lo studio

Digital marketing e influencer: il faro del Parlamento Ue sui rischi per consumatori e imprese

Sempre più imprese investono rilevanti somme per il proprio marketing veicolato tramite influencer e sempre più consumatori, specie vulnerabili, acquistano prodotti da essi reclamizzati. Ma quali sono i rischi e le tutele applicabili? Il Parlamento Ue ha commissionato uno studio per fare chiarezza

Pubblicato il 03 Mar 2022

Andrea Michinelli

Avvocato, FIP (IAPP), LA ISO/IEC 27001:2013

influencer4

Se anche il Parlamento UE ha commissionato uno studio sul fenomeno degli influencer – intitolato “The impact of influencers on advertising and consumer protection in the Single Market” – pubblicato il 16 febbraio scorso, significa che la sua portata non si può sottovalutare e anzi ne vanno ponderati attentamente i rischi.

In realtà, già in passato era stato fatto uno studio del fenomeno dalla Commissione UE, precisamente nel 2018 – tuttavia la sua portata si è espansa a un tale livello di pervasività e complessità da richiedere un aggiornamento. Sia sulla situazione corrente (sebbene, a causa della novità di queste tendenze di mercato, ci siano poche statistiche coerenti e comparabili) che sul possibile da farsi a livello normativo, per tentare di arginare alcune derive di questa realtà, figlia di una società digitale in mutazione perenne e che ne rispecchia, ovviamente, pregi e difetti.

“Fenomeno” influencer: come usare il potere di ispirare in chiave “educativa”

Lo studio è apprezzabile non solo per influencer e consumatori ma – visto che si tratta di un rapporto “a tre” – parimenti per le imprese che sempre più investono rilevanti somme per il proprio marketing veicolato tramite influencer, le quali potrebbero ritrovarsi “macchiate” da determinati comportamenti e condotte giuridiche dell’influencer. In tempi di web reputation si tratta di aspetti da non sottovalutare.

Vediamo di seguito di ripercorrere i punti fondamentali di un documento piuttosto corposo (più di cento pagine), concentrandoci sulle valutazioni prettamente giuridiche dopo alcune importanti nozioni di base.

Alla ricerca di una definizione: influencer chi?

Mancando una definizione univoca normativa o di settore, lo studio si apre col tentativo “sincretico” di racchiudere le innumerevoli fattispecie di influencer sotto un cappello unico.

Condensando le varie fonti, l’influencer risponderebbe a queste caratteristiche:

  • la creazione di contenuti vale a dire il servizio reso dagli influencer; nei casi di maggior rilievo, si tratta di un livello professionale e del coinvolgimento di un team, non molto distanti da certe produzioni audiovisive mainstream;
  • l’intento commerciale, che è guidato dai ricavi diretti dallo sfruttamento di marchi, dal coinvolgimento del pubblico e dai compensi derivanti dalle piattaforme;
  • la monetizzazione, vale a dire la generazione di entrate attraverso diversi modelli di business (incluso l’influencer marketing);
  • fiducia e autenticità, vale a dire le fonti di influenza sul proprio pubblico (che li considera esperti e affidabili), aventi un ruolo chiave nel differenziare gli influencer dagli altri attori del marketing.

La definizione finale dello studio è perciò quella di “un creatore di contenuti con un intento commerciale, che costruisce relazioni basate sulla fiducia e sull’autenticità con il proprio pubblico (principalmente su piattaforme di social media) e si impegna online con attori commerciali attraverso diversi modelli di business a fini di monetizzazione”.

La definizione pare adattarsi pure ai c.d. “influencer virtuali” – frutto per esempio di intelligenza artificiale, generati al computer e che assomigliano a un essere umano attivo sui social media. Si tratta di fattispecie emergenti e allarmanti: non sono soggette a danni alla reputazione nel modo in cui possono esserlo gli influencer umani, ragion per cui influencer virtuali che violassero le normative potrebbero essere semplicemente eliminati e sostituiti dalle aziende creatrici, giovandosi della loro non chiara (ir)responsabilità in tutto questo.

