Con la sentenza della Quinta Sezione Penale della Corte di Cassazione pubblicata lo scorso 14 aprile (Sent. 13993/21) si introduce nel nostro ordinamento giuridico un principio che è stato da tempo riconosciuto dalla giurisprudenza della Corte Europea per i Diritti dell’Uomo sulla scorta dell’Art. 10 dell’omonima Carta: la reclusione, anche qualora riguardi sentenze che concedano la sospensione condizionale della pena, non può essere inflitta dal giudice per il reato di diffamazione se non nei casi in cui siano lesi gravemente altri diritti fondamentali dell’individuo, come accade quando le espressioni usate ricadono in discorsi che propalano messaggi di odio o di istigazione alla violenza.
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La diffamazione nel nostro sistema giuridico e le norme in discussione
Questo arresto della Suprema Corte si innesta in un sistema giuridico, il nostro, connotato da norme in vigore e da altre in corso di esame parlamentare, su cui incidono contrasti politici e differenti visioni circa l’ampiezza e i limiti del diritto costituzionale alla libertà di pensiero, inteso in senso sempre più ampio anche per l’effetto diffusivo a livello planetario svolto dai social network, le piattaforme digitali ove si snodano ininterrottamente dialoghi e discussioni fra utenti che sono fortemente intrisi di vis polemica e di capacità lesiva dell’altrui personalità[1].
Sono trascorsi ormai diversi anni dall’approvazione del DDL C-925 di iniziativa del deputato Enrico Costa (XVII Legislatura) che avrebbe dovuto introdurre significative modifiche ai quattro codici in tema di diffamazione a mezzo stampa e con gli altri mezzi di comunicazione di massa, trasmesso al Senato (Atti S-1119-B) per la conversione in legge il 18 ottobre 2013 e ritrasmesso alla Camera il 29 ottobre 2014 con modifiche. Alla data del 18 ottobre 2017 il DDL risultava in corso di esame presso le commissioni competenti ma attualmente esso si trova su un binario morto.
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Va peraltro detto che già in sede di discussione parlamentare era emersa la necessità di procedere alla revisione di questo disegno di legge nel testo approvato dalla Camera dei deputati in quanto le posizioni di alcuni partiti non sembravano orientate verso una reale depenalizzazione del reato di diffamazione a mezzo stampa, così come è accaduto nel tempo alle normative di molti altri Paesi dell’Unione Europea. La disciplina oggetto della proposta di legge infatti, pur facendo un ampio ricorso a strumenti – come la rettifica – che consentono di evitare l’applicazione di sanzioni penali detentive nei confronti dei giornalisti e, più in generale, dei soggetti che comunicano al pubblico informazioni di contenuto offensivo per l’onore e/o la reputazione delle persone criticate, manteneva in vita una serie di pene accessorie quali l’interdizione dalla professione di giornalista e la trasmissione degli atti al competente ordine professionale per le determinazioni relative alle sanzioni disciplinari che non sono viste favorevolmente a alcuni schieramenti politici.
Gli stessi emendamenti presentati nel corso dell’esame parlamentare del DDL Costa, pure volti a trasferire la punizione più rilevante a carico dei colpevoli nell’ambito dell’obbligo dell’oscuramento, della rimozione e della disabilitazione dell’accesso ai contenuti illeciti, oltre che nella rettifica quasi immediata della notizia non veritiera, sono apparsi spesso volti al mantenimento di un assetto rivolto ai media tradizionali, quali stampa e televisione, piuttosto che orientato allo sviluppo digitale dei media online.
Di contro si deve osservare che nella maggioranza dei paesi dell’Unione Europea, chi commette un illecito diffamatorio incorre in una sanzione di natura pecuniaria, ovviamente rapportata alla gravità del fatto commesso, ma in cui l’ambito sanzionatorio di applicazione rimane quello amministrativo e civilistico e non quello penale attualmente previsto dalla L. 57 del 1948 e dall’Art. 595 n. 3 del Codice penale.
Nel corso dell’attuale XVIII Legislatura, il DDL Costa è stato in parte ripreso in una nuova proposta di legge presentata da parte del senatore Giacomo Caliendo (Atti S-812 – pubblicato in data 7 luglio 2020) il quale, mantenendone inalterato il titolo, propone all’Art. 13, al pari di quanto prevista dal testo in precedenza discusso al Parlamento, di modificare le sanzioni penali previste dalla Legge sulla Stampa (in esse incluse quelle stabilite dal terzo comma dell’Art. 595 del Codice Penale) con la previsione dell’applicazione ai colpevoli di diffamazione a mezzo dei media di informazione della sola multa variabile da € 5.000,00 a € 10.000,00 e, per il caso di attribuzione di un fatto diffamatorio determinato da € 10.000,00 a € 50.000,00. Anche nell’ambito di questo provvedimento, snellito in sette articoli, la sanzione pecuniaria rimane quindi agganciata ai delitti seppure attraverso l’irrogazione di una multa.
L’eccezione dell’istigazione all’odio
Se, alla luce di quanto abbiamo sopra constatato, la direttrice lungo la quale si va muovendo la normativa interna del nostro Stato è quella di una progressiva eliminazione della pena della reclusione per i reati di opinione commessi attraverso i mezzi di comunicazione di massa destinati all’informazione, diverso appare il regime che riguarda le violazioni dei diritti della persona per il caso di delitti commessi attraverso il cosiddetto “hate speech” e per il tramite dell’istigazione all’odio e alla discriminazione anche razziale.
