dell’idealismo.

Nella prospettiva dell’emergenza abbiamo piuttosto a che fare con una rivelazione: non c’è un in sé della natura umana, non c’è un significato pentecostale, ma un divenire storico, in cui la tecnica gioca un ruolo costitutivo: capiamo che cosa vogliamo e chi siamo dalle tecniche che adoperiamo. La rivelazione non si è affatto conclusa con l’Apocalisse; continua, soprattutto per merito della tecnica, che è la protesi di ogni costruzione potenziando le dotazioni naturali degli umani, e costituisce un ambito di emergenza quanto e forse più che la società. Ciò che apparentemente ci porta lontano da noi (alienazione) è ciò che ci rivela per quello che in effetti siamo. La visione tolemaica, quella legata al significato pentecostale, propone la direzione Umanità Società Tecnica. Da una definizione dell’umano (animale razionale, animale sociale) si ricavano i caratteri del mondo sociale e del mondo tecnologico, concepiti il primo come una costruzione dell’umano, il secondo come una estensione dell’umano. Viceversa, la rivoluzione copernicana, che muove dal significato emergenziale, propone la direzione Tecnica Società Umanità. Se vuoi conoscere l’anima dell’uomo, devi partire dalla società in cui vive; ma se vuoi capire in che società vive, quali siano gli dei a cui sacrifica, devi capire quali sono le tecniche di cui dispone (e che molto spesso dispongono di lui).

Per quanto grandi siano le trasformazioni del mondo sociale apportate dal web, resta che il suo effetto maggiore sta nel rivelare, manifestandole, le strutture profonde della realtà sociale, strutture ben precedenti il web. Studiare il web significa dunque studiare un mondo sociale in vitro, che ci parla dell’umanità quale è e non quale dichiara di essere, cogliendolo da una posizione ottimale anche se opaca: una enorme quantità di dati in costante aggiornamento, parte dei quali facilmente accessibili, grazie ai motori di ricerca. Il fatto che questi dati siano solo in parte accessibili agli utenti completa la simulazione del sociale (anche nel mondo sociale ci sono ampie zone di opacità) e costituisce una sfida ulteriore per l’analisi. Ecco perché oggi siamo in una condizione migliore per rispondere a un interrogativo vecchio come il “Conosci te stesso” iscritto nel tempio di Apollo a Delfi. Per rispondere alla domanda: “che cosa è l’uomo?” (interrogativo antropologico) è necessario rispondere alla domanda: “che cosa è la tecnica?” (interrogativo tecnologico). Dopotutto, anche l’enigma di Edipo la cui risposta è “l’uomo” aveva come chiave di volta un apparato tecnico, il bastone. D’accordo con una autentica rivoluzione copernicana (l’inverso di quella di Kant, che era una restaurazione tolemaica che rimetteva l’uomo al centro dell’universo), distogliamo gli occhi dall’Io penso e guardiamo al web.

Immagino l’obiezione di un fautore del significato pentecostale: fin dove si può pretendere che la competenza non sia sorretta dalla comprensione e dalla intenzionalità? Come negare, ad esempio, che la società nasce da un contratto sociale? E come è possibile che si dia una società, se non per effetto di un senso, di una decisione e di una intenzionalità? Gli umani si incontrano, stipulano una lingua, e con quella firmano un contratto che regolerà le loro interazioni. Dunque, la comprensione deve avere anticipato la competenza, proprio come l’intenzionalità collettiva precede e produce la società. A questa obiezione rispondo che, come vedremo, non è necessario ipotizzare la magia dello spirito dietro al movimento iscrizione-iterazione-alterazione. Prima della psicologia, c’è l’icnologia, prima dello spirito c’è la lettera, dapprima ci sono tracce, poi queste tracce incominciano ad avere significato per uomini e animali, infine emergono le tracce scritte, da cui discendono il linguaggio, la scrittura nel senso corrente, il significato, la responsabilità, la verità.

Dalla comprensione alla competenza

Si suppone che chi fa il medico, il filosofo o lo storico non si limita a trasmettere dei dati non compresi, ma li domina e li possiede interiormente. In questa supposizione è presente, come è ovvio, un forte tasso di idealizzazione. Le critiche che Platone nuove ai poeti, agli interpreti e alla scrittura ne sono un indizio evidente. I poeti sono messaggeri degli dei, gli interpreti sono messaggeri degli uomini, e la scrittura è una sorta il messaggero automatico. In tutti questi casi, la competenza non si accompagna alla comprensione, appunto perché abbiamo a che fare con funzioni essenzialmente tecniche. Rifletteremo un esteso più avanti su quanto sia problematica questa contrapposizione tra un possesso interno, accompagnato da comprensione, e un possesso meramente esteriore e strumentale, caratterizzato da semplice competenza. Per dire subito chiaramente qual è il mio punto di vista su questa contrapposizione, Platone ha ragione a distinguere competenza e comprensione, ma sbaglia quando le contrappone.

Banalmente, ci può essere competenza senza comprensione, ma non ci può essere comprensione senza competenza. Più che essere una alternativa strumentale alla vera comprensione, la competenza tecnica costituisce il presupposto necessario per una comprensione epistemologica. Dunque ci possono essere dei casi in cui la competenza non solo può non richiedere la comprensione, ma anzi opera tanto meglio quanto meno comprensione si introduce nel processo. Tipicamente, i migliori copisti nel medioevo erano analfabeti. La loro competenza nella trascrizione dei segni non era disturbata dalla comprensione del senso, che poteva produrre errori come la lectio facilior o il lapsus calami. E tutt’ora raramente l’autore, che auspicabilmente comprendere il senso di quello che ha scritto, è migliore correttore di bozze. Ma nella maggior parte dei casi la competenza costituisce un passaggio necessario verso la comprensione. Ognuno di noi è stato dell’infanzia un registratore e un pappagallo capace di immagazzinare parole e gesti che non comprendeva. E nell’educazione tradizionale, non necessariamente superate da quelle che si basano con la critica del nozionismo, una fortissima dose di apprendimento meccanico costituiva, e in molti casi costituisce tuttora, il presupposto della comprensione. Il mandarino cinese che impara migliaia di ideogrammi, la violoncellista che si esercita per diventare un’unica macchina con il proprio strumento, l’atleta, l’acrobata e il pizzaiolo sono altrettanti casi di apprendimento meccanico. E ciò che li differenzia non sta nella natura meccanica dell’apprendimento, bensì in ciò che avviene dopo, dal momento che ciò che è richiesto a un mandarino è ovviamente differente, e plausibilmente più complesso, da ciò che viene richiesto un pizzaiolo.

