Spesso parliamo di rivoluzione digitale come se ci trovassimo di fronte per la prima volta a delle opportunità di innovazione della didattica portata dalla tecnologia. In realtà, l’umanità si interroga da millenni sul rapporto fra tecnologia e conoscenza e su come le innovazioni tecnologiche possono cambiare in meglio o in peggio il processo di apprendimento e sedimentazione della conoscenza stessa.
Nel Fedro di Platone c’è un’interessante discussione su questo tema che, in quell’epoca storica, si concentrava soprattutto sulla scrittura. Allora ci si chiedeva se leggere opinioni scritte da altri, piuttosto che svilupparle attraverso l’elaborazione orale, avrebbe potuto migliorare la capacità dell’uomo di essere sapiente. La risposta di Socrate è negativa. La scrittura renderà le persone – secondo Socrate – «imbottite di opinioni invece che sapienti» (Platone Fedro, 275a-b]. Una posizione del genere ci fa ovviamente sorridere (anche se il sorriso si stempera facilmente quando applichiamo questa frase alle discussioni che spesso avvengono sui social network!). Ovviamente Socrate era un «apocalittico» rispetto alla scrittura e le sue paure si sono rivelate in gran parte infondate alla luce dei grandi contributi che la scrittura ha portato allo sviluppo tecnologico e umano del mondo. Tuttavia, come dice il faraone Thamus nello stesso mito, ogni tecnologia va soppesata rispetto ai suoi limiti, ai suoi vantaggi e ai contesti in cui viene usata.
Questa discussione sui benefici della tecnologia per la conoscenza si è ovviamente intensificata nell’età moderna e soprattutto nel corso del Novecento, quando la velocità dell’innovazione tecnologica è aumentata vertiginosamente. In questo periodo si sono diffusi la fotografia, il cinema, la radio, la televisione e il videoregistratore, solo per citare le tecnologie più importanti. Ognuna di queste innovazioni ha innescato visioni del futuro, in alcuni casi pervase da paure molto simili a quelle di Socrate nei confronti della scrittura, in altri casi utopistiche rispetto al progresso che una certa tecnologia avrebbe permesso di raggiungere. È molto utile ripercorrere la storia delle innovazioni tecnologiche nell’ultimo tratto della modernità e capire come, nel caso della scuola, queste abbiano fatto nascere aspettative spesso esagerate di cambiamento.
Rivoluzionare la scuola attraverso la tecnologia
In effetti, i tentativi di rivoluzionare la scuola attraverso la tecnologia sono stati tantissimi. Cuban [1986] mostra come agli inizi del XX secolo si ragionasse già di «arricchire la scuola» con tecnologie come il film, la radio e poi la televisione, il registratore. Già allora si diceva che gessetto e lavagna erano tecnologie scolastiche del XIX secolo che dovevano essere superate da tecnologie più evolute, che avrebbero assicurato una trasmissione di informazioni più efficiente e un maggiore coinvolgimento degli studenti. Oppure che non era più accettabile che nelle classi funzionasse un modello didattico che era sostanzialmente uguale a quello del 1800. È il caso, per esempio, del film: Cuban ricostruisce quanto accaduto nella seconda decade del Novecento negli Stati Uniti, quando un movimento fatto di intellettuali, pedagogisti ma anche esperti di organizzazione spinse fortemente per l’introduzione massiccia dell’audiovisivo nelle scuole. Cuban riporta una dichiarazione di Thomas Edison del 1922, in cui il famoso inventore si diceva certo che, nel giro di pochi anni, l’audiovisivo avrebbe soppiantato il libro stampato nella scuola. Una prima ondata di studi – non troppo rigorosi – confermò quello che tutti si aspettavano: l’audiovisivo aumentava i livelli di apprendimento rispetto alle classi di controllo. L’uso da parte degli insegnanti però era largamente minoritario e continuava a esserlo nonostante le spinte culturali e politiche. Con il tempo, l’uso dei film fu adottato, anche se non nelle proporzioni sperate dai suoi fautori e senza provocare una rivoluzione nelle modalità didattiche.
Il nucleo della didattica rimaneva sempre il libro e soprattutto il confronto, il dialogo docente-studente e studente-studente (per una ricostruzione più dettagliata di queste aspettative tecnologiche nella scuola si veda Ranieri [2011]). Oggi si sa che l’effetto medio dell’uso degli audiovisivi sull’apprendimento è ridotto, ma soprattutto che è molto inferiore a quello determinato da semplici cambiamenti di metodo didattico da parte dell’insegnante, come ad esempio l’incremento delle discussioni in classe [Hattie 2012]. L’audiovisivo è oggi usato correntemente nella scuola e costituisce una ricchezza come complemento aggiuntivo. Inoltre l’audiovisivo può essere un aiuto fondamentale per chi ha alcuni tipi di disabilità. Esso, infine, può essere usato per diversificare e personalizzare la didattica, venendo incontro alle molteplici forme dell’intelligenza di ogni studente [Gardner 2000]. Dunque, l’audiovisivo non ha né sostituito né rivoluzionato il modello didattico tradizionale, ma si è aggiunto a esso favorendo processi di diversificazione della didattica che possono avere effetti positivi, specie su alcune categorie di studenti.
