Perché l’intelligenza artificiale potrebbe rappresentare un gravissimo pericolo per Alphabet-Google, fermo restando che a fronte di tecnologie innovative di questa portata – general-purpose technologies (GPT) come le definiscono gli storici economici – moltissime cose potrebbero cambiare (e in parte sta già avvenendo) nell’intera economia e più in generale della società? È il primo dei tre temi che affronterò sinteticamente, rifacendomi anche al recentissimo articolo del The New York Times “A New Chat Bot Is a ‘Code Red’ for Google’s Search Business- A new wave of chat bots like ChatGPT use artificial intelligence that could reinvent or even replace the traditional internet search engine” scritto a due mani dai responsabili delle notizie riguardanti rispettivamente Google e l’AI.
Perché questo paragone – è il secondo tema – con Eastman Kodak, fra tutti i casi di imprese “cadute dal piedistallo” a causa dell’avvento di nuove tecnologie capaci di rendere obsoleti i loro business model? E infine il terzo tema riguarda il comparto in generale del digital advertising, dove Google – continuando in larga parte ad avvalersi del suo motore di ricerca – è tuttora leader mondiale: per evidenziare come il comparto stesso si stia affollando di continuamente nuovi competitori, provenienti dai comparti più diversi ma accumunati dal fatto di disporre di grandi quantità di dati in costante aggiornamento.
Mercato tech, dalla grande crisi nascerà la prossima rivoluzione
Perché l’AI può minacciare la leadership di Google nel digital advertising
È stata la presentazione da parte di OpenAI (la fondazione che ha anche Elon Musk fra i finanziatori) della sua ultima creatura – ChatGPT – a generare un grande dibattito a livello mondiale. L’Ansa ha sintetizzato questo dibattito con il titolo “Arriva ChatGpt, l’AI che fa concorrenza a Google”, avvisando però nel sottotitolo “Risposte su argomenti di ogni tipo, non sempre corrette”. The Economist, nell’ultimo numero del 2022, ha addirittura intitolato un suo articolo “How the tech behind ChatGPT could change the world”. E si è visto in precedenza come The New York Times abbia visto l’arrivo della nuova chat come un “codice rosso” per il business che Google ha saputo costruire attorno al suo motore di ricerca, come un segnale dell’avvicinarsi di un pericolo di cui si parla da molti anni: un pericolo che peraltro Google conosce così bene da essersi impegnata da lungo tempo nella ricerca di punta sull’AI, sino a diventarne uno dei protagonisti su scala mondiale: affiancata in tale impegno non solo da un numero elevato di startup, ma anche da imprese della portata di Microsoft e Meta.
Parlo di “codice rosso” perché l’AI, cui si guardava già negli anni Settanta (il mio compianto collega Marco Somalvico ne aprì allora un laboratorio al Politecnico di ritorno da Stanford), ha fatto enormi progressi nello scorso decennio per l’effetto combinato di tre fattori:
- l’impressionante crescita della potenza (e quindi della velocità) di calcolo, resa possibile dai nuovi processori;
- il diverso approccio dell’AI all’analisi dei dati, con lo sviluppo dei cosiddetti foundation models (di cui il BERT di Google è stato nel 2017 fra i pionieri e di cui ChatGPT è l’ultimo esempio): modelli che guardano all’insieme dei dati, invece che analizzarli sequenzialmente, e che lasciano che sia la macchina a trovare le possibili correlazioni, invece che assegnare a priori una specifica finalità all’analisi dei dati stessi;
- la sempre crescente quantità di dati generati attraverso Internet (cui la crescita dell’IoT-Internet of Things darà ulteriore impulso), che rappresentano il “cibo” di cui l’AI deve alimentarsi per produrre buoni risultati: per sapere ad esempio rispondere compiutamente a una qualsiasi domanda, con un testo scritto correttamente; per saper produrre un disegno (utilizzabile come accaduto per una copertina di The Economist) o un dipinto (in grado come accaduto di vincere un concorso) a partire da poche parole; e così via.