Umanità come documanità

Ciò che apparentemente ci porta lontano da noi (alienazione) è ciò che ci rivela per quello che in effetti siamo (imbecillità) e ci indica il nostro dover essere, la documanità. L’umano ha bisogno di supplementi alle proprie mancanze, ed ecco perché gli umani possiedono le tecniche e le tecniche possiedono gli umani. Una definizione sintetica della tecnica potrebbe in effetti essere quella di “panoplia dei supplementi”, perché per l’appunto la tecnica costituisce l’insieme degli strumenti, delle armi, di cui l’animale umano si è dotato per supplire alle proprie mancanze. Mancanze che – ecco probabilmente l’aspetto più interessante di tutta la faccenda – non si sarebbero manifestate se l’animale umano fosse rimasto al suo posto e avesse accettato il proprio destino biologico. In altri termini, ciò che gli animali umani possono risolvere in modo involontario e attraverso lunghissimi processi evolutivi, l’animale umano lo risolve con la tecnologia e la società. Invece che con una evoluzione interna, scandita da una selezione genetica, abbiamo a che fare con una evoluzione esterna supportata dalla tecnologia dalla società.

Questa considerazione rispetto all’alienazione sarà carica di conseguenze nel seguito del nostro discorso. Unico animale nella cui essenza rientra il supplemento tecnico, l’umano non viene dunque alienato dalla propria essenza a causa delle malefatte della tecnica, come vuole una irriducibile ma insopportabile (e, quel che è peggio, falsa) retorica naturalistica e primitivistica, ma viene rivelato dalla tecnica: è la tecnica a dirci ciò che noi siamo ciò che noi vogliamo. Se vuoi sapere che cos’è l’umano, devi guardare alle sue tecniche. Questo è tanto ovvio e vero che ci sono intere civiltà di cui non ci è rimasto niente più che apparati tecnici (strumenti e suppellettili), ma tanto ci basta per saperne qualcosa; che una conoscenza piena ha inizio nel momento in cui l’umano sviluppa quella tecnica delle tecniche che è la scrittura; e, più malinconicamente, che quanto produciamo attraverso la tecnologia sono dei fossili, destinati a sopravvivere alla scomparsa della specie umana.

Il Web è una biosfera che produce una docusfera. Una vita che produce documenti. Ecco perché è solo al prezzo di una grande ingenuità si può definire il Web come una infosfera, un mondo virtuale che poco alla volta inghiottirà il mondo reale. Ovviamente non è così. L’intelligenza artificiale si nutre di intelligenza naturale, cioè dei nostri comportamenti, e questi sono determinati dal fatto che siamo organismi, con un metabolismo che ci impone dei ritmi vitali. Il Web non è affatto una infosfera, ma una biosfera, un ambito in cui la vita viene registrata, calcolata, definita nelle sue regolarità, e soprattutto in cui la vita detta i tempi e le urgenze, tanto nelle condizioni ordinarie quanto in quelle straordinarie.

Biosfera

L’ambito da cui il Web trae il proprio nutrimento è la vita, ossia comportamenti legati alle nostre necessità metaboliche, intrecciate con le modalità tecniche e sociali che caratterizzano specificamente la forma di vita umana. La scomparsa delle professioni, la precarietà e la molteplicità dei lavori, o il fatto che l’identità non dipenda più dalla posizione lavorativa, sono elementi che fanno riflettere sulla circostanza per cui non abbiamo a che fare tanto con una vita alterata o alienata (in fondo, è molto più intera di quanto non lo sia la vecchia vita offline e alla catena di montaggio), bensì con una vita rivelata: la vita è effettivamente questo, un impasto di ragione, desideri, mobilitazioni, obblighi e documenti. Di certo non è una nuda vita, che non c’è mai stata essendo la vita umana inconcepibile in assenza di tecnica. Si manifestano le caratteristiche nascoste ed essenziali della vita: il fatto, anzitutto, di essere una vita registrata e documentata.

Quando si protesta contro una tecnica, non lo si fa mai davvero in nome della natura e della nuda vita, ma in nome di un’altra tecnica che ci è più abituale. Dunque, da che c’è la tecnica, ossia dall’inizio, la differenza tra lavoro e vita è minacciata da una indistinzione. Ciò che si manifesta nella mobilitazione rivela questa circostanza che risale alle origini dell’uomo, e che era mascherata da modi di produzione arcaici, quelli dei sottoproletari di Marx (la cui unica registrazione, dunque il cui unico lavoro, erano i beni prodotti, come nel neolitico) che è scomparsa con la rivoluzione documediale. Ma nel momento in cui la vita è registrata scompare la differenza tra praxis e poiesis. Le soggettività macchiniche che operano oggi sul web non sono una novità, dal momento che la soggettività è sempre stata macchinica, e come sempre la documedialità si limita a rivelarla.

Il plusvalore generato attualmente dallo sfruttamento del lavoro umano è destinato a scomparire perché l’automatizzazione è sempre più redditizia. Stanno scomparendo i call center perché i software si sono sofisticati. I droni sostituitranno i raider e i raccoglitori di pomodori. Non sarà più conveniente far produrre in Malaysia le scarpe che una stampante 3D può produrci a casa e su misura. Questa crescente automazione del lavoro, per quanto si produca con tempi e in luoghi differenti, costituisce il prevedibile obiettivo dell’enorme impiego di raccolta di dati che solitamente viene frainteso quando viene ridotto a una mera questione di privacy o di intelligenza artificiale. Se si raccolgono dati, non è tanto per conoscere le nostre private credenze, quanto piuttosto per alimentare dei processi di automazione nell’ambito della robotica e della domotica civile e militare, che permetteranno in tempi tutt’altro che biblici di ridurre l’apporto umano in settori chiave. L’esplosione della registrazione fa saltare tutte le distinzioni tradizionali e le caratterizzazioni produttive.