Generalizzando a partire da diverse storie come questa, Cuban illustra un ciclo che si ripete per ogni nuova tecnologia. In un primo momento, i «riformatori», che sono spesso presidenti di fondazioni, dirigenti pubblici o addirittura persone con interessi commerciali, portano la questione all’attenzione dell’opinione pubblica, mostrando come molti problemi della scuola possano essere affrontati con la diffusione di una specifica nuova tecnologia. Non molto dopo l’introduzione di ciascuna tecnologia, ecco studi accademici che cercano di mostrarne l’efficacia in confronto alla didattica tradizionale.
Sulla scia di queste aspettative e della loro credibilità scientifica, le critiche sono confinate ad aspetti tecnici come la logistica dell’uso, imperfezioni tecniche, incompatibilità con i programmi e simili. A un certo punto emergono dati che mostrano che i docenti stanno usando molto poco queste tecnologie. Conseguentemente, si alzano critiche nei confronti della classe docente, lenta a percepire le innovazioni o addirittura resistente a esse. Poche voci si domandano veramente «se» l’innovazione vada effettivamente introdotta e, soprattutto, se vada introdotta subito e con urgenza. Il ciclo si conclude con una discesa dell’attenzione per la novità e una limitata adozione, per specifiche attività, che tuttavia non rivoluziona l’impianto tradizionale della didattica. È interessante notare che in tutte queste innovazioni, gli insegnanti hanno nei fatti quasi sempre esercitato una sostanziale resistenza. Cuban sostiene che la resistenza degli insegnanti vada presa sul serio: non è che la loro esperienza in classe li renda giustamente scettici rispetto a rivoluzionarie soluzioni tecnologiche?
Anche secondo Buckingham [2013], nonostante molti annunci e speranze che hanno accompagnato le diverse innovazioni tecnologiche degli ultimi 150 anni (la fotografia, il film, la radio, la televisione), se guardiamo in retrospettiva, la rivoluzione educativa basata sulla tecnologia non si è mai realizzata. L’autore rileva anche che, quando emergono risultati poco incoraggianti nella ricerca sull’impatto di tali politiche, si tende a rispondere che si tratta di una fase iniziale ma che il vero cambiamento si verificherà in futuro anche se non è chiaro quanto occorra aspettare perché questo avvenga. Così, la pressione che viene scaricata su ogni generazione di educatori e insegnanti ripropone un ciclo di aspettative sistematicamente destinate a rimanere disilluse [Moricca 2016].
De Martin [2014], sulla stessa falsariga, sostiene che tutte le nuove tecnologie che si sono proposte nell’innovazione didattica si sono dimostrate meno efficaci del rapporto docente-studenti. Il modello didattico fondato su una lezione in presenza fisica aperta alle domande, un libro di testo da studiare e interrogazioni alla lavagna ha funzionato bene nella storia. A ostacolare sul serio la rivoluzione è stato più questo dato di fatto che non la resistenza degli insegnanti, l’incapacità dei politici o degli amministratori o l’arretratezza culturale del contesto. Selwyn [2016c] sostiene che il campo dell’educazione e tecnologia sia, sotto questo aspetto, un esempio di «dimenticanza organizzata»: la complessità del rapporto fra tecnologia e apprendimento, emersa molte volte nel passato, viene dimenticata in favore di un nuovo discorso iperbolicamente ottimista. La conversione delle società all’etica dell’innovazione ha dato spazio a questo discorso e ha messo in secondo piano la famosa massima che vede la storia come magistra vitae, anche nel campo dell’educazione.
Il digitale è diverso?
Qualche lettore potrebbe a questo punto obiettare che il cambiamento portato dalla digitalizzazione non è paragonabile alle, pur rilevanti, innovazioni della tecnologia della comunicazione del Novecento. Si noti, innanzitutto, che l’argomento del «questa volta è diverso» è tipico di ogni storia dei fenomeni sociali ciclici (Reinhart e Rogoff [2009] descrivono questa tendenza alla memoria corta nel caso delle crisi economiche). Proviamo però a prendere sul serio questa obiezione. Effettivamente, per alcuni versi, ci si può aspettare che la digitalizzazione avrà un impatto più profondo sul cambiamento sociale rispetto alle tecnologie precedenti. Tuttavia, non è detto che a un cambiamento che sarà leggibile nella sua complessità solo sul lungo periodo occorra rispondere con repentini cambiamenti del modello didattico tradizionale.
Dal punto di vista delle metodologie didattiche, non è detto che il digitale porti finalmente la vera rivoluzione nella scuola. Per lo meno, c’è da dubitare che lo faccia attraverso un cambiamento veloce e dirompente. D’altronde, è un fatto che, come conclude Buckingham [2013], ormai la tecnologia digitale è nelle scuole da più di un quarto di secolo e tale rivoluzione non è avvenuta. Inoltre, l’urgenza che la digitalizzazione porta al mondo della scuola è quella di formare cittadini criticamente consapevoli di questo cambiamento, prima ancora che studenti che ricevono didattica attraverso le tecnologie.
È ora di seguire un approccio diverso in cui, più che aspettarci dalla tecnologia un miglioramento della scuola, pensiamo a come quest’ultima debba preparare a un mondo pervaso da essa.
*Estratto dal libro Marco Gui , “Il digitale a scuola. Rivoluzione o abbaglio?” (Capitolo 1, Paragrafo “Un confronto con altre novità scolastiche del passato”), il Mulino, in uscita nelle librerie il 26 settembre 2019