I punti forti del chat bot
Quali sono i pregi di una chat quale quella messa a punto da OpenAI? E perché essa, o piuttosto la tecnologia che ne è alla base e alla cui costruzione i ricercatori di Google hanno dato un contribuito fondamentale, potrebbe rappresentare – una volta perfezionata – un grosso pericolo per Google? I pregi sono presto detti, come spiega bene il citato articolo di The New Times che traduco liberamente: “una chat di questo tipo, a fronte di domande, può rispondere con frasi chiare e semplici, invece che fornire – come fa il motore di ricerca di Google – una serie di link; può spiegare concetti anche complessi in modi che siano facilmente comprensibili; può pure generare idee del tutto nuove (from scratch), quali suggerimenti per strategie di business, piuttosto che per regali di Natale o possibili vacanze”. Il pericolo è che sulla base di questo nuovo tipo di chat bot technology possano essere costruiti nuovi motori di ricerca, in grado per le loro caratteristiche di fare concorrenza o al limite di rimpiazzare quello di Google, che da oltre vent’anni rappresenta la primaria via di accesso a Internet su scala mondiale.
Google ha tutti i mezzi per costruirsi un nuovo motore di ricerca basato su tale tecnologia – è suo il chat bot denominato LaMDA-Language Model for Dialogue Applications – ma rischia, creando un suo motore (anche se migliore) in gara con le startup che potrebbero cercare di entrare nel mercato, di arrecare severi danni a quello che è tuttora il suo business largamente dominante. La ragione: il nuovo tipo di motore non è adatto “to delivering digital ads”, perché se le risposte alle domande poste sono complete “you won’t click on any ads”, e il nuovo motore potrebbe cannibalizzare quello esistente.
Perché questo scenario catastrofico possa verificarsi occorrono però ancora molti progressi, dal momento che le chat, come quelle messe a punto da OpenAI o dalla stessa Google, hanno tuttora un rilevante problema: ingurgitando una quantità enorme di dati, esse non sempre sono in grado di stabilire l’affidabilità degli stessi e quindi possono anche generare informazioni false, toxic and biased. È su questo punto – sulla possibilità di eliminare le fake news, le incitazioni all’odio e alle discriminazioni razziali, ecc. – che le imprese presumibilmente lavoreranno nel prossimo futuro: con una maggiore libertà di sperimentazione per le startup, che, avendo meno problemi di protezione della loro immagine rispetto a Google, possono permettersi qualche errore in più senza conseguenze drammatiche: conseguenze che viceversa sia Microsoft nel 2016 sia più recentemente Meta hanno dovuto affrontare, trovandosi alla fine costrette (sotto la pressione dei media e dei social) a ritirare le loro chat sperimentali.
Il caso Kodak
Che cosa c’entra Kodak con Google? Kodak, sino alla fine del secolo scorso, rappresentava quasi un sinonimo di fotografia. Essa non solo era stata leader globale nel mondo della fotografia sin dai primi decenni del Novecento, ma ancora nel 1990 – secondo una classifica stilata da Bloomberg e ripresa nel recente studio di JPMorgan Asset Management “How the disruptive power of technology can remake the economy” – era settima al mondo per valore di mercato fra le leading technology companies, dopo aver addirittura occupato il secondo posto nel 1980 alle spalle di Ibm e davanti a imprese come Xerox, HP, Motorola e Intel. Con una posizione di grande rilievo non solo fra le imprese tecnologiche, ma anche in termini assoluti: era addirittura quarta per market cap fra le imprese statunitensi nel 1970, alle spalle di Ibm, AT&T e GM, ma davanti a colossi come Exxon e General Electric. Ed era un’impresa avveduta, che guardava alle opportunità e ai rischi che l’aspettavano nel futuro: tanto che suoi sono stati i primi importanti brevetti nella fotografia digitale, in tempi in cui la miniaturizzazione dei chip non era ancora tale da garantire una qualità ragionevole delle foto stesse.
E allora perché la caduta, che la fece precipitare nel chapter 11 (la procedura prevista negli Stati Uniti per cercare di evitare il fallimento) e che ora fa sì che la Borsa valuti il suo spettro un quarto di miliardo di dollari, a fronte degli oltre mille di Alphabet (la holding quotata di cui Google rappresenta la componente larghissimamente maggioritaria)? È un caso di scuola veramente interessante, di cui ho parlato anche nel mio libro “Strategia” (Egea, II ed., 2016): quando il progresso nei microprocessori portò a un livello accettabile la qualità della fotografia digitale, Kodak era più che preparata ad adottare la nuova tecnologia, ma non aveva più con essa quella grande fonte di differenziale competitivo che la pellicola era stata nell’era della fotografia chimica. E nel giro di pochi anni ci fu prima un boom delle nuove macchine fotografiche digitali, con margini di profitto però ridottissimi, e poi il tutto passò (e lo è tuttora) nelle mani dei produttori di smartphone, lasciando pochissimo spazio sia per le macchine fotografiche sia per i processi di stampa su carta.
