La Presidente della Commissione Europea, Ursula von der Leyen, ha proposto un nuovo piano da 800 miliardi di euro ReArm Europe di spesa in ambito difensivo, seguito a stretto giro da un libro bianco per la difesa. Un piano che sarebbe stato meglio titolare poche idee ed anche molto confuse. In linea con la politica comunitaria degli ultimi anni che scambia cause con effetti. Per approfondire però è utile fare un breve riassunto delle puntate precedenti.
Indice degli argomenti
I fallimenti passati e i tentativi di integrazione della difesa europea
Quando si discute di difesa comune europea, è inevitabile guardare indietro per capire le ragioni delle continue difficoltà nel creare una vera “Unione” anche in ambito militare. Sin dagli albori dell’integrazione europea, diversi progetti hanno cercato di convogliare interessi e forze militari in un’unica struttura, ma quasi tutti sono falliti o hanno prodotto risultati minimi rispetto alle aspettative.
Nel 1952, si tentò la strada della Comunità Europea di Difesa (CED). L’idea era di dar vita a un esercito comune europeo, inserendo i contingenti nazionali in un’unica organizzazione sovranazionale. Il progetto crollò principalmente per l’opposizione della Francia, che non volle condividere la propria sovranità militare e nucleare in un contesto europeo.
Le difficoltà strutturali nell’integrazione della difesa europea
Con il Trattato di Maastricht (1992), l’UE cercò di introdurre un embrione di Politica Estera e di Sicurezza Comune (PESC), preludio di una futura difesa comune. Tuttavia, anche in questo caso le differenze di vedute tra i vari Paesi membri emersero chiaramente: i diversi interessi geopolitici, la vicinanza di alcune nazioni agli Stati Uniti e alla NATO, il ruolo preponderante di potenze regionali come Francia e Regno Unito, resero impossibile un vero trasferimento di sovranità.
Successivamente, il Trattato di Amsterdam (1997) e il Trattato di Nizza (2001) tentarono di rafforzare la dimensione di sicurezza e difesa, soprattutto con l’istituzione di organismi quali l’Alto Rappresentante per la Politica Estera e di Sicurezza Comune, ma senza approdare a una vera unione militare. La cooperazione rimase fondamentalmente intergovernativa, soggetta al veto di ogni singolo Stato.
Altri meccanismi, come la PESCO (Permanent Structured Cooperation) introdotta dal Trattato di Lisbona (2009), ambiscono a creare un quadro di cooperazione rafforzata in cui i Paesi più volenterosi possano avviare progetti comuni di sviluppo delle capacità difensive. Tuttavia, i risultati concreti in termini di unificazione di standard, joint procurement (acquisti congiunti) e interoperabilità sono rimasti limitati. Le iniziative, spesso, si arenano tra la burocrazia di Bruxelles e l’esigenza che i singoli Paesi proteggano le proprie industrie nazionali della difesa.
Da ciò emerge un punto cruciale: se da decenni si fatica a rendere la difesa un vero pilastro dell’integrazione europea, perché oggi, con l’annuncio di un massiccio piano di spesa – senza un chiaro meccanismo di coordinamento e di condivisione delle forze – le cose dovrebbero cambiare? Le radici del problema sono profonde. E non è certo un annuncio di ulteriori fondi che di per sé garantirà la nascita di un esercito europeo. Anzi, la storia insegna che investire enormi risorse in modo frammentato e privo di una visione unitaria rischia di vanificare gli sforzi e di mantenere i vecchi problemi di duplicazione e mancanza di interoperabilità.
I numerosi fallimenti passati, insomma, suggeriscono che qualsiasi iniziativa difensiva europea debba passare prima per un vero accordo politico sull’integrazione e la condivisione di sovranità. Senza un contesto di regole condivise, un piano da 800 miliardi rischia di rivelarsi non solo inefficace, ma persino dannoso per l’obiettivo di lungo termine di costruire un’Europa più coesa e sicura.
Il piano da 800 miliardi: una soluzione inefficace?
