l'analisi

De-colonizzare la mente: ecco il modo per salvarci dal feticismo alienante per l’IA

Quanto più la realtà tecnologica è aumentata, tanto più siamo alienati, cioè diminuiti nel nostro essere e vivere. È allora tempo di immaginare una nostra individuale e collettiva de-colonizzazione della mente

Pubblicato il 15 Mar 2023

Lelio Demichelis

Docente di Sociologia economica Dipartimento di Economia- Università degli Studi dell’Insubria

Programma nazionale intelligenza artificiale

Torniamo a ragionare di intelligenza artificiale e dei suoi effetti. Non ci eravamo ancora ripresi dell’annuncio di ChatGpt che ecco arrivare la contromossa di Alphabet con Bard. E subito ecco scatenarsi – ormai è un processo compulsivo, una reazione pavloviana – i tecno-entusiasti che prontamente accompagnano, come nuovi intellettuali organici, la propaganda a sostegno di questi ultimi sviluppi del digitale e della digitalizzazione del mondo e della vita e delle imprese oligopolistiche che la incarnano e promuovono essenzialmente per i loro profitti.

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E prima di avviare la nostra riflessione – ma in realtà ne è già parte – ricordiamo come Alphabet ha presentato Bard al pubblico: “Aiuterà persone, imprese e comunità a sviluppare il loro potenziale”. Che è più o meno lo stesso slogan che da almeno tre decenni l’industria hi-tech usa (come quella del tabacco e dell’auto o dei farmaceutici) per venderci ogni volta una sua innovazione e farla accettare come positiva a prescindere oltre che come mezzo virtuoso e assolutamente necessario per aiutarci ad accrescere appunto il nostro potenziale, che poi sarebbe il nostro capitale umano da usare sul mercato per valorizzarci come merce nel mercato del lavoro. In realtà, sempre per assecondare le esigenze delle imprese (la massimizzazione del profitto e degli extraprofitti), cioè per accrescere la nostra produttività e stimolare/attivare il nostro empowerment/engagement e il nostro self-management per l’impresa e per i suoi obiettivi di profitto privato: ma mai per noi stessi. Ovvero, anche quella per Bard è pubblicità-propaganda dove, come per ogni pubblicità, importante [1]è far sembrare nuovo ciò che quasi sempre non lo è veramente (perché è sempre e comunque capitale e capitalismo nelle sue incessanti trasformazioni): importante è farci credere che quell’innovazione è sinonimo di progresso e che dunque non si può e non si deve fermare (altrimenti si fermano i profitti privati).

L’idillio con la tecnologia

Dunque, ChatGpt e Bard e i.a. (né intelligente, né artificiale[2]). E torniamo dunque a riflettere e a valutare come queste tecnologie si relazionano con gli umani, in che modo le loro forme e norme tecniche diventano forme e norme sociali (Anders), in particolare ma non solo nel mondo del lavoro.

Raniero Panzieri, agli inizi degli anni ’60 del secolo scorso, si lamentava del fatto che lavoratori e sindacati e partiti di sinistra (per la destra, ciò era scontato) avessero una concezione tecnologico-idilliaca della tecnologia; che cioè fossero di fatto industrialisti e positivisti forse più degli stessi capitalisti – e secondo Marx, il socialismo era la fabbrica meno il capitalismo; per Gramsci la fabbrica era il modello virtuoso da utilizzare per una società socialista; e i post-operaisti hanno creduto, ma non solo loro, che la rete fosse il general intellect marxiano finalmente realizzato. Un positivismo-industrialismo nato nella prima metà dell’Ottocento e che continua fino al digitale di oggi – e nelle tecniche di organizzazione basate sul problem solving – passando per pragmatismo, empirismo e soluzionismo; dove società e industria devono diventare una cosa sola (si pensi a Saint-Simon e a Comte), un positivismo-industrialismo comune anche a Marx e che ha poi inquinato appunto tutti i marxismi successivi, non vedendo che la tecnologia contiene in se stessa le norme dell’organizzazione, del comando e della sorveglianza/controllo del lavoro e che non basta quindi contestare il capitale se insieme non si fa conflitto anche con le tecnologie che il capitale usa e da cui viene incessantemente potenziato. E che soprattutto gli permettono di organizzare, comandare e sorvegliare diversamente ma sempre più pervasivamente e invasivamente – dalla catena di montaggio alla rete – il lavoro delle persone aumentandone così sempre di più la produttività e – in particolare – il pluslavoro, sempre per massimizzare il plusvalore.

