innovatori di ventura

Dieci anni di startup policy, ma l’Italia ha poco da celebrare: i freni culturali da estirpare

Le startup che i media definiscono “campioni nazionali” da prendere ad esempio non hanno nulla del modello internazionale, più che unicorni sembrano maialini in allevamento. Il problema è e resta culturale. Se davvero vogliamo unicorni italiani, prima dobbiamo capire cosa sono e poi imparare ad allevarli

Pubblicato il 26 Lug 2022

Gianmarco Carnovale

Serial tech-entrepreneur

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Da alcuni mesi, dopo che per anni si è dileggiato chiunque utilizzasse il lessico internazionale delle startup, è finalmente entrato in scena il termine che definisce il sogno dell’ecosistema italiano: gli unicorni. Ma non scompare il vizio patrio di abusare dei termini, di scollegarli dalle pratiche, o di inventare vanity metrics.

A dieci anni esatti dall’introduzione della startup policy l’Italia dimostra non solo di non sapere cosa sono gli unicorni, ma neanche perché dovremmo averli e cosa si dovrebbe fare per mettersi sulla giusta pista per arrivarci. Serve con urgenza un cambiamento di cultura.

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Cos’è, davvero, un unicorno

Partiamo dalla definizione, perché come sempre nel paese si banalizzano concetti trasformando in buzzword termini che nel resto del mondo sono legati ad una tassonomia precisa: il termine “Unicorno” si riferisce ad una impresa non quotata che raggiunge una valutazione di 1 miliardo (di dollari o euro). Coniato nel 2013 dalla business angel Aileen Lee, una delle prime donne a fondare un fondo di venture capital al mondo (Cowboy Ventures), si è diffuso globalmente quasi in tempo reale, come è sempre per le best practices che si spandono istantaneamente all’interno della rete globale degli ecosistemi startup. O quantomeno di quelli veri e connessi, perché ancora oggi l’Italia – adottando impropriamente il termine perfino a quasi 10 anni dalla sua genesi – dimostra quanto sia autoreferenziale, quanto i suoi attori scimmiottino i modelli del venture business e del movimento startup solo a mo’ di parvenza, senza approfondirli ed acquisirli mai.

Ma chiariamo un punto: non si tratta solo di produrre valore finanziario e di vantaggi per pochi, ma di generare benessere con impatto sociale ed economico diffuso. Un unicorno raggiunge quel valore perché sta dimostrando concretamente di poter diventare una nuova grande impresa che si consolidi come leader di un mercato globale.

Non è un punto di arrivo, dato che è ancora sulla via della crescita e di uno sbarco in borsa, ma la tappa è il momento convenzionalmente riconosciuto come spartiacque tra una scommessa e una promessa. Il materializzarsi della promessa significa moltissimi posti di lavoro – di qualità, dato che le startup sono economia della conoscenza – e significa anche una condivisione del valore aggiunto tra fondatori, investitori (che di solito gestiscono risparmio) e lavoratori dell’azienda attraverso le stock option. Senza ancora pensare all’indotto che creano su partner, fornitori, consulenti che gli ruotano intorno.

Cosa si intende per Unicorno, in Italia

Il termine “Unicorni”, in Italia, è stato sussurrato da pochi per qualche anno e poi impiegato in modo formale, per la prima volta, 2017 in occasione della prima edizione della Rome Startup Week (disclaimer: festival organizzato dall’associazione che presiedo, Roma Startup), nel panel “Cacciatori di Unicorni”. In quella occasione si è iniziato a diffondere storie di imprese che stessero tentando l’obiettivo di status di unicorno con una startup da loro fondata, ed in cui, insieme a diversi founder italiani come Matteo Fago (Venere), Franco Petrucci (Decisyon), Vincenzo Di Nicola (GoPago), Gianluca Granero (Memopal), Silvio Pagliani (Immobiliare.it e Facile.it), intervenne Nir Barkrat per raccontare di Mobileye, acquistata da Intel per 15 miliardi. “Cacciatori di Unicorni” si è poi ripetuto nel 2018 e nel 2019, ma al di fuori di tale appuntamento interrotto per la pandemia non si è mai sentito utilizzare il termine fino a quando non hanno iniziato a parlarne apertis verbis, nel 2021 come obiettivo strategico il premier francese Emmanuel Macròn per la Francia, e la Commissaria UE Maryia Gabriel per l’Unione Europea.
Da quel momento, la stampa nostrana ha iniziato ad appiccicare qua e là il termine intervistando svariati dei nostri presunti “esperti” – che sembrano più esperti di personal branding che del mestiere che dicono di fare – ed ogni tanto annunciando impropriamente un qualche “finalmente abbiamo un Unicorno italiano” urlato a nove colonne.