Il piano da 800 miliardi di euro che Ursula von der Leyen ha presentato, sebbene non ancora pienamente definito in tutti i suoi aspetti tecnici, si configura come una grande iniezione di fondi per la difesa europea distribuita su più anni. Nelle intenzioni della Commissione, ciò dovrebbe rafforzare le capacità militari degli Stati membri, incentivare l’industria continentale degli armamenti e promuovere un maggiore coordinamento tra i Paesi dell’UE.
La Commissione enfatizza la necessità di “difendere l’Europa” e di “adeguarsi alle sfide del presente”, in particolare dopo l’invasione russa dell’Ucraina. Tuttavia l’UE non ha mostrato, almeno fino ad oggi, la capacità di rispondere unitariamente alle minacce, delegando quasi sempre la questione della sicurezza ai singoli Stati o, in definitiva, all’ombrello NATO, che è guidato principalmente dagli Stati Uniti. Di conseguenza, la domanda principale diventa: a cosa servono 800 miliardi di euro, se l’Unione stessa non ha un comando unificato, non ha un esercito coeso, non ha regole di ingaggio comuni e neppure una dottrina strategica condivisa?
Il rischio concreto è che questi fondi si traducano in un aumento delle commesse militari per i fornitori nazionali di armi, in ordine sparso. Ogni Paese potrebbe utilizzarli per sviluppare progetti autonomi: caccia, droni, carri armati, sistemi di difesa aerea, navi militari, missili, e via dicendo, ma senza reale coordinamento con gli altri Stati membri. In tal modo, gli arsenali europei continuerebbero a proliferare, con standard diversi, pezzi di ricambio non intercambiabili e procedure divergenti. Basti pensare che, attualmente, l’Europa conta decine di modelli di carri armati e di aerei da combattimento, con costi di manutenzione e formazione smisurati. Gli Stati Uniti, per contro, puntano su pochissimi modelli (anche per via della natura unitaria delle forze armate). Una situazione, questa, che favorisce l’efficacia operativa e il controllo dei costi.
Infine, un ulteriore punto di incertezza riguarda la “clausola” di extra-debito, ossia la possibilità che le spese per la difesa possano essere “scomputate” dal calcolo dei deficit nazionali, bypassando le regole del Patto di Stabilità e Crescita. Una simile soluzione comporterebbe un cambiamento di principio molto significativo. E solleva la domanda: perché per salvare uno Stato europeo in crisi economica, come la Grecia qualche anno fa, si è detto che i Trattati non permettevano certe forzature, mentre per una spesa militare (senza un piano strategico chiaro) sarebbe improvvisamente plausibile alterare le regole di bilancio europee?
La necessità di una vera cooperazione tra gli Stati membri
Teoricamente, se l’Europa volesse davvero consolidare un proprio “Pilastro Europeo della Difesa”, la strada maestra sarebbe la costruzione di un sistema integrato, con forze multinazionali, addestramento congiunto e standard comuni. Esistono già alcuni tentativi, come i Gruppi Tattici dell’UE (EU Battlegroups), costituiti da contingenti forniti su base rotazionale da alcuni Stati membri. Tuttavia, tali forze non sono mai state realmente impiegate in operazioni di rilievo, proprio perché manca una volontà politica effettiva di usarle.
Un piano coerente di integrazione difensiva dovrebbe, prima di tutto, stabilire un meccanismo decisionale unificato, superare il principio di unanimità nelle decisioni in materia di politica estera e di sicurezza, creare un quartier generale europeo operativo e finanziare in modo centralizzato i programmi di ricerca e sviluppo di nuovi sistemi d’arma. Solo in questo modo, infatti, si potrebbe:
- Evitare la duplicazione di progetti e linee produttive.
- Coordinare la catena di fornitura e di manutenzione, così da rendere gli eserciti interoperabili.
- Definire una dottrina militare che stabilisca in quali scenari e con quali obiettivi l’Europa voglia intervenire.
Creare un vero mercato comune della difesa, svincolato da interessi prettamente nazionali.