Scriveva Panzieri: la tecnologia incorporata nel sistema capitalistico “consolida sistematicamente la divisione del lavoro quale mezzo di sfruttamento della forza-lavoro in una forma ancor più schifosa. Dalla specialità di tutta una vita, consistente nel maneggiare uno strumento parziale, si genera la specialità di tutta una vita nel servire una macchina parziale. […], ma allo stesso tempo si completa la sua assoluta dipendenza dall’insieme della fabbrica, quindi dal capitalista”.

Lo stesso progresso tecnologico “si presenta quindi come modo di esistenza del capitale, come suo sviluppo. […] la macchina non libera dal lavoro l’operaio, ma toglie contenuto al suo lavoro[3]; come accade oggi arrivando appunto a digitale/i.a./Fabbrica 4.0/taylorismo digitale, capitalismo delle piattaforme, capitalismo della sorveglianza – dove lavoro è toccare uno schermo e rispettare le tempistiche e le sequenze dettate da un algoritmo/manager. E quindi, non vedendo (non volendo vedere, presi dal nostro feticismo/misticismo per la tecnologia) la realtà della stretta connessione e funzionalità tra razionalità e capitale, “si tende a riconoscere la scomparsa della parcellizzazione delle funzioni e lo stabilirsi di nuove mansioni a carattere unitario, che sarebbero qualificate da responsabilità, capacità di decisione, molteplicità di preparazione tecnica [oggi si chiama economia della conoscenza, eccetera eccetera, ma è sempre impoverimento del lavoratore e delle sue conoscenze]. Lo sviluppo delle tecniche e delle funzioni connesse al management viene [così] isolato dal concreto contesto sociale in cui si produce, cioè dal crescente accentramento del potere capitalistico [oggi cresciuto ancora di più, proprio grazie al digitale e alla possibilità di organizzare, comandare e controllare il lavoro just in sequence] e perciò considerato come il supporto di nuove categorie di lavoratori (i tecnici, gli intellettuali della produzione)”.

Dimenticando che “nell’uso capitalistico, non solo le macchine, ma anche i metodi, le tecniche organizzative, ecc. sono incorporati nel capitale, si contrappongono agli operai come capitale: come razionalità estranea”. Come appunto accade oggi con il digitale/i.a., come ieri nella catena di montaggio e nel taylorismo, ma soprattutto con quella che chiamiamo razionalità strumentale/calcolante-industriale[4]: finalizzata/strumentale alla massimizzazione del plusvalore; sulla base del mero calcolo matematico/algoritmico; e industriale perché tutto oggi è industria e industrializzato essendosi compiuta l’uscita della fabbrica dalla fabbrica (ancora Panzieri), tutta la società e ogni ambito della vita essendo cioè modellizzato e managerializzato secondo la forma e la norma di organizzazione, comando e sorveglianza della fabbrica[5]. Dalla produzione al consumo, dalla socializzazione alla cultura, dalla scuola al divertimento, dal tempo libero ai social.