In una occasione è inciampato anche chi vi scrive, sul non controllare prima di fare un post su LinkedIn, tratto in inganno da un articolo di TechCrunch che regalava lo status all’ennesima società che italiana non era, ed è triste constatare come nel Paese si cerchi così tanto l’effetto annuncio da aver tentato di affibbiare lo status di Unicorno prima a società quotate da tempo, poi a società che andavano a fondersi con una SPAC, ed infine ad un nutrito gruppo di società che di “italiano” hanno solo alcuni fondatori ma la società è costituita in altri Paesi.

Ripetiamo insieme: non esistono Unicorni italiani

Va ribadito, una volta per tutte: “Unicorno” significa che non è quotato, e “Italiano” significa che la legal entity che detiene la proprietà intellettuale e raccoglie capitali dagli investitori è costituita in Italia. Se supera 1 miliardo di valore da società quotata o quotandosi su una borsa, non è un Unicorno. Se ha la sede legale e la proprietà intellettuale in Delaware o in Regno Unito, e ha una unità locale in Italia anche eventualmente con la maggioranza dei dipendenti, e perfino se i fondatori sono italiani, quella è una società del Delaware o del Regno Unito e non italiana. La conclusione è che a luglio del 2022, mentre nel mondo se ne contano oltre 1000, non esistono Unicorni Italiani.

Dual company: cosa fanno e perché sono un male per l’Italia

Chiarito tutto sul termine Unicorno, veniamo quindi all’altra buzzword che tanto dilaga nel Paese da un po’ di anni: “dual-company”. Questo concetto dimostra come un termine furbo possa giocare un effetto psicologico nel trasformare un concetto negativo nella panacea per tutti i mali, ma in realtà in vantaggio di chi promuove quel termine. Quando qualcuno parla di imprese che fanno offshoring di manodopera ed unità produttive, ci viene istantaneamente in mente il fenomeno delle aziende italiane che sono corse ad aprire sedi produttive in Est Europa ed in Asia per avere manodopera qualificata a bassissimo costo, e senza trasferire alcun valore in quei paesi nel momento in cui la deglobalizzazione ha iniziato a spingere per un processo di reshoring.
Bene, il ventilato “modello” della dual-company è perfino peggiore, perché fa marketing dell’esportare la società madre dall’Italia portando all’estero (tipicamente nei soliti Delaware o Regno Unito) il valore dato dalla proprietà intellettuale, la raccolta di capitali, il controllo delle decisioni strategiche, e trasformando quindi imprese italiane in imprese di altri Paesi, ma facendo offshoring per manodopera a basso costo in Italia.

È davvero curioso come il cambiamento del branding del medesimo processo faccia percepire qualcosa di negativo, che chiaramente depaupera il Paese spesso facendo un business del brain drain, come un “modello” da promuovere e proporre sfacciatamente come utile e di interesse collettivo; come se possa ritenersi di interesse collettivo organizzare delle società tecnologiche che facciano alti utili americani e paghino bassi stipendi italiani.