Come i computer possono tendenzialmente fare tutto, tecnicamente, così la registrazione permette la conversione di tutto in tutto: le merci diventano documenti, i documenti merci e le attività caratteristiche vengono meno: paghi le multe in tabaccheria, Amazon diventa una banca, Google una biblioteca e una agenzia di viaggi, l’iWatch un centro diagnostico… Questo è dunque il nuovo capitale con cui dobbiamo fare i conti. Qual è il mercato prevalente di Amazon? L’esplosione della registrazione fa saltare la nozione di attività prevalente nel capitale, nel lavoro e nella conoscenza, e questo venir meno della prevalenza deriva dallo stesso motivo per cui il computer è una macchina universale, che può sostituire tutte le altre macchine, rappresentando l’essenza della tecnologia come registrazione. Se ha portato a compimento la sua essenza, il capitale non ha più bisogno di realizzazioni specifiche, ma può saltare ogni forma di intermediazione determinata e ogni forma di attività prevalente per proporsi come l’intermediazione universale.

Nel momento in cui l’automazione è perfetta (questo momento non è ancora giunto, ma costituisce l’obiettivo di tutto il processo) gli agenti umani passano dalla produzione di oggetti alla produzione di documenti, cioè di attestazioni della loro mobilitazione come utenti, consumatori, ideatori, comunicatori. Assistiamo dunque allo svelamento dell’arcano della merce: è evidente che i documenti manifestano un rapporto tra persone (se sono documenti forti, ossia registrazione di atti, si trattasse anche semplicemente di un like) o le azioni di una persona (se sono documenti deboli, registrazioni di fatti, per esempio le tracce della nostra navigazione sul web). La reificazione che Marx imputava alle merci nella produzione industriale, il fatto cioè che in un oggetto anonimo si occultasse e rimuovesse un rapporto tra persone, viene meno, e dunque l’arcano è risolto. Ci si può chiedere quale sia il vantaggio, al netto del guadagno conoscitivo, del riconoscimento dell’origine umana della merce (i prodotti biologici sono apprezzati proprio perché promettono di ridurre al minimo l’intervento umano), ma la spiegazione è anticipata da una idea di Marx a cui non si è prestata sufficiente attenzione, quella secondo cui “lo sviluppo dell’individuo sociale si presenta come il grande pilone di sostegno della produzione e della ricchezza”.

Le merci-documenti sono molto pregiate, perché parlano delle persone, dei loro gusti, delle loro predilezioni e credenze, e dunque aiutano a creare e soprattutto a distribuire a basso prezzo e senza sprechi, cioè con i vantaggi di una economia pianificata pienamente efficiente (Walmart e Amazon trionfano là dove i piani quinquennali hanno fallito) i prodotti più svariati: scarpe da jogging, caffè in capsula, programmi elettorali, libri, serie televisive. Infatti i produttori delle merci secondarie, delle merci tradizionali (scarpe, caffè, patti di governo) li comprano a caro prezzo dalle piattaforme e cercano a loro volta di creare delle proprie piattaforme tenendo traccia dei consumi. Con questo l’interazione uomo-macchina (solitamente, io e il mio cellulare), che ha luogo non nel quadro del lavoro come fatica e come alienazione, ma in quello dell’ozio e del consumo, si rivela produttiva di valore, appunto perché i dati valgono, tanto è vero che si vendono e si comprano.

Che oggi la gran parte dei servizi siano ancora offerti a pagamento dipende dal fatto che oggi si fa ancora conto su un mercato su cui ci sono dei lavori classici retribuibili. Ma la crescita dell’automazione produrrà due risultati: l’abbassamento dei costi dei servizi e dei beni in seguito alla automazione, e, in parallelo, scomparsa della maggior parte dei lavori produttivi. Diviene dunque necessario sin da ora concettualizzare il consumo come lavoro, visto che il lavoro umano come produzione sarà un fenomeno quantitativamente troppo raro per poter costituire un elemento economicamente significativo. I dati non sono un bene in sé, ma sono utili a vendere merci o servizi. Nessun valore di scambio, a partire dal denaro, è un bene in sé (le azioni non sono beni in sé, lo Chanel n. 5 non è bene in sé, Guerra e pace non è un bene in sé…). Ma questo valore, che è relazionale come qualunque altro valore nel mondo sociale, diviene enorme nel momento in cui i costi della produzione di merci crollano in seguito all’automazione, e dunque i veri vantaggi si ricavano, come ho detto, dalla conoscenza del mercato, per scopi di produzione e di distribuzione.

Siamo mobilitati e consumatori per essenza (motiverò alla fine questa affermazione lapidaria), e, sempre per essenza, siamo capitalizzatori (abbiamo bisogno di accumulare perché non possiamo permetterci di restare senza energia, sarebbe la morte, e non semplicemente la stasi, come per i meccanismi). D’altra parte, è proprio l’urgenza del consumo che dà senso all’esigenza della produzione, ed è su questa base che, a mio avviso, si può motivare la tesi secondo cui produzione e consumo sono semplicemente i due volti di una medesima realtà. Per svolgere questa dialettica, si tratta di riconcettualizzare il capitale come una lavagna universale in cui sono annotate tutte le azioni umane, e i cui effetti si manifestano a più livelli: come capitalizzazione dell’energia nella tecnologia, come capitalizzazione del sapere nella epistemologia (senza la capitalizzazione delle conoscenza non c’è progresso del sapere), e come capitalizzazione degli atti sociali nella enorme lavagna del web (che non va cancellata, ma socializzata).

L’esplosione dei dati nel capitale documediale ci libererà, credo, dall’eccezionalismo del denaro, rivelando che il denaro è un documento come qualunque altro, e che qualunque altro documento può, nelle condizioni opportune, valere come denaro e assolverne le funzioni di unità di conto, mezzo di scambio, e riserva di valore. Come risultato, il mestiere di vivere può essere finalmente retribuito.