Non è stato incluso nella definizione, invece, un parametro numerico/dimensionale, a causa della volatilità dei follower organici o falsi, nonché dei problemi di calcolo accurato dell’engagement. È invece discussa la linea di confine tra influencer e commerciante (“trader”), quando è lo stesso influencer a vendere propri prodotti/servizi al pubblico: non sono questioni di fino ma giuridiche (pensiamo ad es. al Codice di Consumo nelle parti in cui si applica ai “professionisti”, tema che verrà ripreso di seguito). Anche il verbo “influenzare” è problematico perché non è un termine legale, è difficile ricondurlo a concetti giuridici – lo studio tenta di farlo riformulando l’influenza in termini di pubblicità e monetizzazione dei contenuti.

L’impatto sui consumatori è rilevante perché l’influencer ha un certo potere sul processo decisionale di acquisto, specie pensando a target “deboli” come bambini e consumatori con bassa istruzione o a basso reddito, particolarmente vulnerabili a questi influssi – lo affermano gli autori sulla base di diverse statistiche. Tanto più se pensiamo all’esplosione di una “onlife” sempre più spostata sul digitale che non, a causa della pandemia e delle relative restrizioni sociali.

A fronte di ciò si richiede il giusto equilibrio tra il consentire lo sviluppo del libero mercato per le attività commerciali degli influencer e dei loro sponsor e, dall’altro lato, la protezione degli interessi dei consumatori, sempre più articolati in vari gruppi di tutela differenziabile e in continua evoluzione.

Un’industria in crescita: business model, un po’ di numeri e psicologia

Lo studio propone alcuni dati statistici per dare il polso dell’attualità, suddivisi per Paesi. Circa l’Italia scopriamo che nel 2021 l’influencer marketing ha generato circa 450.000 posti di lavoro, di questi più di 350.000 sono influencer e creatori, gli altri sono player intermedi (piattaforme di social media, manager, agenzie di talenti, agenzie di marketing, ecc.). Il valore di mercato degli influencer in Italia ha raggiunto i 280 milioni di euro nel 2021, con una crescita rispetto all’anno precedente del 15%.

Settori chiave sono la moda e la bellezza (quasi un terzo dell’intero mercato), seguono viaggi, food e lifestyle, fitness e wellness, gaming e tech, business ed economy, ecc. Circa 20 milioni di italiani – tra i 18 e i 54 anni – seguono almeno un influencer sui social. Ben il 37% afferma di guardare i propri profili ogni giorno, mentre un altro 37% “solo” ogni due o tre giorni. Lo studio cita che, in generale, gli influencer “sono percepiti come simpatici (58%), danno buoni consigli in aree di interesse (50%) e ispirano i loro follower (41%)”.

I modelli di business

Pensando ai modelli di business adottati, gli influencer dispongono di tanti metodi per capitalizzare sulla fiducia conquistata: basilarmente si può pensare a contratti con sponsor e marchi terzi (ad es. affiliate marketing tramite codici sconto) oppure agli introiti pubblicitari spettanti dalle piattaforme ove sono presenti i contenuti, o ancora alla vendita diretta di beni e servizi.

Però un influencer può diversificare ulteriormente gli introiti, con tecniche di recente introduzione ed evoluzione: forme di abbonamento per contenuti premium, il crowdfunding (con relative difficoltà di inquadramento tra donazioni e corrispettivi), la tokenizzazione (“coniare” valute virtuali acquistabili dall’influencer per interagirvi in maniera qualificata), oppure i pagamenti decentrati (ad es. tramite il Web monetization protocol che permette di ricevere micro-transazioni senza alcun intermediario).

Le leve psicologiche

Interessanti sono le leve psicologiche che i ricercatori attribuiscono all’attività degli influencer nell’ottenere risultati sociali così importanti:

  • opinion leadership, circa la capacità diretta di influenzare il comportamento altrui;
  • conformità (o conformismo?) alle norme sociali, a modellare i comportamenti sulla base delle aspettative sociali;
  • apprendimento sociale, basato sull’imitazione del modello di riferimento;
  • pressione dei pari, cioè causata dal comportamento del proprio gruppo di riferimento;
  • effetto “gregge”, ovvero la conformità sociale estesa a grandi (e a più) gruppi sociali, non solo il proprio di riferimento;
  • cooperazione condizionale, quando gli individui sono più disposti a contribuire a un obiettivo comune se si aspettano che anche gli altri cooperino.

