Con l’impiego sempre più pervasivo di big data anche il mondo dei bambini – a cominciare dai neonati – viene sottoposto a “datizzazione”. E il bello è che cominciamo a considerarlo “normale”.
Datizzazione dell’infanzia
Ad esempio, qualche tempo fa, la Children’s Commissioner for England (Autorità Garante per l’Infanzia) ha pubblicato un report sulla datizzazione dell’infanzia e sui rischi nel breve e nel lungo periodo, concludendo che appunto siamo di fronte alla prima generazione datizzata dalla nascita.
In realtà, spesso i nascituri iniziano a avere un’impronta digitale ancora prima di nascere, ad esempio quando i genitori condividono sui social media la prima ecografia per annunciare la gravidanza. E la datizzazione dei più piccoli continua dopo la nascita in molte pratiche dei genitori: dallo sharenting – vale a dire, la condivisione di immagini e video dei bambini sui social media – all’uso di baby monitor o dispositivi indossabili per tracciare i parametri vitali dei neonati. Le opportunità di tracciamento di un numero sempre maggiore di comportamenti e dati biometrici crescono al crescere dell’età, sia nell’ambiente domestico, sia fuori casa.
Le nostre case ospitano dispositivi smart, dotati di sensori e connessi in rete, con cui i bambini interagiscono, come gli smart speakers. Ma esiste un mercato di Internet of Things pensato proprio per i più piccoli, dai già ricordati wearables – come gli smart watches – all’Internet of Toys.
Per non parlare di smartphone e tablet, con cui i bambini entrano in contatto dai sei mesi di età, si stima, con un milione di data tracker all’anno. Nei contesti extra-domestici, dati sui bambini vengono raccolti in ambito sanitario, scolastico, ma anche attraverso le videocamere di sorveglianza che popolano gli spazi pubblici, o i sistemi di sicurezza degli aeroporti, ecc.
Vantaggi della raccolta dati
La raccolta sistematica di dati personali e comportamentali ha dei vantaggi evidenti, ad esempio nel campo educativo, dove consente di personalizzare il curriculum sulla base delle esigenze di apprendimento e del profilo psicologico di ciascun studente. Anche l’Internet of Toys incoraggia pratiche di gioco e di apprendimento più interattive e coinvolgenti, in cui convergono il gioco fisico e quello digitale.
Il rischio manipolazione
Tuttavia, aumentano anche le preoccupazioni per le conseguenze di una pervasiva profilazione dei bambini e delle loro abitudini di consumo. La datizzazione della vita quotidiana dei più piccoli, infatti, risponde pienamente alla logica del capitalismo della sorveglianza, per dirla con Soshana Zuboff (2015 e 2018): un’economia basata sui dati monitora, quantifica e capitalizza quanti più comportamenti possibili, al fine di costruire comunicazioni e prodotti sempre più targettizzati, e di prevedere, manipolandoli, i comportamenti futuri.
I dispositivi connessi, inoltre, permettono di raggiungere più facilmente un pubblico che è molto più difficile da intercettare con pubblicità sulla televisione generalista, perché le famiglie con bambini piccoli sono più inclini a sottoscrivere abbonamenti alla televisione satellitare o a piattaforme di SVOD (subscrition video on demand).
Non è un caso, ad esempio, che nella campagna comunicativa del 2016 contro i giocattoli My Friend Cayla e Genesis Toy, il Norwegian Consumer Council denunciasse anche la presenza di pubblicità occulta: nelle loro conversazioni con i bambini, infatti, la bambola e il robot sponsorizzavano una serie di prodotti, dai cereali per la colazione all’ultimo film di animazione.
Non mancano, poi, denunce della vulnerabilità dei dispositivi smart e delle piattaforme connesse, che esporrebbero – e in certi casi hanno effettivamente esposto – dati personali di bambini e genitori a violazioni e furti.
Algoritmi, i pericoli di bias
Ma a preoccupare sono soprattutto le conseguenze di lungo periodo dei dossier digitali che racchiudono i dati di una persona raccolti fin dalla sua nascita. Il rischio di discriminazioni e di nuove diseguaglianze digitali e sociali è forte, soprattutto se l’accesso a istruzione, opportunità lavorative, finanziamenti e mutui, sanità, ecc., saranno sempre più regolamentati attraverso sistemi automatizzati.
Il rischio è, per fare un esempio, che un ragazzo cresciuto in un quartiere svantaggiato da genitori che abbiano commesso qualche reato, oppure che si siano trovati nell’incapacità di pagare le rate del mutuo, si trovi escluso dall’accesso a opportunità di miglioramento della propria condizione economica e sociale (l’accesso all’istruzione universitaria, o credito) perché gli algoritmi lo classificherebbero come soggetto a rischio.
E c’è poi il rischio di normalizzazione della sorveglianza (e dell’auto-sorveglianza) nelle pratiche quotidiane e negli immaginari sociali. Come scrive David Lyon (2018), siamo passati da una società della sorveglianza a una cultura della sorveglianza, in cui il monitoraggio, la quantificazione e la datizzazione di noi stessi e degli altri diventano non solo socialmente accettati ma anche desiderabili.
Pensiamo alle pratiche di “sorveglianza intima” (Leaver, 2017) con cui i neogenitori tengono traccia delle poppate, dei pannolini cambiati, delle ore di sonno, del respiro e del battito cardiaco durante il sonno, ecc., con il supporto di app e dispositivi indossabili. Ciò che queste pratiche suggeriscono è, appunto, la normalizzazione della sorveglianza nella relazione di cura: prendersi cura dei propri bambini significa oggi, anche, registrare e condividere dettagli sempre più minuziosi della loro vita.
Assuefazione alla sorveglianza
Se le aziende produttrici fanno leva sulle ansie e le paure dei genitori, non è chiaro come questi dati possano essere usati, né da chi. E cosa significa crescere interiorizzando quello che Couldry e Mejias (2019) chiamano il “panottico rovesciato”, vale a dire, l’assuefazione all’essere sempre sorvegliati che ci induce a comportarci come se non lo fossimo?
Le conseguenze della datizzazione dell’infanzia sul piano cognitivo, sociale e politico sono, quindi, potenzialmente distruttive e ci invitano a interrogarci sui diritti di cittadinanza che ormai diamo per scontati. Ogni volta che, nel corso di una crisi, siamo spinti a cedere una parte della nostra libertà in nome della sicurezza, personale o collettiva; o ogni volta che concediamo una parte sempre maggiore della nostra quotidianità alla dataveillance (sorveglianza digitale), in cambio di prodotti e comunicazioni sempre più personalizzate, riflettiamo non solo sui benefici immediati, ma su cosa significherà per la generazione dei nostri figli, i cittadini di domani.
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Bibliografia
Couldry, N., & Mejias, U. (2019). The costs of connection: How data is colonizing human life and appropriating it for capitalism. Stanford, CA: Stanford University Press.
Leaver, T. (2017) Intimate Surveillance: Normalizing Parental Monitoring and Mediation of Infants Online. Social Media + Society 3(2).
Lyon, D. (2018). The Culture of Surveillance: Watching as a Way of Life. Cambridge: Polity.
Zuboff, S. (2015). Big other: surveillance capitalism and the prospects of an information civilization. Journal of Information Technology, 30(1), 75–89.