Marx non ha considerato un elemento centrale del capitale, il fatto che potesse trascendere la dimensione mercantile, industriale e finanziaria, e proprio per questo il comunismo si è realizzato. Il Web è il contenitore degli oggetti sociali, ossia la forma assoluta del Capitale, l’ideale di una lavagna universale che registri tutte le interazioni fra gli agenti sociali, e che si manifesta nel passaggio dalle merci ai documenti. Da una parte, le merci sono sempre più fabbricate tramite mediazioni informatiche, ossia come documenti. D’altra parte, la merce assoluta, i Big Data, sono documenti che registrano le interazioni sociali sul web, ossia nel mondo.

D’accordo con l’assunto secondo cui la tecnica è rivelazione e non alienazione, la rivoluzione in corso manifesta l’essenza nascosta del capitale.

La vita registrata

La registrazione della mobilitazione non si risolve solo, nell’immediato, nella automazione, cioè nella praxis. Come abbiamo visto, permette anche una poiesis, una registrazione dell’azione da cui segue la possibilità di capitalizzare quello che si è registrato. I dati prodotti dalla mobilitazione umana costituiscono così un capitale che ha potenzialmente lo stesso valore del capitale monetario e finanziario. È più difficile da spendere, certamente, ma al tempo stesso fornisce informazioni più ricche e utili, mentre può, per grandi transazioni, assolvere alla stessa funzione di riserva di valore, unità di conto e mezzo di scambio che viene tradizionalmente considerata come prerogativa della moneta.

La formazione del capitale umano si compendia dunque nel passaggio dalle merci ai documenti e assume tre forme:

  • il fatto che le merci siano trattate come documenti (in conseguenza della automazione);
  • il fatto che la merce fondamentale siano i documenti (in quanto capitalizzazione della mobilitazione);
  • e il fatto che si risolva l’arcano delle merci (che a questo punto sono apertamente rapporti fra persone) ponendo le premesse per una effettiva produzione dell’umano da parte dell’umano.

Questa trasformazione è legata al fatto che, mentre le merci sono prodotte e distribuire automaticamente, la grande produzione che passa agli agenti umani è, come abbiamo visto, quella dei documenti, ossia degli atti registrati che si trasformano in dati. Questi dati possono venire capitalizzati dalle piattaforme, che li trasformano in una ricchezza molto superiore (perché molto più informativa e polivalente) di quella del denaro e di quella della finanza.

Questa circostanza, più che una contraddizione all’interno del Capitale, che rinuncia all’accumulo di denaro per dar valore alla conoscenza delle persone, è in effetti la rivelazione sia della natura del denaro (che è essenzialmente uno strumento di informazione, nella fattispecie circa la nostra solvibilità) sia la rivelazione delle merci. In che senso? Semplicemente, come abbiamo visto, quello che per Marx costituiva l’arcano delle merci, il fatto che fossero un rapporto tra persone che si solidifica e nasconde in un oggetto, è ora svelato, visto che il documento è esplicitamente un rapporto tra persone. E oggi ogni nostro movimento, poiché ha luogo sul web, lascia tracce e produce documenti (dunque valore e ricchezza, per chi li sa usare). Perciò, come dicevo, non c’è più alcun arcano: oggi è chiaro come il sole che l’archivio che familiarmente chiamiamo Web vale perché contiene dei documenti che sono infinitamente più ricchi della moneta perché tengono traccia di ogni atto dell’umanità, una Biblioteca di Babele che gli algoritmi trasformano in una fonte di predizione e di conoscenza del mondo sociale.

L’intelligenza artificiale e in particolare il machine learning sono da questo punto di vista estremamente rivelativi della componente tecnologica dell’intelligenza. Il meccanismo di dettatura con cui sto scrivendo queste righe trova la sua condizione di possibilità nel riconoscimento vocale che si perfeziona attraverso l’addestramento, che altro non è se non l’esposizione a una grande quantità di tracce vocali. È il motivo per cui Siri è così petulante nell’offrirci i suoi uffici: gli servono per ampliare l’archivio e migliorare le proprie prestazioni. Ed è del resto il motivo per cui un bambino può essere anche più petulante di Siri. L’intelligenza, ben lungi dall’essere alcunché di esclusivo e inimitabile nell’uomo, è ciò che all’interno dell’umano, è identico all’automa: registra, manipola, calcola, ripete. Se dunque ci si basa sulla pura intelligenza non c’è modo di differenziare l’intelligenza umana dall’intelligenza artificiale. E nella migliore delle ipotesi ci si ritrova o a proporre dei paragoni svantaggiosi tra gli umani e le macchine, o a invocare implausibili eccezionalismi dei primi rispetto alle seconde – eccezionalismi che il più delle volte, se esaminati senza preconcetti e antropofilie, sono altrettanti difetti.

Grazie alla profilazione risulta oggi possibile una pianificazione economica senza precedenti, che rende attuabile ciò che prima appariva come una utopia socialista sempre frustrata. In linea di principio, tutte le inefficienze della tradizionale economia pianificata, così come tutti gli sprechi della economia liberista, possono essere evitati attraverso la raccolta capillare di documenti oggi possibile, ed è una circostanza a cui sarebbe importante che si prestasse più attenzione di quanto non faccia una riflessione pubblica che troppo spesso si concentra esclusivamente sulla privacy.