Non si glissa nemmeno sugli effetti combinati dell’influenza dei marchi oggetto di promozione da parte degli influencer, basati su meccanismi come l’effetto “passaparola elettronico” (electronic word-of-mouth – “eWOM”), per cui i consumatori hanno maggiori probabilità di fidarsi dell’opinione dei loro “pari” (cioè dei loro influencer preferiti) rispetto all’opinione di un inserzionista commerciale. È comprensibile che il fan/follower percepisca come più credibile la fonte su cui riversano sentimenti e opinioni di competenza, affidabilità e buone intenzioni.

I rischi per i consumatori, specie più vulnerabili

A fronte di quanto sopra, non è difficile immaginare che questo potere comporti innumerevoli rischi, di vario tipo. Lo studio avvisa che, ciononostante, attualmente non molti reclami dei consumatori sono presentati nell’UE riguardo a casi di influencer marketing. Ciò potrebbe essere dovuto, si pensa, alla novità e all’assenza di strumenti di monitoraggio antecedenti al 2019 su questo argomento. Parimenti la mancanza di consapevolezza dei consumatori circa la possibilità di presentare un reclamo all’autorità a ciò deputata, o nella capacità di identificare una violazione dei diritti dei consumatori, sono ritenuti fattori decisivi.

Tra le possibili e più diffuse prassi “negative” dell’influencer marketing che possono verificarsi troviamo:

  • mancanza di trasparenza (ad es. sul rapporto contrattuale influencer-marchio) e divulgazione poco chiara; interessante l’esempio citato nel documento sulle interfacce delle applicazioni che differiscono da un sistema operativo all’altro e nella visualizzazione delle informazioni possono avere un impatto sulle pratiche di divulgazione, si cita l’interfaccia Instagram in iOS che presenta una “x” per chiudere le storie nella parte in alto a destra dello schermo, mentre l’interfaccia Android non ce l’ha – in un caso accertato, si è nascosta l’indicazione della promozione dietro la predetta “x” solo sul sistema operativo iOS;
  • mancanza di separazione tra pubblicità e contenuti; una sorta di degenerazione del native advertising per cui “i consumatori non riconoscono un post sponsorizzato come pubblicità o non colgano la natura del rapporto tra il marchio e l’influencer”;
  • messaggi fuorvianti; riguardano “la pubblicazione di recensioni su beni e servizi che forniscono informazioni errate, ambigue, esagerate o imprecise”; in Italia sono stati segnalati diversi casi all’AGCM in cui gli influencer pubblicavano informazioni false sui benefici di integratori alimentari e di tisane, del tutto prive di fondamento;
  • indirizzarsi a gruppi di consumatori vulnerabili, in genere bambini o comunque minorenni;
  • pubblicizzare prodotti nocivi come tabacco, alcol, gioco d’azzardo, oppure sfruttare nudità e contenuti sessuali.

Prassi come queste fanno arrovellare su quale tipo di tutela i consumatori possano invocare: sulla base del nostrano Codice del Consumo (che recepì la Direttiva 2005/29 sulle pratiche commerciali sleali, tra le altre) certamente alcune di queste condotte sono sanzionabili. Altre sono dubbie: vi possono essere dubbi sulla fonte di reddito e relativo inquadramento (se offrono vantaggi come i token a fronte di pagamenti dei follower?), sulle pratiche – come gli omaggi – che possono aumentare l’engagement e costituire gioco d’azzardo, ecc.

Non solo: gli stessi influencer sono soggetti che possono invocare tutela e trovarsi frustrati, a causa dell’incertezza normativa. Nello studio si menziona il caso di due influencer rumeni che sono arrivati alla diatriba giudiziaria, uno di loro ha subito perdite per gli effetti del sistema di risoluzione delle controversie sul copyright di YouTube, avviato su segnalazione dell’altro influencer. In questo caso, la rimozione del video contestato è costata l’inadempimento di un contratto di sponsorizzazione ma il tribunale rumeno non ha ravvisato un nesso di causalità tra perdite subite e la rimozione iniziale, forse per la particolarità e novità delle circostanze. Lasciando dunque il presunto danneggiato sfornito di una tutela concreta, adatta al caso.

Quali regole si applicano agli influencer?