We love IA

E oggi anche nella i.a. siamo dominati da una visione – da una way of life, da uno spirito del mondotecnologico-idilliaca che ci fa dimenticare ogni spirito critico e che soprattutto ci fa dimenticare che le tecnologie di oggi non sono come le tecnologie di ieri (dirlo sembra una banalità, ma dirlo è sempre più necessario), perché la vecchia macchina da scrivere meccanica era una macchina singola e isolata dalle altre macchine, mentre il pc è una macchina connessa e integrata/convergente con altre macchine e noi con essa (Anders e il principio di convergenza della macchine in mega-macchine[6]), e che oggi si sviluppa ulteriormente nell’i.a. o meglio, in macchine che imparano da sole – che lo facciano bene o male ha una importanza relativa, drammatico è invece il nostro delegare sempre più alle macchine (e alla logica calcolante e strumentale che le pervade), la valutazione e la decisione, la conoscenza, il sapere, ma anche, soprattutto e molto peggio, l’organizzazione, il comando e la sorveglianza/controllo della nostra vita. Senza noi vedere che la Fabbrica 4.0, il digitale sono solo e sempre la vecchia organizzazione scientifica del lavoro con in più il digitale; e soprattutto che non cambia la sua legge ferrea – la legge ferrea del lavoro industriale e oggi industriale-digitale, cioè dividere/individualizzare il lavoro e poi riconnettere le parti attraverso un mezzo di connessione che produca un effetto (prodotto finito, profitto privato, accrescimento incessante del sistema) maggiore della semplice somma della parti di lavoro/vita prima divise e individualizzate; ieri, appunto, il mezzo di connessione era la catena di montaggio meccanica, oggi lo è la catena di montaggio digitale.

Perché è vero che a tutti noi piace sentirci speciali e valorizzati/valorizzarci, essere diversi dagli altri (mentre ci facciamo come gli altri). E a farci credere di essere diversi e speciali è abilissimo il management/marketing con le sue retoriche appunto di empowerment, engagement, management della felicità, entertainment; o con parole come apprendimento e personalità, socializzazione, potere, decisione, natura degli atteggiamenti, dissonanze cognitive, teorie della motivazione, achievement-potere-affiliazione, rinforzi, goal setting, progettazione organizzativa, modello meccanico/organico, aspettativa-valenza, tipologie di gruppo/team collaboration, fattori di contesto, team leadership, processi di influenza, piano strategico, approccio comportamentale, organizzazione e ambiente, cultura organizzativa, approccio per obiettivi o dei costituenti strategici, change management, eccetera. Ma poi il management/marketing (cioè la costruzione e la gestione eterodiretta dell’organizzazione, del comando e del controllo sulla forza-lavoro produttiva e consumativa) sono appunto integrati sempre più nella tecnologia (oggi nella i.a.), applicando i dispositivi esistenziali dettati dalla razionalità strumentale/calcolante-industriale-industrialista. E quindi anche il management/marketing si trasforma in management algoritmico, ma sempre partendo da Taylor e dalla sua organizzazione scientifica (appunto!) del lavoro, ma che grazie alla psicologia (incorporata oggi negli algoritmi) cercava, già più di cento anni fa di manipolare la psiche dell’operaio Schmidt e di convincerlo (”tu sei speciale, sei un uomo di valore, non sei come gli altri della squadra che invece valgono poco, quindi puoi dare e fare molto di più”) ad aumentare la sua produttività (caricando ghisa su un vagone) del 280%, in cambio di un aumento salariale del solo 60% (e la differenza, con Marx, si chiama appunto pluslavoro per il plusvalore dell’impresa), e soprattutto essendo anche felice di farlo, astenendosi da ogni rimostranza e critica. Ovvero, è sempre il vecchio management, trasportato anche nella Silicon Valley apparentemente innovativa e creativa ma cinica come sempre il capitalismo – e si legga La valle oscura di Anna Wiener[7] – e si pensi ai massicci licenziamenti di questi ultimi mesi in tutti i colossi dell’hi-tech.

E noi tutti accettiamo questo sistema aberrante di sfruttamento dell’uomo (e dell’ambiente), proprio per quella visione tecnologico-idilliaca denunciata da Raniero Panzieri. Che è frutto della familiarizzazione con la tecnologia che gli uomini da sempre – essendo incapaci di vivere senza tecnologia – vivono usando attrezzi, sempre però non vedendo che le macchine/tecnologie di oggi non sono quelle di ieri, che se ieri chi governava e usava le tecnologie era comunque un uomo consapevole di come farlo, oggi sono gli uomini ad essere usati e messi al lavoro dalle tecnologie utilizzate dal capitale, del tutto inconsapevoli di come funzionano le macchine/algoritmi che li fanno funzionare funzionali all’organizzazione, al comando e al controllo da parte dell’impresa/management/marketing. E quindi e ancora, la tecnologia, appunto, non libera l’uomo ma lo integra/sussume sempre più nella tecnologia, ponendolo al servizio della massimizzazione del plusvalore per il sistema tecno-capitalista.