Il Golem esiste solo nei romanzi

Un ultimo punto a vantaggio della biosfera. La documedialità non prende decisioni, ma esegue decisioni già prese. Chi teme il Golem, può star tranquillo. È una grande ingenuità quella che si figura la crescita dell’automazione come un potenziamento della volontà di potenza delle macchine, che prenderanno il posto degli umani. Ciò di cui le macchine hanno bisogno (ed è la loro unica parentela con il vampirismo) non è l’intelligenza umana, bensì la vita organica. Ciò che nell’umano è intelligenza, può venire facilmente replicato dall’automa. Ma nessun automa potrà mai replicare la vita nella molteplicità illogica dei suoi bisogni. È su questa base che si possono costruire imprese conoscitive potenti ed efficaci come le macchine di traduzione. La macchina non è più intelligente dell’umano, semplicemente ha più pazienza, memoria e rapidità. Ma solo l’umano può provare il bisogno di tradurre da una lingua all’altra, o può perdere la pazienza, o essere stanco. L’automazione consiste dunque non nell’ascesa al potere delle macchine, che abbandonano i tradizionali compiti esecutivi e formulano delle intenzioni ma, proprio al contrario, nella moltiplicazione dei compiti che richiedono esecuzione invece che intenzione (e, spesso, nella scoperta che quei compiti che credevamo abbisognassero di intenzioni sono pianamente realizzabili attraverso l’esecuzione di programmi).

Malgrado questo, il dibattito sull’intelligenza artificiale verte prevalentemente sulle conseguenze etiche dei nuovi automi: ci spieranno (vecchia e reale paura), prenderanno decisioni pericolose (auto a guida automatica e simili). In entrambi i casi le preoccupazioni sono legittime, ma trascurano il fatto che gli umani sembrano pochissimo interessati alla privacy, ed è per questo che Instagram prospera, e le macchine possono certo sbagliare, ma mai quanto gli ubriachi al volante. Soprattutto, distraggono dal punto essenziale, impostando in termini etici un problema che riguarda il lavoro. Robotica e domotica sperimentano nell’assistenza domestica e nel campo militare, ma il vero obiettivo è l’automazione di tutti i processi di produzione. Visto che un automa costa sempre meno di un umano, non avendo bisogni, stanchezza o diritti, l’automazione è sempre vantaggiosa. Non è difficile prevedere che in un futuro prossimo tutti i lavori svolti da umani saranno svolti da macchine, compresi quelli (magazzinieri di Amazon, rider, raccoglitori di pomodori) che vengono sempre citati per dimostrare la sopravvivenza del lavoro come fatica e alienazione. In un mondo automatico per l’umano resteranno due vie. Quella, rara e fortuita, della creatività, del fare ciò che le macchine non fanno. Accanto all’eccezione, però, va ricercata la norma. Ognuno di noi è raramente (e talvolta mai) creatore, ma è sempre consumatore, portatore di bisogni, di gusti, di interessi, che affondano la loro motivazione nel suo strato organico (gli organismi, diversamente dai meccanismi, si spengono per non riaccendersi più, di qui la fretta, l’ansia, la noia e la storicità che ci caratterizzano). Comprendere questa nuova forma del lavoro è lo sforzo concettuale richiesto a una sinistra che sappia contrapporre ragionevoli speranze alle paure su cui prende voti la destra.

Per volere il potere, proprio come per consumare, è necessario avere un corpo, dunque un metabolismo. A prima vista, i motivi per un “tutto il potere agli algoritmi” non mancano. La metafora carceraria è diventata letterale con il web, perché in effetti tutte o quasi le nostre azioni sono tracciate, molto più che se fossimo in cella, perché lì, probabilmente, no avremmo connessione. Se questo è vero, oggi abbiamo Frankenstein sul ponte di comando, con un apparato che funziona davvero bene, e con la concreta possibilità che il machine learning trasformi l’apparato di controllo in un Golem che si autonomizza e prende il potere governando al posto degli umani. Tuttavia, è tutt’altro che certo che quello degli algoritmi sia un governo effettivo, e questo per ragioni metafisiche difficilmente aggirabili: un meccanismo non può avere intenzioni, e dunque non può esercitare azioni di governo, ma solo amministrare e rappresentare decisioni prese da altri, che sono organismi. Un organismo è un corpo, ossia ha una fine, e dunque anche uno o più fini autonomi e interni; un meccanismo no, ha solo finalità esterne. E se è dubbio che un organismo possieda una speciale intenzionalità, è a maggior ragione dubbio che queste finalità siano a disposizione di un algoritmo; nella migliore delle ipotesi, si tratta delle intenzioni di chi lo programma. Ma confondere queste intenzioni con una qualche intenzionalità algoritmica non è diverso dal pensare che l’intenzione di uccidere Cesare stesse nei pugnali e non nei congiurati. Così, addossare agli algoritmi, per esempio, la responsabilità di un incidente prodotto da un’automobile a guida automatica non è diverso, in ultima istanza, dall’addossare la responsabilità di un incidente prodotto da un’automobile a guida umana all’auto invece che al pilota. Dire che gli algoritmi ci comandano è da questo punto di vista una espressione inappropriata, che nasconde una verità di tutt’altro tipo: e cioè che il web è potente perché, raccogliendo comportamenti e orientandoli in base a delle procedure, agisce in termini che Foucault avrebbe definito come “disciplinari”, solo che non c’è nessuno intenzionato a disciplinare, e quello che interessa davvero è l’indisciplina, il laissez faire che fa crescere i consumi (per fortuna!).

Virus

In una riflessione scritta di questi tempi non può mancare un capitolo sul virus, ma, nel caso specifico, lo trovo tutt’altro che abusivo o di circostanza. Il rapporto tra umani e web ha un punto essenziale in comune con il virus, e cioè che senza umani né il web né il virus farebbero molta strada. E non la farebbero non perché gli umani diano intelligenza al web o al virus (quest’ultimo, poi, a tutto è interessato tranne che alla nostra intelligenza), ma perché ne traggono motivazioni, movimento, insomma, ancora una volta, vita. Quella che si costituisce nel rapporto tra virus e umani, proprio come quella che si costituisce nel rapporto tra web e umani, è una biosfera. Si è osservato a giusto titolo che il virus per vivere e diffondersi ha bisogno delle nostre gambe; allo stesso modo, il web, per vivere e diffondersi ha bisogno delle nostre mani. E mani e gambe sono parti di un corpo vivente, prima che di una intelligenza. È, ancora una volta, il corpo che dà i motivi e le intenzioni.