Si sarà già compreso che non esiste alcuna normativa specificamente dedicata al fenomeno influencer. Limitandosi lo studio all’ambito consumeristico, si dovrà invece distinguere quali discipline esistenti si possono configurare a seconda del ruolo dell’influencer, che sia un dato momento mero inserzionista (circa le pratiche commerciali sleali e i messaggi pubblicitari), e dall’altro quando operi come produttore/venditore (circa i diritti spettanti agli acquirenti, dalle informazioni dovute ai diritti spettanti come il recesso ecc.). In ambito nazionale queste discipline, di matrice comunitaria (ricordiamo anche la Direttiva 2011/83 sull’estensione dei diritti dei consumatori), hanno trovato integrale recepimento nel Codice del Consumo (D.Lgs. 206/2005) per la maggior parte.

Quanto alle inserzioni, possiamo riassumere quanto segue:

  • a premessa, ricordiamo che la disciplina consumeristica in parola presuppone quale soggetto attivo un “professionista”, può essere l’influencer oppure un terzo (ad es. un’azienda sponsor) per cui operi l’influencer; il nostro Codice lo definisce come “la persona fisica o giuridica che agisce nell’esercizio della propria attività imprenditoriale, commerciale, artigianale o professionale, ovvero un suo intermediario”; l’inquadramento può essere difficoltoso, si potrebbe dire non professionista un consumatore che fornisce informazioni sulla propria esperienza con prodotti o servizi di terzi, mentre lo sarebbe certamente qualora avesse un contratto con lo sponsor per questo fine; nei casi più dubbi si possono adottare vari criteri segnalati dalla Commissione Europea quali “una remunerazione percepita o un altro compenso per aver agito per conto di un determinato professionista, il numero, l’importo e la frequenza delle operazioni o lo status giuridico del venditore” – in particolare è la frequenza (indipendentemente dal seguito personale) a fungere da criterio guida principale;
  • come già detto, parte rilevante è quella del divieto di pratiche commerciali sleali, trovando espressa previsione la mancata divulgazione dell’intento commerciale di un professionista come omissione ingannevole, se non già evidente dal contesto, qualora ciò causi o possa indurre il consumatore medio a prendere una decisione di natura commerciale che non avrebbe altrimenti preso; vale anche quando manchi un pagamento monetario all’influencer, bastando la presenza di un “corrispettivo con un valore patrimoniale”; le pratiche commerciali inserite nella lista nera della Direttiva madre comprendono l’uso di contenuti editoriali nei media per promuovere un prodotto in cui un professionista viene pagato per la sua promozione senza renderlo chiaro nel contenuto, oppure sfruttando “immagini o suoni” per affermare o creare falsamente l’impressione che il professionista non stia agendo per scopi relativi al suo commercio, impresa, artigianato o professione, o falsamente rappresentandosi come “consumatore”;
  • oltre a ciò, una condotta è censurabile se contraria agli obblighi di diligenza professionale, in quanto falsa o idonea a falsare in modo sostanziale il comportamento economico nei confronti del prodotto del consumatore medio che raggiunge o al quale è rivolta, o del membro medio del gruppo se ci si rivolge a un gruppo di consumatori
  • infine, gli influencer dovrebbero astenersi dall’utilizzare pratiche commerciali aggressive che utilizzino molestie o coercizione o sfruttino una posizione di potere, limitando in tal modo la capacità del consumatore di prendere una decisione di acquisto che sia debitamente informata.

Un’altra normativa vigente è applicabile al caso degli influencer inserzionisti, quella sull’e-commerce: la Direttiva 2000/31 recepita nel D.Lgs. 70/2003. L’ambito è quello dei servizi della società dell’informazione (più ampio e meno ambiguo di quello del rapporto consumeristico), per cui si impone un obbligo di trasparenza: le comunicazioni commerciali devono essere chiaramente identificabili come tali, così come la persona fisica o giuridica per conto della quale tali comunicazioni commerciali sono effettuati. Vi rientra la promozione, anche indiretta, del prodotto o dell’immagine di un altro professionista, pur escludendo le recensioni di prodotti o servizi prodotte in modo indipendente perchè senza un corrispettivo.

