il confronto

Digital tax, tutte le sfide 2020 per l’approvazione

La discussione circa le modalità di tassazione della digital economy si è spostata su un piano maggiormente “politico”. Non è una sorpresa, ma un confronto troppo lungo potrebbe rendere difficile il rispetto della deadline dell’Ocse, che vorrebbe chiudere la partita entro il 2020

Pubblicato il 14 Gen 2020

Alberto Franco

Professore a Contratto di Diritto Tributario presso l’Università di Torino, Ph.D. Of Counsel, Genta & Cappa

Georgia Senoner

CBA Studio Legale e Tributario

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Gli Stati Uniti stanno tracciando una linea di demarcazione che potrebbe rallentare notevolmente la definizione della digital tax dell’OCSE e, pertanto, indurre altri Paesi a procedere autonomamente con l’implementazione di ulteriori web tax a carattere nazionale. Un incontro con l’amministrazione Usa è stato richiesto entro Natale e non è certo una novità che la questione si sia spostata sul piano politico. È importante, però, che la fase di confronto seguita alla chiusura delle due tornate di consultazione da parte Ocse, sia molto rapida per evitare iniziative autonome.

Facciamo il punto sulle varie fasi che si sono succedute e sull’agenda futura e qualche considerazione di ordine generale.

La roadmap Ocse

Negli ultimi mesi, com’è noto l’OCSE ha accelerato notevolmente il processo che dovrebbe condurre, entro quest’anno, a regole comuni per una digital tax globale. Infatti, l’OCSE ha aperto ben due procedure di consultazione sui corrispondenti pilastri (pillar) delineati nella proposta dell’organizzazione internazionale, con tempistiche invero piuttosto sfidanti per tutti i soggetti coinvolti.

Innanzitutto, è opportuno premettere che la tematica relativa alla tassazione della digital economy, e delle sfide che la digitalizzazione pone in materia fiscale, costituisce la prima delle 15 Actions del progetto BEPS (Base Erosion and Profit Shifting), progetto OCSE/G20 che coinvolge 135 Stati. Tuttavia, nonostante il progetto BEPS sia iniziato da diversi anni, il tema della digital economy è stato di fatto accantonato, fino al gennaio 2019, proprio in ragione della sua complessità.[1].

Inoltre, nel maggio dello scorso anno si è stabilita una roadmap (“Programme of Work to Develop a Consensus Solution to the Tax Challenges Arising from the Digitalisation of the Economy”) che dovrebbe condurre all’adozione di standard comuni a livello OCSE negli Stati aderenti.

I due pillar della proposta Ocse

La proposta OCSE, come sopra accennato, contempla due pillars, i quali sono rivolti a obiettivi invero sensibilmente differenti.

Il Pillar One ha infatti l’obiettivo di riallocare la potestà impositiva tra i diversi Stati su base globale. In sostanza, quindi, questa proposta mira ad individuare dei criteri di ripartizione della base imponibile tra i diversi Stati coinvolti nella prestazione di servizi relativi alla digital economy, ovverosia tipicamente lo Stato in cui risiedono i consumatori (market State) e lo stato di residenza del soggetto erogante tali servizi.

Il Pillar Two, al contrario, non mira a ripartire le imposte tra più Stati, bensì ha l’obiettivo di contrastare l’evasione fiscale e la concorrenza fiscale dannosa, muovendosi nel contesto già caratterizzato da numerosi progetti internazionali, tra cui appunto il già citato progetto BEPS, nonché, in ambito europeo, le direttive ATAD (Anti Tax Avoidance Directive).

Gli ultimi sviluppi a livello internazionale

L’orientamento recentemente espresso dal Presidente degli Stati Uniti, Donald Trump, sembra privilegiare più l’obiettivo di una minimum tax globale, ovverosia il Pillar Two, rispetto al tema della riallocazione della potestà impositiva tra gli Stati (Pillar One): Trump ha infatti dichiarato recentemente che le grandi compagnie della digital economy “sono aziende americane. Noi vogliamo tassare le imprese americane, e non tocca a nessun altro farlo”[2].

Invero, il Presidente Trump ha anche aperto, seppur timidamente, alla possibilità di “una tassa con benefici per tutti”, la cui misura sarebbe «notevole», ma sembra in realtà che su questo punto la strada sia molto in salita, viste anche le dichiarazioni nei confronti della Francia – e di ogni altro Stato che procederà autonomamente con una web tax nazionale – e le conseguenti frizioni diplomatiche che hanno interessato il rapporto tra Europa e Stati Uniti, specie in relazione ai dazi sulle importazioni paventati dall’amministrazione USA.

Peraltro, da quanto emerge dalla stampa, Steven Mnuchin, Segretario al Tesoro degli Stati Uniti, con una lettera del 4 dicembre scorso indirizzata all’OCSE, ha espresso alcune perplessità sul Pillar One, e in particolare sulla deroga rispetto all’arms’s lenght principle (cioè, in estrema sintesi, all’attuale principio che regola il calcolo dei prezzi di trasferimento, e che quindi ad oggi ripartisce la potestà impositiva tra gli Stati in relazione ad alcune fattispecie) e al nuovo criterio di collegamento (nexus) secondo cui potrà essere il volume delle vendite in uno Stato, e non la presenza fisica in esso a definire l’obbligo e il livello di imposizione fiscale. Infine, nella predetta nota Steven Mnuchin ha ipotizzato soluzioni che potrebbero avere effetti significativamente differenti rispetto alla ratio delle proposte OCSE, tra cui l’adesione solo in via opzionale al regime previsto dal Pillar One.