Con una differenza essenziale, e cioè che il web riesce a tener traccia delle nostre azioni e intenzioni, restituendocele in termini di cultura, informazione, nuova motivazione, mentre il virus no. Detto di passaggio, la capacità di tener traccia delle nostre interazioni, garantita dal web, sta alla base del successo della Corea nello sconfiggere l’epidemia, e non vedo alcun motivo per non applicarlo nel resto del mondo. Siamo poi così sicuri di essere tanto interessanti? Consideriamo un diritto imprescindibile quello di nascondere i nostri contatti alla sanità? Pensiamo che la stretta securitaria, una volta applicata, imboccherà una strada di non ritorno? Sebbene la storia sia anche il regesto di un numero incalcolabile di azioni stupide, non saremo tanto stupidi da rinunciare al Parlamento solo perché in questi tempi delle fondatissime ragioni sanitarie ne sconsigliano l’attività in presenza – benché, non dimentichiamolo, ci sia stato qualcuno di tanto irriflessivo da suggerire che il Parlamento potrebbe essere sostituito da una piattaforma e qualcun altro che gli è venuto dietro proponendo la riduzione del numero dei parlamentari.

“A virus is haunting Europe – the vector is capitalism”

Ecco un titolo che è capitato di leggere in questi giorni, che esprime come meglio non si potrebbe l’attitudine superstiziosa che si nasconde dietro al complottismo di chi vede nel virus uno stratagemma degli americani, e poi degli italiani, e poi vai a capire di chi, per tenerci tutti a casa e attuare il colpo di stato. Questa superstizione, tanto più offensiva della dignità umana in quanto non nasce da schietta ignoranza, bensì dalla pretesa di saperla lunga, esiste in ogni tempo e in ogni luogo. Ne fa fede quel grande complottista che è Don Ferrante, il quale dopo essersi preso la peste perché a suo parere non esisteva, non essendo né sostanza né accidente, se ne andò maledicendo le stelle “come un eroe di Metastasio”. Oggi se ne sarebbe andato maledicendo il Kapitale, e sarebbe stato, ora come allora, uno stupido e un presuntuoso.

“Sed amentes sunt isti, nec minus ipse demens viderer, si quod ab iis exemplum ad me transferrem”. Torniamo dunque a noi, e consideriamo che il virus, più modestamente ma più saggiamente, fornisce una cartina di tornasole per dimostrare con sensate esperienze, cioè sulla nostra pelle e nella nostra vita, che il Web è biosfera e non solo infosfera, il che, senza rendere meno interessante l’infosfera, rende molto più interessante il Web. Elenco gli slogan su cui riflettere in inglese perché è in quella lingua che sono stati formulati, e in quella lingua risuonano nella nostra coscienza e nella riflessione.

Onlife

Primo punto, l’onlife, il virtuale che avrebbe preso il posto del reale, e, più radicalmente, la differenza ontologica tra onlife e offlife, la vita online e quella che online non è. Una differenza che tecnologicamente è sempre più problematica, se si considera che il 5G suppone che il territorio nel suo insieme divenga una grande chora, uno spazio di registrazione delle nostre azioni, unificando biosfera e docusfera (detto di passaggio, non è mancato chi ha incolpato il 5G della diffusione del virus, mais laissons). Ma una differenza che anche ontologicamente appare più fragile che mai, dal momento che il nutrimento della onlife è per l’appunto la offlife, che a sua volta trae intenzioni, motivazioni e bisogni dalla onlife. Il modo più corretto con cui oggi potremmo tradurre Onlife non è tanto la vita laggiù o lassù, sulla nuvola, quanto piuttosto: On Life, staccato, Sulla vita, De vita, Perì tou biou.

“Umani, lavatevi le mani”. Nel Trattato della creazione dell’uomo, che risale alla fine del quarto secolo della nostra era, Gregorio di Nissa stabilisce una correlazione essenziale tra l’acquisizione della mano e lo sviluppo del linguaggio, che Darwin riproporrà senza variazioni quattordici secoli più tardi. Se gli umani non avessero le mani, allora il loro volto, come quello dei quadrupedi, avrebbe una forma allungata, labbra adatte non ad articolare parole ma a brucare, e una lingua spessa e callosa buona per impastare gli alimenti. Il prerequisito per la formazione del linguaggio è meno il possesso di una massa cerebrale particolarmente sviluppata (come sarebbe logico seguendo l’ipotesi di Aristotele e di Heidegger) che non la disponibilità di una mano, d’accordo con Anassagora e Derrida. La mano libera la bocca, i denti e la lingua, e li rende disponibili per la parola: passaggio che non va inteso semplicemente come uno sviluppo fisiologico, ma anche come un evento tecnologico, economico e sociale. Perché la mano, diversamente dalla bocca, può munirsi di bastone, e procedere a una serie di capitalizzazioni che sarebbero impossibili se la bocca dovesse compiere l’ufficio della mano.

Sicuramente la libertà di movimento è una gran cosa che noi sottovalutiamo, perché in fondo diamo per ovvio che noi possiamo adoperare i piedi e le mani, di colpo scopriamo che ci possono essere delle limitazioni all’uso dei piedi con il comando – giustissimo – “Statevene a casa” e tante precauzioni da prendersi sulle mani perché le mani sono trasmissori di contagio. Perché? Perché usiamo le mani. E anche questo però filosoficamente ci fa ricordare una cosa importantissima. Noi siamo umani innanzitutto perché abbiamo le mani, non è solo un gioco di parole. Tutto quello che noi facciamo, dal toccare un computer al salutare qualcuno, all’aprire la porta, passa attraverso la mediazione della mano, perché è un mondo organizzato per gente che ha delle mani. Se noi invece avessimo dei becchi sarebbe organizzato in una maniera molto differente. Anche questo deve essere ricordato – e ce lo ricorda questa crisi – si è portati a dare delle versioni facili e futili dell’umanità come immersa in un Walhalla di nome Web. Certo che c’è la nuvola, ma alla fine di tutta questa nuvola ci sono delle mani che toccano una tastiera.