Invece, il piano da 800 miliardi proposto pare andare nella direzione opposta: spingere i singoli Stati a investire ancor di più in modo frammentato. Non ci sono, infatti, indicazioni vincolanti su come quei fondi debbano essere utilizzati, se non generiche raccomandazioni a potenziare le capacità militari e sostenere l’industria europea degli armamenti. Ma quale industria? Ciascuno Stato, forte del proprio know-how, cercherà probabilmente di “agganciare” i fondi per sostenere i propri campioni nazionali, aggravando la concorrenza interna e la mancanza di interoperabilità.
La contraddizione è lampante anche sul piano politico: da un lato, l’UE sostiene di voler raggiungere “l’autonomia strategica europea”; dall’altro, non mette in atto le riforme strutturali che sarebbero indispensabili per creare una vera politica di difesa comune. Anzi, elargire risorse senza vincoli precisi rischia di rafforzare le divergenze.
L’esperienza storica e la frammentazione delle politiche di difesa europee
Se l’Unione Europea è in ritardo sulla strada dell’integrazione militare, ciò dipende innanzitutto dalla storia del continente. Per secoli, i vari Stati europei si sono contrapposti militarmente: guerre di religione, conflitti dinastici, colonialismo, due guerre mondiali devastanti, la Guerra Fredda. Al termine della Seconda guerra mondiale, il processo di integrazione nacque soprattutto con l’obiettivo di evitare nuove guerre tra nazioni europee, consolidando un mercato comune e un sistema di regole economiche condivise.
La difesa, tuttavia, rimase un tema estremamente sensibile: le potenze tradizionalmente più forti non erano disposte a cedere il controllo su un settore considerato cruciale per la sovranità nazionale. L’ombrello americano, garantito dalla NATO, fece il resto: perché investire risorse e capitale politico in una difesa comune quando c’era Washington a fare da garante contro la minaccia sovietica? Così, ogni Stato ha proseguito nella propria politica militare, sviluppando sistemi d’arma diversi e forze armate tarate su esigenze nazionali.
Con il crollo dell’Unione Sovietica, la percezione della minaccia è cambiata, così come le dinamiche di sicurezza. Tuttavia, l’UE si è trovata impreparata a costruire una vera identità difensiva, sia per mancanza di volontà politica, sia perché i conflitti successivi (dalle guerre balcaniche all’Afghanistan, dal Medio Oriente alle nuove tensioni con la Russia) hanno evidenziato come la leadership militare fosse quasi sempre esercitata dalla NATO o, in molti casi, da coalizioni “ad hoc” a guida statunitense.
Nei vari conflitti del post-Guerra Fredda, l’Europa ha spesso manifestato le sue divisioni: basti ricordare l’intervento in Iraq del 2003 (Regno Unito, Polonia e altri accanto agli Stati Uniti, Francia e Germania contrarie), oppure il caso libico del 2011 (Francia e Regno Unito in prima linea, Italia preoccupata per i propri interessi energetici, Germania molto defilata). In queste circostanze, si è talvolta temuto che gli stessi Paesi europei potessero finire per usare i propri apparati militari in modo da ostacolarsi reciprocamente, piuttosto che per agire in modo sinergico.
La proposta di von der Leyen, che dovrebbe in teoria unire gli sforzi per “costruire un’Europa della difesa”, rischia paradossalmente di accentuare questa frammentazione: ogni Paese, libero di gestire la propria quota di fondi, potrebbe rafforzare le proprie capacità militari con finalità non sempre allineate a una politica europea comune. Se la logica rimane quella di “potenziare il proprio arsenale”, senza subordinare tale potenziamento a un organismo europeo superiore, si rischia di incrementare la possibilità di rivalità intracomunitarie, almeno in potenza.
D’altronde, la stessa storia recente ci ricorda la competizione tra Francia e Italia in Libia: i due Paesi hanno sostenuto fazioni diverse nel conflitto civile libico, in virtù dei loro interessi energetici e geopolitici. Cosa sarebbe successo se entrambi gli Stati avessero avuto maggiore capacità di proiezione militare in un quadro non coordinato? Avremmo assistito a una pericolosa escalation tra due nazioni formalmente alleate nell’Unione Europea? È proprio questo il tipo di scenario che una difesa comune e realmente integrata dovrebbe prevenire. Ma il piano da 800 miliardi, così com’è stato presentato, non sembra fornire garanzie in tal senso.