Familiarizzazione con la tecnica e feticismo

E questo grazie appunto alla nostra familiarizzazione con la tecnologia, oggi digitale – e torniamo di nuovo a tutte le retoriche e alle false promesse che hanno accompagnato e ancora accompagnano (supra, Alphabet per Bard) le cosiddette nuove tecnologie fin dal loro apparire sul finire del Novecento (“grazie alle nuove tecnologie lavoreremo meno, faremo meno fatica, avremo più tempo libero”, si diceva e ci dicevano economisti, sociologi, politici e guru tecnologici), producendosi però esattamente il contrario, noi continuando anche oggi, tuttavia, compulsivamente e paranoicamente, ad avere una visione tecnologico-idilliaca del digitale e dell’i.a. Sempre a prescindere da ogni spirito critico e riflessivo: pensiero critico che il sistema tecno-capitalista ovviamente non permette (sarebbe di intralcio al profitto) che nelle scuole venga insegnato, chiedendo alla scuola di ogni ordine e grado di produrre solo competenze a fare e non pensiero critico/conoscenza per capire cosa si sta facendo e come e perché.

Scriveva ancora Günther Anders: “Oggi è possibile giustificare ogni macchina, per quanto spaventosa essa sia, se si riesce a far cadere sui suoi critici il sospetto di essere degli eversori di macchine. E poiché non c’è nulla di più facile, la cosa riesce sempre”[8] – e questo è, di nuovo, il modo con cui il nostro human engineering alla digitalizzazione/ia viene perseguito, indotto, prodotto oggi.

Cioè la familiarizzazione non è affatto l’antagonista dell’alienazione: “Radice principale della familiarizzazione è infatti – per quanto paradossale ciò possa sembrare – l’alienazione stessa […]. Infatti, chi presta bonariamente fede alla familiarizzazione, chi vede in essa la vera forza avversa all’alienazione cade vittima di quell’inganno che costituisce il suo scopo, [ovvero] la familiarizzazione giova all’alienazione. Difatti la sua opera principale sta nel nascondere le cause e i sintomi dell’alienazione, la sua squallida realtà; nel togliere all’uomo la capacità di accorgersi che lo hanno straniato dal mondo e il mondo da lui, insomma nel mascherare l’alienazione, nel rinnegarne la realtà e quindi nello sgomberare il campo alla sua sfrenata attività [sfrenata attività, cioè: produttività crescente, cioè consumismo crescente, profilazione crescente, mobilitazione totale – che è ciò che serve al tecno-capitalismo per accrescere il proprio plusvalore, attraverso un continuo incremento della produttività e del pluslavoro di noi forza-lavoro del sistema]; e attua il suo proposito popolando senza sosta il mondo di immagini di cose apparentemente familiari [e cosa c’è oggi di più familiare di uno smartphone e di una app o di ChatGpt e domani di Bard…], come un unico e gigantesco ambiente domestico, come un universo di agio e cordialità [ancora gli assistenti virtuali, i social, le community]. Tale prestazione costituisce la ragion d’essere della familiarizzazione[9]. Di nuovo, perché questa è la natura del tecno-capitalismo e tutta la società è organizzata, comandata e sorvegliata come una fabbrica (e la fabbrica – e non la proprietà privata dei mezzi di produzione – scriveva Simone Weil già nel 1934, contestando Marx e i marxisni, è la causa vera dell’oppressione sociale[10], una sociètà-fabbrica dominata dalla religione delle forze produttive, cioè della produzione per la produzione, sempre per accrescere sempre più la nostra produttività, il nostro pluslavoro (massimo quando produciamo dati), quindi per accrescere il profitto privato del capitale.