La Direttiva sui servizi di media audiovisivi “AVMSD” (Direttiva 2010/13, modificata nel 2018 e recepita in Italia con D.Lgs. 208/2021) è un altro tassello: essendo estesa ora l’applicazione a servizi “non lineari” on demand, come quelli online, vi rientrano piattaforme per la condivisione di video, tra i quali YouTube e altri social media usatissimi dagli influencer come palco di visibilità e comunicazione. Pure qui si ribadisce un obbligo di trasparenza, quanto alle comunicazioni commerciali audiovisive degli influencer: devono essere facilmente riconoscibili come tali, non indirizzarsi ai minori né incoraggiare comportamenti pericolosi come l’abuso di alcolici, ecc. Potrebbero inoltre applicarsi requisiti in materia di trasparenza nella sponsorizzazione e vendita di prodotti/servizi.

Se, invece, l’influencer opera come venditore/commerciante, le norme applicabili sono più facilmente invocabili, come la Direttiva sui diritti dei consumatori che prescrive precisi obblighi di trasparenza precontrattuale nel caso di contratti a distanza (online). Peraltro, è stata emanata la Direttiva “Omnibus” 2019/2161 (in fase di recepimento a livello nazionale) che ha espressamente indicato obblighi informativi per i venditori online, soprattutto trattando dell’obbligo di specificare lo status giuridico del venditore (commerciante o meno che sia). Va aggiunto che è possibile richiamare, in aggiunta, la recente riforma della Direttiva sulla fornitura di contenuti e servizi digitali (la n. 2019/770, recepita in Italia con D.Lgs. 173/2021) che può applicarsi qualora si vendano tali contenuti, rispettandone le prescrizioni su conformità, responsabilità del venditore, ecc.

Dato il composito mosaico normativo appena enunciato, dalle tante aree grigie e irrisolte, giocoforza ha svolto e svolge un ruolo chiave quello interpretativo e applicativo di giudici e autorità di controllo (in primis l’AGCM per l’Italia), di cui lo studio riporta diversi esempi distinti per Paesi. Lo studio afferma che “autorità di controllo e la giurisprudenza sono quindi diventati attori chiave nell’adattare la legislazione esistente alle recenti tendenze del mercato e nel limitare le lacune nella protezione dei consumatori”. Citiamo, tra i tanti riportati, un interessante caso tedesco, arrivato in Corte suprema federale, ove si è ammessa la possibilità per l’influencer – a determinate condizioni – di promuovere prodotti senza dover indicare che si tratta di una pubblicità.

Restando in Italia, lo stesso documento menziona con rilievo il ruolo giocato dall’AGCM nel nostro Paese, autorità che almeno dal 2017 ha iniziato a “controllare e contrastare il fenomeno della diffusione di forme di pubblicità nascosta attraverso i social network”, svolgendo prima attività di moral suasion (raccomandazioni invece di sanzioni) e poi attività di indagine e sanzionatoria. Vengono peraltro citati due casi pertinenti, quello Barilla-Insanity del 2020 e quello AEFFE-Alitalia del 2019, piuttosto noti nel settore, circa la mancata trasparenza nei rapporti commerciali tra influencer e marchio promozionato oltre che sulla pubblicità comunque occulta. In quei casi l’autorità impose misure correttive inedite, come l’uso di determinati hashtag (ad es. “#sponsored”), che da quel momento costituiscono di fatto delle linee guida per tutti gli influencer italiani atti a promuovere prodotti e servizi online.

Quali regole si applicheranno agli influencer?

Lo scenario de iure condendo non è meno articolato: le bozze di Digital Services Act (DSA) e Digital Markets Act (DMA), in discussione nell’Unione, prevedono varie norme di interesse nel caso di influencer, specie nel ruolo di inserzionisti. Ad es. troviamo nuove regole per fornire agli utenti delle piattaforme online informazioni significative sugli annunci che vedono online, quali informazioni sul motivo per cui un individuo è stato targetizzato con una pubblicità specifica (e dunque sul suo profilo e relativi criteri di scelta), oltre a imporre alle piattaforme di raccogliere informazioni accurate e complete sui professionisti prima di consentire loro di utilizzare i servizi e, a loro volta, di divulgarle agli utenti in modo chiaro, facilmente accessibile e comprensibile nel caso in cui “tali piattaforme consentano ai consumatori di concludere contratti a distanza con tali professionisti”.