Sono operazioni di estrazione di valore, tanto quanto estrarre diamanti in una nazione povera pagando due spicci di concessione mineraria e pane secco per i minatori, per fare poi tutto l’enorme profitto in una ricchissima città nordeuropea. Al di là del muovere ovvie critiche – che suoneranno sensate, forse, solo a chi vive un sentimento di responsabilità verso il Paese, ma che dovrebbero contare anche per chi cerca di investirvi con un’ottica di lungo periodo contrapponendosi ai troppi predatori – il punto è che si deve avere cognizione chiara e radicata che non possiamo arrivare ad ottenere alcun “Unicorno Italiano” se non eradichiamo tutti gli elementi che facilitano invece l’esportazione di valore e conoscenza, sia se parliamo di startup che emigrino tout court, sia se lo facciano parzialmente con questo schema furbesco coperto dal termine autoassolutorio di dual-company.

Perché l’Italia non sa “allevare” i suoi unicorni

E dunque, se davvero – come tutti ormai ripetono – sono necessari gli Unicorni Italiani, bisogna entrare nell’ottica che l’ecosistema deve allevarli a partire dall’originazione, ma poi a seguire accudirli in tutte le loro fasi di maturazione in modo appropriato: sia per evitare che muoiano, sia per evitare che decidano di andare a cercarsi pascoli migliori. Fa un po’ impressione, in questo senso, vedere lamentare una assenza di unicorni da parte di operatori ed investitori che rigettano le medie di valutazione internazionali, si tengono lontani dai settori delle tecnologie più avanzate, rifiutano con sdegno i modelli di investimento non prezzati tipici dell’early stage in tutto il mondo, lamentano assenza di bravi founder quando li dileggiano se li incontrano, vedono le startup solo come “idee” da cui rimuovere i fondatori per infilarvi dei “bravi manager” che non scaleranno mai, denominano “seed” round di investimento sottoscritti ben dopo il product/market fit – e con ricavi consolidati – mentendo sulla classificazione per coprire che fanno quello che tecnicamente è un series A ma con importi mediamente di un decimo di quelli dei round di pari fase che si fanno all’estero.

Investimenti in startup fase seed: il ruolo dei modelli contrattuali Safe e Kiss

Se davvero si vogliono gli unicorni italiani, bisogna smettere di abusare dei termini, di inseguire metriche della vanità, rompere l’autoreferenzialità, smettere di fare a gara a chi spara la cifra più grande sugli investimenti in startup italiane infilandoci dentro sia startup estere che raccolte di debito ed approfittando del buio in cui brancolano i giornalisti, smettere di dire che nel Paese abbiamo 14mila startup perché tante sono le imprese in un registro che abbiamo definito arbitrariamente delle “start-up innovative” all’interno del quale c’è una preponderanza di agenzie di marketing e consulenza informatica.

Dieci anni di startup policy, ma c’è poco da festeggiare

Quest’anno sono dieci anni esatti dall’introduzione della startup policy e ci si prepara a celebrarli con molte metriche della vanità, quando sarebbe il momento che l’ecosistema facesse una doverosa introspezione e si vergognasse: a fronte di un enorme pacchetto di norme facilitatorie, di incentivi, di risorse economiche messe crescentemente in campo dai Governi che si sono alternati, dai dirigenti, da funzionari, l’ecosistema italiano ha dimostrato in tutto questo tempo di ragionare sempre e solo in modo furbesco, studiando in che modo abusare il più possibile della singola misura e dell’incentivo, chiedendo incentivi e risorse aggiuntive allo Stato, anziché adoperarsi su come usare l’insieme per generare valore.

C’era un ultimo pretesto con cui gli operatori dell’ecosistema si autoassolvevano, ossia la scarsa liquidità, che ormai è stato colmato dall’azione di Governo che in due anni ha inserito nel sistema quasi cinque miliardi di euro: attraverso CDP, attraverso il Fondo di sostegno al Venture Capital del Ministero dello Sviluppo Economico, attraverso la moral suasion verso grandi aziende, Casse, fondazioni. Tutta questa mole di denaro si sta immettendo in un Paese in cui le startup mediaticamente dichiarate come “campioni nazionali” da prendere ad esempio non hanno nulla del modello internazionale, più che unicorni sembrano maialini in allevamento per il salumificio: sono controllate per più del 90% dagli investitori fin dall’early stage, i fondatori che sono stati mortificati e presi a strozzo sono ridotti a uomini immagine e trasformati in dipendenti (abbastanza ben pagati, ma tolti dalla guida) con percentuali di partecipazione prossime alla frazione, e sono gestite da manager usciti dalla consulenza come una qualsiasi azienda consolidata nel portfolio di un fondo di Private Equity che non deve crescere verticalmente.