L’attuale spesa europea per la difesa: 300 miliardi di euro all’anno
Uno degli argomenti più forti contro l’idea che “bastino più soldi” per risolvere i problemi della difesa europea è la semplice constatazione di quanto già si spenda: circa 300 miliardi di euro all’anno. Questa cifra, se aggregata, rende l’insieme dei Paesi UE uno dei principali investitori mondiali in ambito militare, all’incirca alla pari con la Cina e ben al di sopra della Russia.
Come mai, dunque, pur con una spesa così alta, l’Europa non riesce ad avere una deterrenza credibile e fatica persino a sostenere un Paese relativamente vicino come l’Ucraina nelle sue necessità di base (munizioni, veicoli corazzati, sistemi di difesa antiaerea)? La risposta risiede, in gran parte, nella dispersione e duplicazione delle voci di spesa.
Ogni Stato europeo ha le proprie forze armate, il proprio bilancio della difesa, la propria industria militare e le proprie scelte di procurement. Ciò genera enormi inefficienze:
- Sistemi d’arma differenti richiedono costi di ricerca e sviluppo separati, programmi di manutenzione specifici e addestramenti dedicati.
- Il mercato comune non funziona appieno per i settori militari, perché ogni Paese tende a favorire i propri produttori.
- Gli stessi standard militari variano moltissimo, rendendo complicata la piena interoperabilità tra gli eserciti. In uno scenario di guerra convenzionale su vasta scala, sarebbe un problema notevole.
Un esempio tangibile di inefficienza è quello dei carri armati: l’Europa conta diversi modelli e varianti in servizio (Leopard tedeschi, Leclerc francesi, Ariete italiani, Challenger britannici, PT-91 polacchi di derivazione sovietica, e così via). Ognuno di questi richiede pezzi di ricambio specifici, addestratori dedicati, manuali diversi. Gli Stati Uniti, con un budget ben più elevato, hanno però un modello standard (M1 Abrams), facilitando enormemente logistica e manutenzione.
Se è vero che la spesa europea è già comparabile a quella di una superpotenza come la Cina, bisogna chiedersi perché i risultati in termini di potenza militare complessiva siano così inferiori. La risposta sta nel fatto che la Cina opera con un’unica dottrina, un’unica gerarchia e un piano di investimento centralizzato. Nell’UE, invece, ogni Stato si muove per conto proprio. Ecco perché, prima di immettere nuovi fondi, sarebbe fondamentale correggere queste storture.
Aumentare di altre decine o centinaia di miliardi la spesa annuale, senza risolvere i problemi strutturali della duplicazione, dell’assenza di una catena di comando unitaria e del campanilismo industriale, rischia di non cambiare la situazione. Anzi, potrebbe persino peggiorarla, se i nuovi progetti andranno a sommarsi in maniera scoordinata a quelli già esistenti.
L’assenza di un piano strategico chiaro e gli interrogativi sulle finalità del nuovo budget
Uno dei punti più controversi del piano presentato dalla Commissione è la carenza di dettagli sulle finalità concrete dell’investimento. Di fronte a un importo tanto rilevante, sarebbe lecito aspettarsi un documento organico che delinei:
- Quali sono gli obiettivi militari specifici dell’UE nel breve, medio e lungo termine?
- Quali scenari di crisi si vogliono fronteggiare in modo congiunto?
- Quali capacità militari si devono prioritariamente sviluppare o rafforzare (aviazione, marina, forze terrestri, cyber-sicurezza, difesa missilistica…)?
- Quali step si prevedono per l’interoperabilità e la standardizzazione?
- Come verrà suddiviso il budget tra i diversi progetti e i differenti Stati membri?
Invece, si ha la sensazione che esista solo un obiettivo di massima, ossia “spendere di più” perché la situazione geopolitica lo richiederebbe. Questa è un’impostazione “dogmatica” l’idea che si debba raggiungere una certa soglia di spesa in difesa a prescindere. L’UE dovrebbe, in altre parole, prima stabilire cosa vuole fare in campo militare e poi calcolare il budget necessario a raggiungere quegli obiettivi. Non il contrario.