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Come noto, infatti, il nostro Codice penale (Art. 604-bis e Art. 604-ter introdotti con il D. Lgsl. 21/2018) punisce severamente la propaganda di idee basate sulla superiorità o sull’odio razziale o etnico, ovvero l’istigazione a commettere atti di discriminazione per motivi razziali, etnici, nazionali o religiosi. Ancora più gravemente punito è chi istighi altri alla commissione dei reati di cui sopra, giungendosi a sanzionare tali comportamenti con la pena aumentata sino alla metà (quindi la pena della reclusione da sei mesi a tre anni, soggetta ad aumentare a nove mesi, nel minimo, e a quattro anni e sei mesi, nel massimo) a carico di coloro i quali agevolano l’attività di organizzazioni, di movimenti o di gruppi aventi la finalità di discriminazione sopra illustrate.
La particolare rilevanza sociale della repressione dei cosiddetti “discorsi d’odio” si profila con chiarezza anche nel settore dei media audiovisivi e radiofonici, ove la Delibera 157/19/CONS emessa dall’AgCom il 15 maggio 2019 pone a carico dei fornitori dei media audiovisivi misure di prevenzione e di controllo sulla possibile presenza nel contesto della programmazione espressioni di odio che possano tradursi nel pregiudizio per persone che vengano associate a categorie o a gruppi oggetto di discriminazione, così da ledere la dignità umana e la personalità dell’individuo.
Le disposizioni internazionali
Le disposizioni interne in materia di contrasto all’odio di razza e di discriminazione religiosa o politica, pur derivando dal testo del Trattato di New York del 4 gennaio 1969 recante la “Convenzione internazionale sull’eliminazione di ogni forma di discriminazione razziale” hanno trovato ulteriore fonte sia nel testo della Direttiva 89/552/CE c.d. “Televisione Senza Frontiere” (Art. 12 sulla pubblicità televisiva) nonché nella Raccomandazione R (97) 20 in data 30 ottobre 1997, con la quale il Consiglio d’Europa, riportandosi alla “Dichiarazione di Vienna e Programma d’azione” del 1993 sulla protezione dei diritti umani, ha fissato alcuni principi cui gli Stati membri debbono adeguarsi nel creare le proprie normative in materia, allo scopo di impedire il risorgere di razzismo, xenofobia e antisemitismo. Sono stati in tale sede riaffermati gli impegni per gli Stati membri di assumere iniziative appropriate per combattere i discorsi di odio, attraverso un approccio globale di lotta contro questo fenomeno e alle sue cause di natura sociale, economica, politica e culturale.
Il DDL Zan
Per quanto vi siano state reazioni non tutte di segno favorevole da parte del mondo politico e da parte dei social network alla loro presentazione, si pongono in linea di continuità con quanto abbiamo qui brevemente illustrato circa gli atti di discriminazione razziale, i disegni di legge (uno di essi per ora solo annunciato dai partiti della destra politica) recanti “misure di prevenzione e contrasto della discriminazione e della violenza per motivi fondati sul sesso, sul genere, sull’orientamento sessuale, sull’identità di genere e sulla disabilità”, di cui il testo approvato il 4 novembre 2020 dalla Camera dei Deputati e ora all’esame del Senato (S-2005, XVIII Legislatura), rappresenta il prototipo (c.d. “legge Zan”).
Si tratta di un provvedimento che mira ad estendere le sanzioni penali previste dall’Art. 604-bis e dell’Art. 604-ter del Codice penale, sopra ricordate, a una serie di comportamenti discriminatori che riguardano: “il sesso, il genere, l’orientamento sessuale, l’identità di genere o lo stato di disabilità” delle persone.
Vengono quindi severamente puniti con la sanzione della reclusione o della multa tutte le fattispecie che riguardano il compimento di atti di comunicazione al pubblico o di promozione di contenuti (frasi, immagini, allusioni, disegni, ecc.) che vadano a colpire l’individuo (o una collettività), discriminandolo, per le sue connotazioni identificative personali.
Il testo della proposta di legge in argomento mira a modificare, oltre che le norme in materia di istigazione all’odio razziale, anche l’Art. 90-quater del codice di procedura penale, precisando che allo scopo di valutare la condizione di particolare vulnerabilità della persona offesa, dovrà tenersi in considerazione non solo se il fatto risulti commesso con violenza verso la persona o con odio razziale – così come prevede la norma attuale – ma anche per ragioni fondate sul sesso, sul genere, sull’orientamento sessuale o sull’identità di genere.
Conclusioni
Siamo quindi di fronte a un assetto normativo interno che presenta aspetti per certi versi dissonanti: non si prevede la reclusione per gli atti di diffamazione a mezzo stampa, ma – d’altro lato – si garantisce una estesa tutela penale anche detentiva ad ogni atto che vada a discriminare gli esseri umani per il loro sesso, genere, disabilità.
Si tratta di mutamenti epocali che richiedono un passo in avanti coraggioso di tutta l’umanità.
- La Corte di Giustizia di Strasburgo nel caso C-18/18 ha statuito con sentenza del 3 ottobre 2019 che le norme vigenti sulla responsabilità degli ISP consentono di ottenere la rimozione a livello globale del contenuto di messaggi diffamatori precedentemente dichiarati illeciti. Sulla responsabilità penale per diffamazione a mezzo di social network, la Corte di Cassazione (Sent. 3148/2019, Sez, V Penale) considera necessario valutare nel caso concreto se le espressioni usate dal soggetto accusato costituiscano esercizio del diritto di critica, ovvero se esse debordino da tale contesto configurando una vera e propria aggressione personale nei confronti del soggetto leso nel proprio onore e reputazione. ↑