Anche i media hanno le loro colpe

E i media, in tutto ciò, fanno la loro parte nel voltarsi dall’altra parte rilanciando acriticamente buzzword, ricerche basate su kpi inventati, numeri qualsiasi sugli investimenti che sommano capitale e debito purché si possa sparare la cifra ‘record’, comunicati stampa menzogneri. Nessuno che vada a sviluppare reale conoscenza del settore e che sia in grado di fare confronti internazionali, che vada guardare come e da chi siano gestiti gli unicorni globali (NB: sono sempre guidati da un fondatore visionario che vuole cambiare un mercato e, se c’è un manager, lavora per il fondatore, non per i fondi e i soci industriali), e ancora più assurdo non c’è nessuno che vada a fare delle semplici visure camerali per verificare le percentuali di diluizione dei fondatori delle nostre startup e scaleup di millantato successo e verifichi quante quote hanno dopo un seed e un serie A italiano e quante ne hanno dopo un seed e un serie A americano, israeliano, britannico, francese, che è la vera misura di come non potranno mai diventare unicorni ma, tutt’al più, medie imprese locali perché investitori che ignorano i percorsi di valorizzazione e scalabilità, che deridono le leggi di potenza che normalmente guidano il vero Venture Capital, gli hanno già tolto in culla la capacità futura di crescere.

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Un problema culturale

Dopo un decennio in cui si è atteso che venisse fuori un ecosistema sano bottom-up è chiaro che il problema del Paese non sta nelle policy, ancora migliorabili in moltissimi aspetti, ma in stakeholder estrattivi, in gente a cui gli si dà una piantina e se la mangia istantaneamente anziché piantarla in terra e innaffiarla. Il problema è culturale, esclusivamente culturale, ed è sul piano culturale che va risolto. E se gli operatori nazionali rigettano così persistentemente la cultura internazionale, diventa necessario forzare la mano ed imporre l’internazionalizzazione attirando operatori, imprenditori, mentori, advisor, business angel (abbiamo di recente istituito un visto per nomadi digitali che può essere validissimo per lo scopo e che sta già facendo forte branding all’estero sull’Italia, che ha da sempre una incredibile forza attrattiva come luogo in cui molti vorrebbero vivere anche per periodi di media lunghezza) che mettano ai margini gli operatori tossici e rafforzino quelli capaci, che da un decennio cercano di operare bene, che pur ci sono ma vivono circondati.

Questo però va fatto dall’alto, top down: la Francia è riuscita a fare molto meglio di noi, in questi anni, perché ha sì messo molti soldi sul piatto ma ha anche contestualmente istituito La French Tech, l’agenzia nazionale che ha operato come competence center e costruito una rete, qualificando gli operatori locali e soprattutto attirandone dall’estero molti di valore perché si accelerasse l’adozione delle pratiche internazionali, creando contaminazione.

Conclusioni

Nell’auspicio che la politica voglia davvero attivarsi con una operazione simile, ora o nella prossima legislatura, agli stakeholder locali va lasciata una riflessione: non è più possibile, nel 2022, dichiararsi operatori del settore, attori del venture business, membri dell’ecosistema, parlare di risultati auspicabili, e continuare a mentire con metriche della vanità ad un Paese che soffre di una voragine culturale intorno a tutti questi argomenti, così come non è più tollerabile lasciar mentire altri per quieto vivere, per relazioni, perché “che male fa”. Bisogna dividere nettamente gli operatori veri da quelli raccontati, chi crea valore da chi lo drena, quelli virtuosi da quelli tossici, e decidere da che parte stare: o si vuole risolvere il problema, o si è attivamente causa dello stesso.

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