L’espulsione di Donald Trump da Twitter e Facebook venuto a seguito dell’assalto al Congresso USA del 6 gennaio scorso ha destato sconcerto quanto l’assalto stesso. Anzi, forse ancora più dell’effrazione che ne è all’origine, resterà probabilmente una pietra miliare nella storia delle democrazie occidentali.
Social e censura “preventiva”: un problema enorme
La decisione dei proprietari dei social non si può facilmente derubricare a un problema di violazione delle terms and conditions dei loro servizi. Basta leggere i tweet di Trump incriminati e confrontarli con le motivazioni addotte da Jack Dorsey per la sua messa al bando per constatare che, nell’applicazione di termini e condizioni, il capo di Twitter ha esercitato una totale discrezionalità. In particolare, fa riflettere il carattere preventivo dell’azione: il Presidente USA è stato silenziato sulla base della predizione del suo comportamento futuro. Di fatto, oggi un informatico miliardario può arrogarsi di decidere chi, tra i rappresentanti democraticamente eletti dal popolo (saggiamente o meno), ha diritto di parola. Simpatizzare occasionalmente con l’arbitrio che ha punito Trump non può esimerci dal vedere il gigantesco problema che c’è dietro. In effetti, esso è oggi pienamente sotto gli occhi degli osservatori politici e sociali, e non si può rimuovere dalla coscienza democratica.
Bisogna sgombrare il campo da un argomento usato sia dai monopolisti dei social sia da alcuni (anche insospettabili) fautori delle loro prerogative, e cioè che il contratto tra utenti e piattaforme informatiche sia di natura privata, e dunque che i primi siano liberi di utilizzare o meno le seconde, così come sono liberi di acquistare prodotti editoriali o spazi pubblicitari. Oltre alle nozioni giuridiche di ruolo sociale delle imprese presenti negli ordinamenti democratici, vale la pena di richiamare quella hegeliana (e marxiana) di ‘salto di qualità’: vi sono situazioni in cui gli aspetti quantitativi producono qualcosa di sostanziale sul piano ontologico. In questo caso, la distribuzione dell’utenza dei servizi, fortemente concentrata, cambia la natura di questi ultimi. Una piattaforma che gestisce miliardi di interazioni, configurandosi come medium indispensabile per la comunicazione politica, si trova di fatto a mettere in esercizio diritti fondamentali, come quello di opinione, incardinati nelle costituzioni dell’era moderna. Su questo l’Unione Europea, nonché molti commentatori statunitensi, si stanno esprimendo con chiarezza. Le limitazioni alla libertà di espressione, si dice, possono essere dettate solo dalle autorità, in applicazione delle leggi.
Gli stessi monopolisti sembrano consapevoli del problema e cercano il modo di uscirne indenni. Il CEO di Twitter, ad esempio, vagheggia di implementare uno standard aperto per consentire l’interoperabilità con piattaforme concorrenti. Ma è molto difficile credere che mosse di questo tipo possano da sole riequilibrare l’infosfera. Basti considerare ad esempio come il supporto agli standard della posta elettronica non scalfisca affatto il dominio di Gmail, o come il fatto che Android sia open source non produca alcun pluralismo dei sistemi operativi per dispositivi mobili. D’altra parte, protocolli per social decentralizzati esistono già da un pezzo, così come piattaforme aperte, dunque si può dire con certezza che, in quanto tali, queste cose non producono effetti apprezzabili sugli equilibri del mercato.
La “concentrazione” principale attrattiva dei social
La concentrazione è parte integrante della forza di attrazione dei social: andiamo su Facebook perché ci sono tutti, è un fatto matematico. Per conservare questa attrattività, un ecosistema distribuito dovrebbe offrire funzioni come quelle di indicizzazione e ricerca che, in architetture decentralizzate, sono intrinsecamente più difficili da ottenere. Inoltre, le piattaforme monopoliste, proprio per il fatto di concentrare miliardi di utenti, sono in grado di offrire gratuitamente servizi di ottima qualità (salvo poi lucrare sui nostri dati), e non si vede perché tali utenti dovrebbero optare spontaneamente per piattaforme meno efficienti e verosimilmente onerose. C’è poi ovviamente un effetto di legacy per cui è difficile pensare che le persone abbandonino senza rimpianti le piattaforme sulle quali ormai da anni intessono le loro relazioni. La portabilità dei dati garantita ex lege (art. 12 GDPR) potrebbe restare di fatto sulla carta.
In conclusione: quale via d’uscita?
La via d’uscita alla situazione di scacco in cui si trovano le democrazie occidentali non sembra passare né per il libero mercato, né per le comunità spontanee, né per interventi puramente regolatori. In generale, l’apertura del mercato delle piattaforme è il grande tema del Digital Markets Act, ma l’approccio europeo rimane per lo più sul piano deontico, cioè quello degli obblighi e dei divieti. Sarà invece necessario, con ogni probabilità, ricorrere anche a politiche di sostegno attivo all’interno delle giurisdizioni nazionali e sovranazionali.
Si tratta di un ragionamento ancora da sviluppare nel dibattito pubblico, anche affrontando a viso aperto alcuni dogmi liberisti. Allo stato attuale delle cose, l’ipotesi che siano agenzie pubbliche anche sovranazionali a gestire lo spazio delle interazioni sociali, per quanto non priva di difficoltà, andrebbe percorsa. D’altra parte, per regolare le comunicazioni radiofoniche e televisive, abbiamo a suo tempo fatto ricorso alla nozione di etere come bene pubblico, pur sapendo benissimo che l’etere non esiste. Un colpo d’ingegno ideativo da cui si può trarre ispirazione spingendosi su un piano di astrazione ancora più alto: la stessa facoltà del linguaggio è un bene comune, e nessuno, nell’infosfera, può di fatto impadronirsene.