Un piano di spesa slegato da una lista di priorità e da un’idea di come e quando impiegare la forza militare rischia di divenire un buco nero finanziario, dal quale traggono beneficio soltanto le lobby dell’industria degli armamenti. Inoltre, tale approccio alimenta lo scetticismo di quei cittadini europei che vedono l’aumento delle spese militari come un inutile sperpero di risorse, soprattutto in un periodo segnato da crisi sociali ed economiche, dal caro energia e dalla necessità di investire nella transizione ecologica.
Un altro interrogativo da porsi riguarda l’effettiva portata temporale di questo piano: se i fondi fossero distribuiti su un arco di dieci o vent’anni, l’annuncio di “800 miliardi” suonerebbe più come uno slogan politico che un’immediata rivoluzione delle forze armate. Se invece fossero concentrati in pochi anni, sorgerebbe il dubbio che si tratti di un’enorme spesa “di emergenza”, non sostenibile nel lungo termine, e per di più non coordinata.
Le implicazioni politiche di una spesa militare europea disorganizzata
Da un punto di vista politico, il piano da 800 miliardi potrebbe avere importanti ricadute sulla coesione interna dell’Unione. Da tempo, infatti, settori diversi dell’UE manifestano posizioni divergenti in merito alla politica estera e di difesa:
- I Paesi dell’Europa orientale (Polonia, Stati baltici, Romania) temono maggiormente la Russia e sono propensi ad aumentare le spese militari, cercando al contempo un rafforzamento del ruolo della NATO.
- I Paesi dell’Europa meridionale (Italia, Spagna, Grecia, Portogallo) devono gestire questioni diverse, come la pressione migratoria e la stabilità del Mediterraneo, e spesso hanno margini di bilancio ridotti.
- La Francia ambisce a un ruolo di leadership militare continentale, facendo leva anche sul proprio deterrente nucleare, mentre la Germania è stata storicamente restia a un forte impegno militare, ma di recente ha annunciato un cambio di rotta (“Zeitenwende”), stanziando ingenti fondi per le proprie forze armate.
- Alcuni Paesi neutrali o non allineati (Austria, Irlanda, Malta, Svezia e Finlandia prima della recente richiesta di adesione NATO) hanno approcci del tutto peculiari in materia di difesa.
In questo quadro complesso, gettare sul tavolo una cifra stratosferica di spesa militare senza un meccanismo di governance unitaria rischia di accentuare le già esistenti linee di faglia. Ogni Stato cercherà di massimizzare il proprio vantaggio nazionale, specialmente in termini di contratti all’industria domestica, e spingerà la narrativa a proprio favore. Inoltre, la decisione di escludere una simile spesa dai vincoli di bilancio europei è destinata a generare ulteriori tensioni, con alcuni Paesi che potranno indebitarsi più di altri in nome di una “emergenza difesa” percepita come prioritaria.
Un monito viene da chi ricorda le competizioni passate tra Paesi membri in teatri come la Libia, il Sahel o i Balcani. Anche se una guerra intraeuropea appare oggi un’ipotesi remota, è innegabile che le agende geopolitiche dei vari Stati non sempre coincidano. Se si incentiva la crescita di forze armate nazionali ben oltre un coordinamento comune, le tensioni potrebbero, in teoria, aggravarsi.
Il precedente della Grecia e la differenza di approccio dell’UE
Un tema morale e politico che molti critici sollevano riguarda il doppio standard mostrato dalle istituzioni europee: nel caso della crisi greca (esplosa a partire dal 2010), si sostenne ripetutamente che i Trattati non consentivano deroghe significative alle regole di bilancio e ai vincoli imposti dalla BCE e dalla Commissione. Le conseguenze furono tagli draconiani alla spesa pubblica greca, con effetti sociali pesantissimi, tra cui un aumento della mortalità, anche infantile, e l’emigrazione massiccia di giovani in cerca di lavoro.
