“Diablo: Immortal” torna a far discutere, grazie a una semplice espressione: “Free 2 Play”, in sostanza, gratis. Questa nuova incarnazione dell’amato videogioco per smartphone e tablet, infatti, si può scaricare gratuitamente dal 2 giugno 2022. Ma come tutti i giochi gratis, anche “Diablo: Immortal” prevede acquisti in app, in questo caso di loot e di oggetti cosmetici.
Loot-box, gacha game e il sottile confine tra gioco e azzardo: servono regole
Nonostante dalla sua uscita abbia registrato 10 milioni di download, “Diablo: Immortal” sta generando polemiche su polemiche ed è, attualmente, il titolo con il voto più basso sull’aggregatore di recensioni Metacritic. Proprio per le sue meccaniche che si potrebbero definire predatorie. Non è nemmeno bastata la versione PC del gioco, una sorta di copiaincolla malfatto di quella mobile per placare gli animi dei fan.
La questione è la seguente: “Diablo: Immortal” si può completare senza spendere soldi per le microtransazioni, ma grossa parte del divertimento dei titoli del suo genere sta nell’endgame, ovvero ciò che viene dopo aver finito il gioco la prima volta, e che consiste nel potenziare a dismisura il proprio personaggio.
La creazione della build perfetta, del personaggio indistruttibile, capace di devastare perfino il temibile Diablo con un paio di colpi, è praticamente uno dei motivi per i quali molti comprano e giocano agli ARPG definiti “diablolike”. Se lo si vuole fare in “Diablo: Immortal”, occorre ottenere le cosiddette lootbox, ovvero le casse premio contenenti equipaggiamento e oggetti estetici. E per ottenerle, bisogna comprarle con soldi veri.
Perché Diablo ha rivoluzionato il mondo dei videogame
Nel 1996 Blizzard Entertainment ha rilasciato Diablo, un gioco destinato a rivoluzionare il mondo dell’intrattenimento videoludico. Qualcuno probabilmente custodisce ancora gelosamente una vecchia copia del CD-ROM che in tempi ormai lontani, teneva costantemente nel proprio PC per passare intere serate davanti al monitor a tubo catodico, aggirandosi per i sotterranei di Tristam.
A una presentazione tecnica spettacolare per quegli anni, si aggiungeva un gameplay irresistibile che praticamente rendeva i giochi di ruolo più accessibili. Le intricate regole di creazione del personaggio e dei combattimenti venivano sacrificate per un gioco incentrato sull’azione in tempo reale, dove era possibile esplorare, combattere e ottenere oggetti con un semplice clic sul mouse.
Il sistema di oggetti di Diablo, divisi in varie rarità, non solo ha ispirato altri ARPG -Action Role Playing Game come l’ottimo “Titan Quest”, ma ha praticamente invaso tutti i generi. Basti pensare a titoli come “Destiny 2” o “The Division”, dove grossa parte dell’esperienza di gioco si basa sul trovare armi ed equipaggiamento sempre più potenti.
D’altronde, il cosiddetto “loot” è una componente attraente per qualsiasi giocatore, dal casual al pro gamer. I primi lo trovano ormai anche nei titoli di una serie come “Assassin’s Creed”, i secondi sebbene lo snobbino, non possono fare nulla per evitarlo.
Nei Battle Royale come “Call of Duty: Warzone” e “Apex Legends”, le mappe sono piene di armi e oggetti di diversa rarità, riconoscibili per i loro colori. Proprio come in Diablo. Chiunque abbia giocato a un gioco di ruolo d’azione o un Battle Royale ormai sa che gli oggetti bianchi sono quelli comuni, i blu sono quelli magici, i gialli le rarità, i viola quelli epici e così via.
Il costante loot di nuovi oggetti, armi, giocatori (anche nei giochi sportivi) e personaggi (il sistema gacha di molti titoli di stampo nipponico) preme su una componente umana, pienamente presente nella società moderna: l’accumulo. Il possedere sempre di più, avere cose sempre migliori, non accontentarsi mai.
Nella vita reale però, l’ottenere oggetti più “preziosi” prevede l’investimento di denaro, ottenuto grazie al sudore della fronte. Sostanzialmente lavoriamo per accumulare beni, mentre in un gioco come Diablo bastano un po’ di clic sul mostro di turno e la benedizione di un “divino algoritmo” che produrrà magicamente del loot più raro e magari, se si è davvero fortunati, un oggetto leggendario da usare.