Alone together

“Let’s be alone together” non è solo un bellissimo verso di Waiting for the Miracle di Leonard Cohen, ma anche un pernicioso luogo comune che ci ha perseguitati in questi ultimi anni – il fatto che la socialità fosse finita, volata via nella nuvola, negli schermi, lontano. Se così fosse, la quarantena non ci cambierebbe nulla.

La quarantena, con le restrizioni di movimento e di contatto che ci impone, dimostra che tutte quelle discussioni erano vuote, false e nel migliore dei casi concettualmente inadeguate. Non eravamo affatto entrati nel mondo dello spirito, eravamo ancora e sempre carne, appetibilissima per il virus, che si trasmette con grande facilità proprio perché non ce ne stiamo in casa, ma andiamo in giro, ceniamo, sentiamo concerti, prendiamo aperitivi, saliamo su treni, autobus, aerei. È questo il virtuale? Chi vuole, può crederlo.

È stato Marx a farci notare che Don Chisciotte si basa sugli effetti stranianti che derivano dalla sopravvivenza di modi di vita e di ideali feudali in un mondo in cui il feudalesimo è scomparso. Rispetto al mondo industriale, l’umanità si trova in buona parte nella stessa situazione di Don Chisciotte. Crediamo di vivere, insieme, in una nuvola, e in un mondo che non è molto diverso da quello analizzato da Marx, e dunque ci immaginiamo gli stessi problemi (l’alienazione sul lavoro, lo sfruttamento e la mancanza) e le stesse soluzioni che si sarebbero potute trovare cent’anni fa. Non stupisce che le soluzioni non risolvano (perciò la sinistra è in crisi e il populismo ha successo), e che si creino conflitti tra valori, in particolare fra la tutela del lavoro e la tutela dell’ambiente.

Surveillance Capitalism

Il Panopticon è una immagine potente inventata da un grande filosofo, Bentham, e rilanciata da un altro grande filosofo, Foucault. Entrambi partivano dall’assunto che ci sia un reale interesse di un sorvegliante nel sorvegliare una o più persone. Nel caso di Bentham, che aveva inventato una prigione modello, l’interesse era ovvio. Nel caso di Foucault, che pensava a uno stato assoluto di stampo francese, poteva ancora andare. Ma nella turba dei loro seguaci che applicano la metafora a un Capitale (come se fosse un soggetto riconoscibile e dotato di intenzioni) l’idea dimostra solo vanità (ci crediamo dannatamente interessanti) e superficialità (non c’è nulla di comune fra uno stato verticistico di tipo francese e il rizomaticissimo capitale). Quello che è più grave è che l’idea, oltre che sciocca, è pericolosa, perché impedisce di adoperare le enormi possibilità di tracciamento permesse dal Web per sconfiggere il virus.

Non ci spiano, vogliono solo venderci prodotti a buon prezzo e in tempi rapidi, così ci guadagnano di più. A cosa serve infatti il potenziamento della registrazione? Forse alla costituzione di un grande panopticon per spiare le nostre idee? Questa è l’illusione, quasi la speranza, ma è darsi troppa importanza. Dal punto di vista delle libertà individuali, non c’è niente di più tollerante di un preteso capitalismo di sorveglianza. Quello che conta per il capitale documediale non è la sorveglianza, ma semmai la mobilitazione, messa in movimento e messa a profitto di risorse e creazione di valore. Se uno cerca di comprare un kalashnikov su Amazon, l’ultimo pensiero della piattaforma è denunciarlo. Semplicemente, la volta dopo gli propongono le bombe molotov (“chi ha comprato questo compra anche questo”). Il capitale scommette sui nostri futuri comportamenti ma, si noti bene, questi comportamenti non sono di tipo politico, bensì stili di consumo. In effetti, i comportamenti sono interessanti solo in quanto consumi. E perché mai dovrebbero interessare altrimenti?

In effetti, non è chiaro in cosa consista il potere degli algoritmi: indubbiamente raccolgono delle informazioni, ma poi cosa se ne fanno? Per adoperarli, dovrebbero possedere degli obiettivi, ma è proprio ciò che le macchine non hanno. Immaginare che il mio computer decida di prendere il potere non è diverso dall’immaginare che si annoi a leggere le parole che sto scrivendo. Le occasioni di noia non gli mancano, quello che gli fa difetto sono i motivi. Per desiderare il potere, proprio come per annoiarsi, bisogna disporre di un organismo, che subisce delle pressioni ambientali ed è il risultato di una storia evolutiva ancora in corso. In questo senso, l’idea di una governamentalità algoritmica appare altamente problematica: se è algoritmica, non è governamentalità, visto che l’algoritmo non ha obiettivi; se è governamentalità, non è algoritmica, ma può al più servirsi di correlazioni stabilite dagli algoritmi per scopi – si badi bene! – non governativi ma elettorali. Con un processo che a ben vedere capovolge il panopticon, trasformando il Palazzo in una casa di vetro chiamata a rispondere in ogni momento ai mutevoli umori dei follower. Anche in questo caso, uno spostamento simmetrico, da una azione cosciente a una azione automatica.

Ecocolonialism

I più alla buona si limitano a sostenere che viviamo nell’antropocene, ossia nel mondo modellato interamente dagli umani; i più sofisticati pretendono invece che a modellare tutto questo è il Kapitale che ha colonizzato il mondo. Dare la colpa di quello che avviene a Giove e Giunone sarebbe più poetico ma ugualmente falso. Ma lasciate da parte le mitologie e gli animismi, veniamo alle solide preoccupazioni di chi teme per l’ambiente. Anche qui, però, con una cautela.

Chi diceva “dobbiamo salvare il pianeta” diceva una nobile sciocchezza. Ci sono forme di vita, tra cui il Coronavirus, che si sostituiscono a noi con successo, alla faccia dell’antropocene (concetto in se stesso dubbio e che ora rivela tutta la sua presunzione), riducendo le polveri sottili e l’inquinamento più di ogni decreto. Non dobbiamo salvare il pianeta, dobbiamo salvare l’umanità, che è tutto un altro paio di maniche.