Nonostante il dramma sociale, l’UE non fu disposta a “rompere” le regole di bilancio per consentire un piano di salvataggio meno traumatico. Si scelse invece la strada dell’austerità, con la “Troika” a monitorare ogni centesimo speso e a imporre riforme durissime. Oggi, di fronte all’ipotesi di un piano da 800 miliardi di euro in ambito militare, emergono voci che sostengono la necessità di “aggirare” i vincoli di bilancio e di consentire ai Paesi membri di spendere in deficit pur di potenziare la difesa.
Da qui nasce una domanda etica: perché per salvare le vite di milioni di cittadini greci, mantenendo in piedi il tessuto sociale ed economico di un Paese membro, si reputava impossibile superare i limiti dei Trattati, mentre per aumentare la spesa militare – in vista di una minaccia russa peraltro tutta da valutare nei suoi reali contorni – sembra che tali vincoli possano essere sospesi? Questa disparità di trattamento alimenta un forte risentimento in alcune aree dell’Europa, dove la crisi economica ha ancora lasciato cicatrici profonde.
Al netto delle differenze di contesto, il paragone è efficace per mostrare quanto l’UE possa decidere “quando” e “come” essere flessibile: la rigidità che si è vista nei confronti della Grecia e di altri Paesi in crisi durante gli anni dell’austerità contrasta con l’atteggiamento ben più tollerante nel caso di spese militari. Ciò rafforza l’idea che l’Europa non agisca davvero in base a principi comuni, ma segua soprattutto interessi geopolitici e pressioni esterne
L’importanza della deterrenza nucleare e la “lezione” di Corea del Nord e Pakistan
Un’altra grande questione di fondo riguarda il ruolo della deterrenza nucleare nella difesa moderna. Se l’obiettivo ultimo è evitare conflitti su larga scala, le guerre degli ultimi decenni mostrano che l’unico vero fattore che ha reso certi Paesi “inattaccabili” o quantomeno scarsamente aggredibili è la presenza di testate nucleari. La Corea del Nord è l’esempio paradigmatico: pur essendo un Paese economicamente arretrato e isolato sul piano internazionale, è riuscita a evitare qualsiasi intervento militare esterno proprio grazie alla minaccia della bomba atomica.
Lo stesso vale per il Pakistan, che possiede l’arma nucleare nonostante la sua fragilità interna e i conflitti con l’India. Grazie all’arsenale atomico, Islamabad conserva un “ombrello” di protezione molto più efficace di qualsiasi esercito convenzionale, a fronte di un budget militare ben inferiore a quello di molte potenze occidentali.
L’UE, al suo interno, possiede già testate nucleari: la Francia è una potenza nucleare dichiarata, con all’incirca 300 testate disponibili; il Regno Unito, pur essendo uscito dall’Unione, mantiene un arsenale di circa 215 testate. Al di là delle implicazioni politiche della Brexit, rimane il fatto che sul continente europeo sono presenti armi nucleari in grado di esercitare una fortissima deterrenza contro potenziali aggressori di pari livello (come la Russia, appunto).
Se il vero scopo fosse la pura “deterrenza”, si potrebbe ipotizzare di mettere in comune le testate francesi (e magari concordare un qualche accordo con Londra, o comunque con la NATO) per garantire all’Europa un “ombrello nucleare” condiviso. Da un punto di vista strettamente logico, sarebbe sufficiente questo a sbarrare la strada a qualsiasi ambizione di invasione su larga scala. Eppure, nel dibattito sulla difesa UE, si continua a puntare prevalentemente sulle forze convenzionali e su una spesa che sembra moltiplicarsi, senza un indirizzo chiaro.
La domanda, dunque, è: a che scopo investire decine di miliardi in armamenti convenzionali, quando – per pura deterrenza – sarebbe ben più forte un arsenale nucleare gestito a livello europeo e dotato di un chiaro indirizzo politico? Chiaro, il nucleare non serve per operazioni di peacekeeping o per interventi di “nation building”. Ma se la ragione di fondo è il timore di un’invasione russa, la letteratura strategica suggerisce che il fattore nucleare sia l’unico vero deterrente di ultima istanza, non un esercito convenzionale, per quanto numeroso e dotato di armamenti sofisticati.