Al riguardo, il Segretario Generale dell’OCSE, Angel Gurria, ha enfatizzato come le proposte oggetto delle scorse consultazioni vadano nella direzione di una maggior certezza fiscale, e che la posizione statunitense contenga degli elementi che finora non sono stati sollevati a livello internazionale; pertanto l’impostazione statunitense potrebbe rendere difficile il rispetto della deadline che l’organizzazione stessa si è data.

Ulteriori frizioni sul versante politico arrivano dal fronte Francia-USA. Infatti, a seguito dell’approvazione da parte della Francia dell’imposta sui servizi digitali nel luglio scorso, l’amministrazione statunitense ha prospettato la possibile imposizione di dazi, nella misura del 100%, sui prodotti francesi.

A seguito di ciò, il Ministro delle Finanze francese ha invitato l’amministrazione Trump a non adottare ritorsioni doganali “altamente sproporzionate”, evidenziando che un’eventuale decisione degli USA di imporre sanzioni commerciali contro l’UE a causa della digital tax francese potrebbe seriamente compromettere le relazioni non solo tra i due Paesi coinvolti, ma più in generale i rapporti tra Stati Uniti e Unione Europea.

Del resto, com’è noto, anche l’Italia (e diversi altri Stati, tra cui ad esempio l’Austria, la Spagna e – fuori dall’Unione Europea – la Turchia) ha deciso di non attendere ulteriormente gli sviluppi OCSE e nel frattempo varare una propria imposta sui servizi digitali: la manovra 2020 ha previsto l’entrata in vigore della digital tax italiana al 1° gennaio 2020, introducendo contestualmente una disposizione di abrogazione dell’intera disciplina innescabile al recepimento in Italia degli esiti del negoziato internazionale in corso.

Le prospettive per il futuro

Come si è cercato di dare conto nei paragrafi che precedono, ad oggi la discussione circa le modalità di tassazione della digital economy si è spostata su un piano maggiormente “politico”. Ciò non è in realtà un’anomalia: anche in una materia estremamente “tecnica” come la fiscalità internazionale, le considerazioni di politica fiscale (e di politica in generale) hanno senz’altro un rilievo preminente.

Infatti, sebbene gli attuali principi in materia di fiscalità internazionale siano ormai utilizzati da quasi un secolo, essi rappresentano pur sempre il frutto di un accordo tra Stati – prima ancora “politico” che “tecnico”. Pertanto, tali principi sono ben lontani da essere immutabili, qualora a livello internazionale si trovi una composizione di interessi diversa dallo status quo, come in effetti si sta tentando di trovare.

Ci si chiede tuttavia se, come indicato anche da alcuni autorevoli commentatori (quale ad esempio William Morris, Deputy Global Tax Policy Leader di PWC), la strada giusta sia effettivamente quella di implementare tutte le nuove previsioni allo stesso tempo, o se invece non sia più efficiente adottare un approccio maggiormente graduale. Infatti, si può notare che i due pillar non devono necessariamente essere implementati allo stesso tempo, per cui si potrebbe prospettare una introduzione in momenti diversi, procedendo per fasi e allargando l’ambito di applicazione di tali regole solo una volta in cui le stesse abbiano dimostrato la loro efficacia in relazione ad un panel di imprese più ristretto – anche mediante l’utilizzo di soglie inizialmente più alte in relazione ai ricavi o agli utili, soglie che verrebbero poi ridotte per includere un novero più ampio di imprese nel momento in cui la disciplina introdotta sia sufficientemente precisa e dimostri di poter garantire un adeguato funzionamento sia per i contribuenti che per le amministrazioni finanziarie coinvolte.

Indubbiamente, le soluzioni discusse in sede OCSE rappresentano un cambiamento radicale della legislazione in materia tributaria, sia a livello domestico, in quanto sono previste delle modifiche alle norme di diritto interno dei singoli Paesi, sia in relazione ai trattati in essere contro le doppie imposizioni. È quindi del tutto comprensibile che al termine di queste procedure di consultazione possano esservi posizioni degli Stati molto diverse tra loro. Sarà tuttavia cruciale che questo momento di confronto si concluda in tempi brevi, poiché in caso di “stallo” politico su queste tematiche vi potrebbe essere il rischio concreto che l’Unione Europea adotti una propria autonoma web tax a partire dal 2021, soluzione certo non ottimale se paragonata ad un unico sistema di regole a livello globale.

  1. Cfr. L. Eden, INSIGHT: Taxing Multinationals – The GloBE proposal for a Global Minimum Tax, bloombergtax.com 6 dicembre 2019
  2. Digital Tax, Francia e UE unite contro Trump, Il Sole 24 Ore, 4 dicembre 2019, p. 8
  3. Cfr. I. Gottlieb, H. Ali, OECD Warns U.S. Digital Tax Pitch Could Delay Agreement (2), bloombergtax.com, 4 dicembre 2019

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