L’alienazione ben mascherata

E di alienazione umana rispetto alla tecnologia – nel lavoro, nella vita, nella conoscenza, da sé stessi – ha scritto recentemente anche il critico Alfonso Berardinelli, in una bella riflessione su Avvenire: “L’Intelligenza artificiale occuperà spazi sempre maggiori che oggi sono ancora occupati dalle nostre personali attività cerebrali e dalle nostre già bistrattate facoltà mentali. Più si delegano a un dispositivo meccanico le attività della mente e più la mente impigrisce fino a tendere all’atrofia. Ricordate la parola alienazione nel doppio significato sociale e psichiatrico? Alienazione è il processo per cui ciò che dovrebbe appartenere all’essere umano come soggetto cosciente e pensante, viene trasferito dall’organizzazione sociale ad apparati esterni, oggettivi, che espropriano l’individuo delle sue potenzialità e capacità. Il soggetto che ognuno di noi è, si vede costretto a servirsi, nel lavoro e nel tempo libero, di dispositivi di cui riconoscere e accettare la superiore efficienza cognitiva e pratica. Anche una carrucola, anche un mulino, erano macchine. Ma le macchine attuali si introducono non solo nelle nostre attività quotidiane, entrano nei nostri cervelli e li spossessano. […] L’automazione non diminuisce, aumenta l’alienazione. Nonostante la fatica sprecata, un individuo che guida un’automobile è più libero di un individuo che ne è guidato”[11].

Il richiamo al concetto/processo dell’alienazione, fatto da Berardinelli, è molto opportuno ed era stato oggetto di un nostro saggio uscito nel 2018 e ora tradotto anche in inglese[12]. Alienazione, sì: sociale e psichiatrica, esistenziale ed economica nel senso di Marx, alienazione dalla conoscenza, dalla consapevolezza, dalla responsabilità. Scrivevamo allora: “In verità i processi tecnologici e capitalistici in corso producono effetti totalmente opposti rispetto alle promesse, allo storytelling e alla propaganda. Ma è sbagliato credere – per le macerie sociali, culturali, antropologiche e politiche (compreso il populismo) che tecnica e neoliberalismo lasciano dietro di sé – che ciò che abbiamo definito come tecno-capitalismo (2015) sia in crisi o al tramonto. Continua infatti a produrre egemonia e dominio per sé, contro la società, l’individuo e l’ambiente. Ma il tutto è ben mascherato dal sistema stesso, posto che nessuno si ribella, nessuno cerca alternative – e anche il populismo è una merce politica funzionale al tecno-capitalismo – e tutti si adattano alle dinamiche del sistema e alle molte e apparentemente diverse forme di alienazione che il tecno-capitalismo produce. Ma che appunto abilmente maschera [con divertimento, social, intrattenimento, consumismo, Netflix, Festival di Sanremo, eccetera] per sostenere e promuovere la propria infinita ri-producibilità”.

Oggi è una alienazione ancora meglio mascherata/nascosta appunto dalla i.a., da ChatGpt, da Bard, cioè dalla sempre crescente familiarizzazione con la tecnologia e con la razionalità strumentale/calcolante-industriale che la predetermina; una familiarizzazione che è innata nell’uomo (ci piace la tecnologia, soprattutto se sembra un giocattolo e se è facile da usare), ma che il tecno-capitalismo esaspera, usandola per i propri fini, producendo appunto (è la sua pedagogia quotidiana, il suo human engineering) la nostra formattazione tecnica oltre che capitalistica, illudendoci di essere liberi quando in realtà siamo appunto sempre più alienati da noi stessi quanto più deleghiamo la nostra vita a macchine/algoritmi, quanto più siamo sussunti in una macchina/algoritmo/i.a. – ovvero nel sistema tecno-capitalista e nella sua irrazionalità ecocida e antisociale.

Alienazione, accanto al suo apparente contrario. “Queste recenti iniziative” – ha scritto Éric Sadin (e torniamo al nostro feticismo alienante per la tecnologia) – “si ispirano a un immaginario tecnologico ancestrale, che a un livello di sofisticatezza estrema vorrebbe incarnare una replica umana. Frontiera ultima della cibernetica propugnata soprattutto da Norbert Wiener, che già dal 1948 cercò di sviluppare una macchina in grado di riprodurre i meccanismi del cervello umano. Una specie di passione narcisistica e nevrotica volta a ricalcare la nostra natura […] ma sempre in versione superiore o aumentata[13]. Senza appunto capire – dopati come siamo di narcisismo e di feticismo tecnologico – che in questo modo perdiamo noi stessi, non solo per come fare una addizione, ma il senso stesso della vita, dove tutto si è ridotto a calcolo e solo a calcolo. Con un gioco di parole, potremmo cioè dire che quanto più la realtà tecnologica è aumentata, tanto più siamo alienati, cioè diminuiti nel nostro essere e vivere.