Fig. 1
Nella Fig. 1 è riportato il momento del crollo in Borsa, fra la fine del 2007 e la fine del 2008. Un momento simbolico, perché (anche se non fu la causa diretta del crollo) è nel 2007 che, con il lancio dell’iPhone da parte di Steve Jobs, iniziò l’era degli smartphone (ora nelle mani di oltre 4 miliardi di persone). Ed è simbolico anche del passaggio fra due ere diverse che sia stata Netflix a prendere il posto di Kodak, quando essa nel 2010 fu estromessa dallo S&P 500, il notissimo indice di Borsa statunitense di cui essa faceva parte sin dalla creazione dello stesso nel 1957.
Il paragone Kodak – Google
Ritornando a Google e all’intelligenza artificiale, e ricordando (se mai ce ne fosse bisogno) che sto parlando di uno scenario del tutto ipotetico, perché mi è venuto in mente questo paragone con Kodak e con la fotografia digitale? Per due ragioni, sostanzialmente:
- perché Google, come a suo tempo Kodak, conosce perfettamente (avendo addirittura avuto un ruolo nel crearla) la tecnologia basata sull’AI che potrebbe prendere il posto di quella attuale;
- perché con l’eventuale avvento della nuova tecnologia Google rischierebbe non solo di non avere differenziali competitivi significativi rispetto alla concorrenza (come avvenne per Kodak con la morte della pellicola), ma cadrebbe – o si ridimensionerebbe significativamente – la possibilità di utilizzare la ricerca per alimentare il digital advertising.
E ovviamente non sarebbe facile per Google stessa trovare una sorgente alternativa di ricavi e ancor più di utili, che le permettesse non tanto di sopravvivere, ma di rimanere – come è posizionata ormai da molti anni – ai vertici mondiali per capitalizzazione (è ora quarta alle spalle di Apple, Saudi Aramco e Microsoft) e per utile netto (è quarta alle spalle di Saudi Aramco, Apple e Microsoft). Ma al momento non esiste alcuna certezza, per i rischi di affidabilità visti in precedenza, sul quando e sul se questo salto di tecnologia potrà verificarsi.
Figg. 2 e 3
Concorrenza nel digital advertising: lo scenario
Le vie al digital advertising sono infinite, si potrebbe dire scherzando, sia per quanto concerne l’origine e la raccolta dei dati sia in relazione alle modalità di erogazione dei digital ads. E il contesto si presenta molto dinamico:
- fragile da un lato, se si guarda non solo ai possibili problemi di Google discussi in precedenza, ma anche ai danni causati a Meta dal cambio di politica sulla privacy di Apple (che le ha sottratto l’accesso a una grande mole di dati) e dalla crescita di Tik Tok nei social ai danni di Facebook e Instagram;
- sempre più affollato dall’altro lato, per l’entrata in campo di nuovi attori che – comprendendo le potenzialità di sfruttamento dei dati che hanno la possibilità di raccogliere – si (ri)organizzano per raccoglierli sistematicamente e per trasformarli in digital ads.
È su questo secondo punto, in particolare, che voglio soffermarmi. La Fig. 2 mette in evidenza come, accanto a un digital advertising basato sul search (ove Google fa la parte del leone) e uno basato sui social (con Meta protagonista), nei stia crescendo un terzo, basato sul retail, inizialmente solo su quello online (attivato da Amazon) ma ora anche su quello offline tradizionale. Walmart ad esempio, numero uno nella distribuzione tradizionale ma con una presenza significativa anche nell’ecommerce, si è fortemente impegnata negli ultimi anni nella raccolta sistematica di dati, sui clienti sia offline sia online, per sfruttare le sue potenzialità nel digital advertising. Ma anche Apple e Microsoft, alla perenne ricerca di nuove fonti di ricavi in assenza di innovazioni radicali e di nuovi breakthrough, sono in entrata nel comparto. Con il risultato, come si vede dalla Fig. 3, che la quota sul mercato statunitense dei due leader Google e Meta – in lento ma continuo declino da anni – è ora scesa sotto il 50 per cento, mentre è continuamente cresciuta la quota di Amazon.