Dal punto di vista della natura questo è un grandissimo momento, il virus non è mai stato così bene come adesso. Il buco dell’ozono e tutto quello che noi abbiamo fatto, di cui noi siamo responsabili, sicuramente a lui non fa un baffo, posto che i virus abbiano dei baffi. Il punto è differente. Cioè che ci rendiamo conto di quanto la condizione umana sia fragile e quindi c’era un certo titanismo che stava dietro all’idea che “basta che si prendano delle decisioni politiche e l’umanità è salvata dalla distruzione dell’ambiente”. È importante che si prendano delle decisioni politiche, è importante che l’umanità salvi se stessa, ma serve all’umanità che le decisioni politiche non bastano perché la natura comunque è più forte.

Il virus ci ricorda anche ciò che il buon senso non dovrebbe mai farci dimenticare, e cioè che la terra è rotonda, con buona pace dei terrapiattisti, e che dunque gli esseri umani, così come i virus, sono destinati a entrare in contatto invece che a disperdersi. Non solo i virus, ma le idee, non conoscono confini; il virus è indubbiamente meno interessante delle idee, ma dal virus, come da ogni difficoltà, possono venir fuori delle buone idee. O si possono smentire le cattive idee. È il caso manifesto in cui una idea confusa e anacronistica trova la sua immediata obsolescenza alla prova dei fatti. O più esattamente si rivela per quello che è: egoismo. Lo si potrà magari nobilitare, come fece Antonio Salandra quando giustificò come “sacro egoismo” il venir meno ai patti con l’Austria e la Germania e la discesa in campo a fianco dell’Intesa, ma sempre egoismo è. Come il cosmopolitismo, e per gli stessi motivi (la terra è rotonda) la globalizzazione è un destino, ed è un destino auspicabile, visto che riduce le differenze tra gli esseri umani e ottimizza la ridistribuzione delle risorse. Immagino l’obiezione di chi osservi che la globalizzazione ottimizza anche la distribuzione dei virus, e mi è capitato di leggere che il Coronavirus ci presenta il conto della globalizzazione. Difficilmente si potrebbe dire qualcosa di più sbagliato. La peste nera che nel Trecento uccise un terzo della popolazione europea veniva dalla Cina proprio come il Coronavirus. O c’era la globalizzazione nel Trecento (il che in un senso è vero, ma per ogni tempo, appunto perché la terra è rotonda) o il Coronavirus non ci presenta il conto di un bel niente.

La macchina non va da sé

Un’ultima frase, questa volta in italiano: “la macchina non va da sé”. Se restasse qualche dubbio sul fatto che l’infosfera non è che una parte minima e dipendente della biosfera (il che è ovvio) e dello stesso Web in quanto forma attuale della biosfera, resta la prova del virus e della sua forza. L’intelligenza artificiale si nutre di intelligenza naturale, cioè dei nostri comportamenti, e questi sono determinati dal fatto che siamo organismi, con un metabolismo che ci impone ritmi vitali. Ancora una volta, il Web non è anzitutto una infosfera, ma una biosfera, un ambito in cui la vita viene registrata, calcolata, definita nelle sue regolarità, e soprattutto in cui la vita detta i tempi e le urgenze, tanto nelle condizioni ordinarie quanto in quelle straordinarie. Proprio perché la nostra è una biosfera, conviene che ce ne stiamo a casa. Il che offre una possibilità unica alla vita degli individui e delle collettività, quella di dedicare del tempo alla riflessione e alla progettazione, a partire dalle contingenze (per esempio, come si organizza un insegnamento a distanza e come si perfeziona il telelavoro? Sono cose che torneranno utili in futuro) per poi venire a piani di più lungo respiro, che possono trarre un enorme vantaggio dal silenzio circostante.

La vita è ora il grande raccoglitore che assume su di sé un duplice scopo: quello di fornire dati e quello di costituire il fine ultimo di tutta la macchina, che si può automatizzare quanto si vuole, ma resta subordinata ai bisogni e ai consumi. Una caratteristica che in età documediale si rafforza, venendo in primo piano. A cosa serve il potenziamento della memoria? Forse alla costituzione di un grande panopticon per spiare le nostre idee? No, serve alla costruzione di una grande officina virtuale in cui, a lavorare, saranno gli algoritmi istruiti dai nostri comportamenti, e capaci con questo di realizzare una automazione perfetta. Perfetta per cosa? Per sostituire l’umano. In questo senso, una automazione perfetta non si dà in quanto l’umano è strutturalmente imperfetto (il bisogno); proprio per questo, però, l’automazione ha un senso: la sostituzione quanto più perfetta possibile dei bisogni di un animale particolarmente imperfetto, perché sottoposto al bisogno, come ogni altro organismo, e particolarmente ambizioso e instabile, più degli altri organismi. Questo punto non è un dettaglio: le macchine possono fare tutto, ma non vanno da sé, richiedono la temporalità e la finalità che viene loro dai bisogni umani. Proprio per questo, e per definizione, le macchine non si autoprogettano, perché nella produzione c’è una finalità che può venire solo dal sistema di bisogni e di processi irreversibili che caratterizzano gli umani. Quello che è in gioco, qui, non è l’intelligenza, ma la ragione in quanto facoltà dei fini.

Il virus è la sintesi del rapporto tra organismo e meccanismo che ha luogo ovunque nella tecnica e in modo particolarmente evidente in quella tecnica onnipervasiva che è il Web. La macchina non va da sé, il meccanismo ha bisogno di un organismo, e questo non tanto perché l’organismo metta in rete delle informazioni o chissà che altro, ma semplicemente perché l’organismo, ogni organismo, ha una finalità interna (ossia, a rigore, una assenza di finalità: si nasce per morire, non c’è altro) che però, nel caso dell’organismo umano, si articola con successo con una serie di supplementi tecnici, che hanno moltissimo senso (il coltello è fatto per tagliare, il libro per leggere…) ma che li perderebbero immediatamente nel momento in cui gli umani dovessero scomparire dalla faccia della terra. Come risultato, non solo la biosfera è una vita vestita (la nuda vita lasciamola a quelli che amano vedere nelle misure antivirus un Komplotto), ma il tessuto essenziale da cui è protetta e rivelata, oggi, è il Web.

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