La questione dell’arsenale nucleare franco-britannico
Per quanto riguarda la proposta di “mettere in comune” l’arsenale nucleare europeo, occorre fare i conti con molteplici ostacoli politici e pratici. La Francia considera le proprie testate nucleari un elemento essenziale della sua sovranità nazionale e della sua capacità di proiezione di potenza. Il Regno Unito, dopo la Brexit, mantiene una posizione ancora più autonoma, ancorata alla storica “special relationship” con gli Stati Uniti.
D’altro canto, la condivisione di un deterrente nucleare a livello comunitario solleva complicate questioni di comando e controllo: chi premerebbe il “pulsante” in caso di necessità? Chi avrebbe voce in capitolo sulle dottrine d’impiego, sulla manutenzione e sul rinnovamento delle testate? È evidente che una simile proposta richiederebbe un grado di integrazione politica e di fiducia reciproca molto superiore a quello attualmente esistente nell’UE.
Tuttavia, l’argomento resta valido a livello teorico: se la ragione principale per investire massicciamente in difesa è la deterrenza verso potenziali attacchi esterni, allora un arsenale nucleare condiviso potrebbe risultare più efficiente (e persino meno costoso) di tante forze convenzionali parallele. Le centinaia di testate francesi, magari unite in un consorzio europeo, fornirebbero una garanzia di deterrenza che nessuno Stato esterno potrebbe ignorare.
Il fatto che questo punto sia sostanzialmente assente dal dibattito mainstream e dai documenti di Bruxelles suggerisce che le motivazioni per l’aumento della spesa difensiva siano più sfumate o, per taluni, meno limpide. Forse si tratta di assecondare gli interessi di diverse industrie della difesa, di rassicurare alcuni Stati membri ansiosi dopo l’aggressione russa in Ucraina, di mostrare unità politica in un momento di crisi. Ma resta il dubbio che tutta questa spesa aggiuntiva per le forze convenzionali abbia un rapporto costi-benefici decisamente inferiore rispetto a un’ipotesi – per quanto politicamente complessa – di condivisione dell’ombrello nucleare già esistente.
Le incognite sulla minaccia russa e la coerenza della strategia di difesa europea
Il piano da 800 miliardi è stato in gran parte giustificato con il timore di una possibile espansione dell’aggressione russa all’interno dei confini dell’UE. Tuttavia, la guerra in Ucraina ha anche mostrato i limiti della potenza militare russa: sebbene Mosca disponga di un arsenale nucleare imponente, la campagna convenzionale contro Kiev si è rivelata molto più complessa e logorante del previsto. Ciò suggerisce che la Russia, pur rappresentando una minaccia, non sia necessariamente in grado di “travolgere” l’UE in un blitz militare su larga scala.
Inoltre, la NATO, di cui gran parte dei Paesi europei fanno parte, ha risposto con forza, inviando aiuti militari e rafforzando il fianco orientale. L’Alleanza Atlantica ha dispiegato truppe e mezzi, e sta integrando nuovi Paesi. Questo consolida la convinzione che il vero pilastro di difesa dell’Europa rimanga – nei fatti – la NATO, non l’UE. Se è così, qual è lo spazio per una difesa europea autonoma? La coerenza della strategia UE è messa in dubbio: se si vuole perseguire un vero esercito europeo, bisognerebbe ridiscutere il rapporto con la NATO e affermare una dottrina strategica indipendente; se invece ci si affida comunque all’ombrello atlantico, un maxipiano di spesa militare europea rischia di essere ridondante o, peggio, scoordinato.
Questa incongruenza di fondo mina la credibilità del progetto: l’UE si presenta come un soggetto geopolitico maturo, ma all’atto pratico demanda spesso la difesa collettiva agli Stati Uniti. E quando annuncia investimenti nell’industria militare, lo fa senza una vera regia politica che stabilisca come coordinare le forze e, soprattutto, con quali finalità ultime. Nel medio-lungo termine, questa ambiguità potrebbe danneggiare la stessa stabilità del continente, perché gli Stati Uniti non saranno disposti per sempre a coprire un’Europa divisa e disorganizzata, o potranno chiedere contropartite geopolitiche (ad esempio, nell’Indo-Pacifico) che l’UE non è pronta a fornire.