E paradossalmente – ma non troppo, questo essendo per noi il fine e la pianificazione del mondo e della vita generata della razionalità strumentale/calcolante-industriale – “proprio i tecnolibertaristi, che proclamano di continuo il diritto naturale alla libertà assoluta, istituiscono un modello industriale e civile che neutralizza il nostro diritto naturale a fare uso della soggettività, orientando o dettando un numero sempre più esteso e vario dei nostri stessi gesti. […] Lo spirito della Silicon Valley è anche questo, gestire il mondo in funzione di interessi particolari, dando a credere [ancora la familiarizzazione con la tecnologia] di non aver mai vissuto un periodo storico più cool, collaborativo e creativo di questo”[14].

De-colonizzare la mente

Se la Silicon Valley (luogo fisico e metafisico insieme – dove tecnologia & capitalismo sono alla loro massima potenza, in attesa di nuove conquiste) ha colonizzato il mondo intero – soprattutto il mondo psichico degli umani – è allora tempo di immaginare una nostra individuale e collettiva de-colonizzazione della mente. Ricordando che il soggetto colonizzatore non è il capitalismo/capitale o la tecnologia, ma appunto, ex ante, la razionalità strumentale/calcolante-industriale che pre-determina l’uno e l’altra. Leggere/rileggere L’uomo a una dimensione di Marcuse[15] ci potrebbe aiutare. Molto.

Bibliografia

  1. V. Packard, “I persuasori occulti”, Einaudi, Torino, 2015; J. B. Schor, “Nati per compare”, Apogeo, Milano, 2005; G. Ritzer, “La religione dei consumi”, il Mulino, Bologna, 2000; E. Fromm, “Avere o essere?”, Mondadori, Milano, 2007; G. Fabris – L. Minestroni, “Valore e valori della marca”, FrancoAngeli, Milano, 2004; Z. Bauman, “Consumo, dunque sono”, Laterza, Roma-Bari, 2007; B. R. Barber, “Consumati. Da cittadini a clienti”, Einaudi, Torino, 2010
  2. K. Crawford, “Né intelligente, né artificiale”, il Mulino, Bologna, 2021
  3. R. Panzieri (a cura di A. Cengia), “Il lavoro e le macchine”, OmbreCorte, Verona, 2020, pag. 85 e segg.
  4. L. Demichelis, “Sociologia della tecnica e del capitalismo”, FrancoAngeli, Milano, 2020, pag. 14 e segg.
  5. L. Demichelis, “La società-fabbrica”, Luiss University Press, Roma (in uscita)
  6. G. Anders, “L’uomo è antiquato”, II, Bollati Boringhieri, Torino, 2003, pag. 98
  7. A. Wiener, “La valle oscura”, Adelphi, Milano, 2020
  8. G. Anders, “L’uomo è antiquato”, I, Bollati Boringhieri, Torino, 2003, pag. 73
  9. Ivi, pag. 145
  10. S. Weil, “Riflessioni sulle cause della libertà e dell’oppressione sociale”, Adelphi, Milano, 1984, pag. 16 e 21
  11. A. Berardinelli, “L’Intelligenza artificiale e i rischi di alienazione” – https://www.avvenire.it/agora/pagine/lintelligenza-artificiale-e-i-rischi-di-alienazione
  12. L. Demichelis, “La grande alienazione. Narciso, Pigmalione, Prometeo e il tecno-capitalismo”, Jaca Book, Milano 2018; Trad. in inglese: “Marx, Alienation and Techno-Capitalism”, Palgrave Macmillan, 2022.
  13. E. Sadin, “La siliconizzazione del mondo. L’irresistibile espansione del liberismo digitale”, Einaudi, Torino, 2018, pag. 65
  14. Ivi, pag. 77
  15. H. Marcuse, “L’uomo a una dimensione”, Einaudi, Torino, 1999

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