Oppure quanto a nuovi obblighi per le piattaforme: dovranno visualizzare le informazioni attraverso “etichette” specifiche, vietando espressamente di usare il design e le funzioni delle piattaforme per distorcere o compromettere la capacità dei destinatari dei servizi di prendere una decisione o una scelta libera, autonoma e informata. Oltre a un obbligo più dettagliato, sempre imposto alle piattaforme, di verificare il rispetto degli obblighi di informazione imposti ai professionisti presenti sulla piattaforma stessa. Insomma, rispetto alla Direttiva e-commerce si obbligano le piattaforme a raccogliere (e verificare) le informazioni dai professionisti, delegando di fatto una fetta di attività di controllo “a monte”.

Proseguendo sempre sul DSA, si estendono concetti come quello di “pubblicità”, includendovi esplicitamente la pubblicità “nativa” come quella dell’influencer marketing. E ancora si crea una sorta di “ponte” tra DSA e normative sui contenuti online, un effetto potrà essere quello di considerare come contenuto “illecito” il mancato rispetto degli standard informativi e di trasparenza.

È piuttosto singolare e da salutare positivamente, infine, che il rispetto del DSA da parte delle piattaforme si possa accompagnare a un’apposita API (interfaccia software) di “legal compliance”, diretta proprio all’applicazione degli obblighi normativi del DSA. Una volta tanto si accompagnano le proposte normative con strumenti tecnici idonei a loro supporto, uguali per tutti e che dovrebbero essere validati dalle autorità preposte. Passando in primis dalla fondamentale standardizzazione dei dati necessari al funzionamento e alla tracciabilità del digital enforcement. Va menzionato che comunque la proposta di API non è inclusa, almeno per ora, nel pacchetto di bozza del DSA, bensì è una proposta di alcuni ricercatori universitari olandesi [https://computationalsocialmedia.tech/wp-content/uploads/2022/02/DSA_API.pdf] – vedremo con quale successo potrà essere sostenuta e implementata, sarebbe una novità che potrebbe fare da esempio in tanti altri contesti e altre occasioni.

Il supporto del soft-law: codici di condotta e affini

In un mercato settoriale come quello della comunicazione e del marketing digitale, privo di regolamentazione mirata, ci si aspetta di veder sviluppare codici di condotta e altre forme di auto-regolamentazione ed etero-regolazione, non di fonte legislativa (c.d. soft-law). Le linee guida emanate dalle autorità di controllo possono includersi in questo ambito. Lo scopo è di sensibilizzare e indirizzare sia gli influencer che i consumatori che ne seguono le attività.

Esempi citati nel documento in parola sono quelli del Codice di marketing, di livello globale, introdotto dalla Camera di commercio internazionale (ICC), applicabile almeno dal 2018 a influencer, blogger e vlogger. Vi si prescrivono obblighi prefissati, sancendo gli influencer quali diretti responsabili delle comunicazioni di marketing dei prodotti e dei servizi che promuovono. Altri esempi autorevoli possono trovarsi nelle best practice per influencer dell’European Advertising Standards Alliance (EASA) e del Consumer Protection and Enforcement Network (ICPEN).

A livello nazionale possiamo richiamare le esistenti “Digital Chart Guidelines”, emanate dall’Istituto di Autodisciplina Pubblicitaria (IAP) nell’ultima versione del 2019. Quello che pare mancare è invece un approccio armonizzato, di livello perlomeno comunitario.

Conclusioni

Dalla lettura dello studio emerge una fattispecie oramai rilevante nel mercato digitale, con un potere potenzialmente molto esteso a livello di mercati e di possibili rischi per gli utenti/consumatori.

La composizione di normative esistenti e relativi dubbi applicativi, provvedimenti di indirizzo soft-law ed evoluzione applicativa disegna un quadro ricco sicuramente di dubbi e incertezze, tuttavia già sufficiente nel parare alcune delle prassi più deteriori che – purtroppo – si sono sviluppate nel settore.

Sicuramente l’enforcement dovrà assumere connotati più “minacciosi”, a livello sia numerico che sanzionatorio, per divenire davvero temibile e dunque davvero dissuasivo (un incentivo arriverà in Italia dall’adattamento delle sanzioni del Codice del Consumo alla sanzione massima percentuale del 4% prevista dalla Direttiva Ominibus).

Tuttavia, giocherà un ruolo ancor più rilevante l’emanazione, tra gli altri, del ventilato Digital Services Act, atto davvero a ricondurre al sistema corrente di tutele le ambigue situazioni di cui stiamo parlando.

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