Un approccio organico ed i 5 punti per parlare di difesa Europea
- Una visione strategica condivisa: Quali sono le principali minacce? Come si intende agire in scenari di crisi? Quali regole di ingaggio per le forze europee?
- Un comando unificato: Chi gestisce le operazioni militari a livello europeo? Con che autorità?
- Standardizzazione: Quali modelli di armamento e quali procedure comuni vengono adottati per garantire l’interoperabilità?
- Un meccanismo democratico di controllo: Come il Parlamento Europeo e i parlamenti nazionali possono vigilare sull’uso di forze armate comuni? Chi decide su interventi militari all’estero?
- Coordinamento con la NATO: Come evitare duplicazioni e assicurare una transizione graduale verso maggior autonomia europea senza creare fratture con l’Alleanza Atlantica?
In assenza di queste premesse, la spesa aggiuntiva potrebbe trasformarsi in un gigantesco spreco di risorse, con conseguenze paradossali. L’Europa, infatti, non ha bisogno di “più” eserciti nazionali; semmai, ha bisogno di “uno” strumento militare europeo integrato, gestito da istituzioni comuni.
Inoltre, un’analisi critica deve anche considerare l’impatto economico e sociale: 800 miliardi di euro sono una cifra colossale, che potrebbe essere utilizzata in altri settori fondamentali (infrastrutture green, istruzione, ricerca, welfare). Naturalmente, la difesa è un bene pubblico importante, ma le risorse sono limitate e ogni spesa va valutata in termini di priorità e risultati attesi.
Le implicazioni politiche e la spesa senza coordinamento
La storia insegna che, in mancanza di una vera riforma istituzionale, i generosi fondi europei potrebbero finire dispersi in rivoli clientelari e in progetti che non sviluppano alcuna effettiva capacità bellica comune. È successo con alcuni programmi di ricerca congiunti, rallentati dalla mancanza di convergenza politica. Non c’è motivo di credere che questa volta sarà diverso, se non si cambia radicalmente impostazione.
La sicurezza del continente europeo è un tema delicatissimo che merita un dibattito serio e approfondito. Un piano di spesa militare di 800 miliardi di euro è un progetto tanto imponente quanto potenzialmente dirompente per gli equilibri politici ed economici dell’UE. Senza un solido meccanismo di coordinamento, senza una chiara lista di obiettivi, senza una forma di governance democratica su come e dove utilizzare queste risorse, il rischio è di sprecare un’occasione storica per costruire una vera architettura difensiva europea.
D’altronde, la storia insegna che l’abbondanza di risorse, da sola, non garantisce il successo di un progetto. Se l’obiettivo è dotare l’Europa di uno strumento militare credibile e coeso, la priorità dovrebbe essere un accordo politico che superi la mentalità nazionale e le divisioni storiche, gettando le basi per un Esercito Europeo o, perlomeno, per una struttura integrata di difesa. Soltanto allora le ingenti risorse potrebbero essere utilizzate in modo razionale, sviluppando capacità comuni (ad esempio, una flotta europea di droni, aerei di trasporto strategici, difesa cyber, radar, sistemi missilistici condivisi), evitando duplicazioni e garantendo economie di scala.
Un ulteriore vantaggio della difesa Europea è la diluizione degli estremismi locali. Ogni nazione europea vede periodicamente affiorare movimenti estremisti e sovversivi dai risultati elettorali importanti. Nell’ambito del parlamento Europeo questi estremisti che hanno basi elettorali locali sono sempre molto diluiti e fuori dai gruppi parlamentari di governo. Se però la Germania di Merz vuoi investire 500 miliardi nella spesa militare, chi assicura l’Europa che alle prossime elezioni questo potenziale bellico non sia nelle mani del secondo partito gli estremisti di Afd. A questo punto chi garantisce gli altri europei che gli interessi della Germania coinciderebbero con quelli dell’Europa?