Quando il loot incontra Internet
Finché il loot è circoscritto all’interno di un gioco, risulta semplicemente una meccanica votata al suo completamento. In “Diablo”, “Diablo 2” o giochi simili come “Titan Quest”, l’ottenimento di loot migliore e il perfezionamento del proprio personaggio attraverso di esso, servono a completare il gioco ai suoi livelli di difficoltà sempre più alti.
Il problema è quando il loot incontra Internet, ovvero quando sugli occhi dei dirigenti delle software house spunta il simbolo del dollaro in puro stile Zio Paperone. È quanto successo ai creatori di Diablo, l’osannata Blizzard che tempo fa era ritenuta una delle migliori case produttrici di videogiochi occidentali. Dopo diversi anni burrascosi, per molti iniziati dopo la fusione con Activision, Blizzard sembra quasi decisa a piantare un chiodo sulla sua bara, almeno nel campo dei videogame.
Nel 2018, viene annunciato “Diablo: Immortal” per soli dispositivi mobile, cosa che ha generato non poche preoccupazioni tra gli amanti della serie, con la famosa battuta da parte del pubblico: “si tratta per caso di un pesce d’aprile fuori stagione?”. Nonostante Blizzard avesse alzato comunque un notevole polverone con “Diablo 3” e la sua Casa d’Aste, si era parzialmente redenta eliminando questa sorta di “mercatino” di loot acquistabile con soldi veri e bilanciando il gioco, permettendo a tutti di ottenere gli oggetti più potenti semplicemente giocando. Fino alla release del 2022.
“Diablo: Immortal”: le possibili reazioni al pay to win
Con questa abile mossa, Activision Blizzard scuote le fondamenta di uno dei franchise più amati. Dopo aver ridato speranza ai giocatori con l’ottimo remaster di Diablo 2, ecco che torna a flagellarli con un titolo messo in ombra dal pay to win.
Può passare l’acquisto di oggetti prettamente estetici, come visto nel sempre gratuito “Path of Exile” di Grinding Gear Games (che per molti ormai ha rubato la corona a Diablo come re degli ARPG), ma quando si impone ai giocatori di spendere soldi per diventare più potenti si possono ottenere diverse reazioni.
I player più navigati e affezionati alla serie, probabilmente lo finiranno una volta senza spendere un centesimo e poi lo disinstalleranno per sempre.
I giocatori più ingenui o magari quelli più giovani, vittime principali del sistema di lootboxes e dalle ansie da prestazione sempre più insite nel gaming moderno, probabilmente su “Diablo: Immortal” ci spenderanno più di qualche euro.
Insomma, per potenziare al massimo il personaggio, secondo alcuni calcoli, sembra siano necessari più di 100.000 dollari. Ma è senz’altro una stima al ribasso se consideriamo che sul web ci sono già diversi streamer che mostrano come, pur spendendo più di 10.000 dollari, non riescano a ottenere oggetti più potenti per il loro personaggio.
Conclusioni
Il web ha da sempre l’abitudine di gettare fumo negli occhi delle persone: da una parte Activision Blizzard non è stata proprio chiara sulle meccaniche pay-to-win della sua nuova creatura, dall’altra c’è sempre chi se ne approfitta per macinare un po’ di click oppure ottenere nuove visualizzazioni.
Resta il fatto che una delle serie più importanti e amate del gaming, capace di ispirare innumerevoli titoli e innovare anche meccaniche di altri generi, finisce nel tritacarne del mobile e del pay-to-win.
E per capire quanto possano essere dannose le lootboxes, basta pensare al fatto che “Diablo: Immortal” è stato vietato in Belgio e Paesi Bassi, dove le loot boxes vengono considerate gioco d’azzardo e pertanto regolamentate in modo ferreo. Il gioco d’azzardo è vietato ai minori, di conseguenza, niente “Diablo: Immortal” per i gamer di Bruxelles e Amsterdam.
Dopo questo passo falso da chiarire, sarà comunque fruttuoso per Activision Blizzard, e bisogna vedere cosa succederà all’attesissimo Diablo IV. La compagnia non naviga in buone acque anche a causa di alcuni infelici scandali interni, ma l’imminente acquisizione da parte di Microsoft lascia ben sperare in un cambio di politiche.