La mia recente nomina a Coordinatore Nazionale Anci del gruppo di lavoro per la Agenda Digitale Italiana è una importante sfida e una enorme responsabilità, soprattutto in virtù della grande rivoluzione digitale che sta coinvolgendo tutti i settori e gli ambiti della vita pubblica in Italia e in Europa. Esordisco con queste righe su agendadigitale.eu provando ad inquadrare un tema fondamentale che sarà la base di partenza, il fil rouge attorno al quale si muoverà l’intera mia intera attività da coordinatore nazionale e dal quale si snoderanno poi tutti gli altri interventi: la digitalizzazione dei processi nella PA attraverso la definizione di nuove figure professionali con competenze digitali.
Ritengo infatti che la rivoluzione che tanto auspichiamo -– rivoluzione di strumenti, metodologie, prassi, ma soprattutto visioni e mentalità – debba passare necessariamente non dalla mera dotazione tecnologica, quanto dalle persone, dalle loro professionalità, dalle competenze. E’ necessario pertanto definire nuovi profili professionali che, oltre che tener conto delle specificità delle singole amministrazioni pubbliche e soprattutto locali, devono poter essere condivisi e partecipati da tutta la PA, e quindi definiti attraverso standard nazionali ed europei che si basino giocoforza su un sistema di riconoscimento, validazione e certificazione delle competenze. L’Italia, in questo senso, ha recepito benissimo, ed in maniera anche abbastanza rapida, le indicazioni fornite dalla Commissione Europea attraverso il framework e-CF (European Competence Framework), e con la norma UNI 11506:2013 ha efficacemente definito le competenze digitali specialistiche, stabilendo requisiti di conoscenza, skills e buone pratiche.
Tutto perfetto, dunque? Forse no, o meglio non del tutto. Individuati i criteri e formalizzata la norma, sarà fondamentale – ed è questa la sfida più difficile ma anche la più suggestiva – trovare le condizioni per attivarla e passare, dunque, dalla teoria alla pratica. Come questi profili, ottimamente definiti e unanimemente condivisi, si trasformano in persone, individui, professionisti? Come minuziose ed accurate certificazioni si traducono in abilità tali che consentano di sfruttare le opportunità delle tecnologie per guidare la trasformazione digitale dei processi e dei servizi? Come, dunque, precise e puntuali indicazioni metodologiche diventano competenze concrete e reali da mettere al servizio della intera comunità?
La risposta sta tutta in una adeguata formazione, destinata a tutti i dipendenti della PA, che si basi sui principi del life long learning, che preveda proposte calibrate in relazione alle diverse esigenze professionali e che non sia legata alla mera acquisizione di specifici titoli di studio ma a veri e propri percorsi di qualificazione umana e professionale. Inoltre, in aggiunta ad una specifica formazione per il personale esistente, occorrerà individuare nuove e più specifiche figure professionali, al pari degli animatori digitali che la nuova riforma inserisce opportunamente nella cosiddetta “Buona scuola”. Una sorta di manager della governance digitale, che posseggano adeguate conoscenze e abilità di e-leadership. Professionisti dalle competenze trasversali, che rispondano in maniera efficace alle esigenze del mercato e alle necessità di riforma digitale nella PA, in grado di gestire non più singoli aspetti ma interi processi tra diversi soggetti, in team e in cooperazione. Ma soprattutto animatori del cambiamento, pionieri dell’innovazione digitale, inarrestabili hacker della PA capaci di sabotare gli ingranaggi dall’interno e di contaminare l’ambiente, scevri dalle catene delle logiche procedurali e burocratizzate.
Un rischio, ancora una volta c’è. Ed è reale. Ovvero che questo progetto di cambiamento, che coinvolge innanzitutto le persone, le identità e le mentalità, possa interessare soltanto le grandi città, più accorte e attratte dalle questioni legate alla digitalizzazione dei processi e delle prassi, ed escludere i comuni più piccoli, incolpevolmente distratti da altre esigenze e priorità. Che i comuni capoluogo e i piccoli comuni non parlino la stessa lingua in materia digitale, non è una novità. È, al contrario, una certezza, un problema, un limite.
La sfida allora diventa ancora una volta quella della cooperazione, della compartecipazione di progetti e percorsi, della condivisione di obiettivi e traguardi. Penso allora alla possibilità che tale processo di digitalizzazione della PA e, di conseguenza, la gestione dei servizi digitali destinati ai cittadini e alla comunità non siano prerogativa del singolo comune, ma vengano affidati alle Unioni dei Comuni, garanti della attuazione del processo in tutti i territori coinvolti, indipendentemente dal contesto ambientale, dal numero degli abitanti e dalla loro tipologia.
Auspico, infine, un processo mai improvvisato o frammentato. Sogno una PA che non solo abbia accresciuto le sue competenze e si sia appuntata sul petto la stelletta della formazione digitale e del cambiamento, ma che si organizzi sulla base di una programmazione a breve e lungo termine, definita e permanente, rigida per obiettivi parziali e finali. E propongo, infine, una pianificazione simile a quella triennale delle opere pubbliche. Una sorta di Pianificazione Triennale del Digitale, che regolamenti i processi, stabilisca le priorità, riconosca e raggiunga obiettivi concreti, valutabili e quantificabili.
A partire poi da una tale riorganizzazione digitale della PA – che si realizza attraverso una certificazione delle competenze, la formazione di professionisti dell’ICT e una pianificazione digitale strategica e duratura – sarà possibile, a macchia d’olio, trasferire questo processo virtuoso e questi nuovi profili in altri ambiti e settori, in tutte le tipologie di mercato e di vita sociale, per un futuro digitale di competenze, merito e professionalità.