Numerose ricerche scientifiche e svariate esperienze cliniche dimostrano una certa efficacia dell’utilizzo degli oggetti digitali tanto nei contesti educativi quanto nel trattamento clinico di bambini e ragazzi cosiddetti autistici. Vediamo insieme i motivi alla base dei percorsi terapeutici nel settore e perché la Scuola digitale dovrebbe farne tesoro.
Bambini autistici, il bisogno di un “filtro”
Quando utilizzo il termine “cosiddetto autismo”, cito implicitamente Jacques Lacan il quale scriveva di “cosiddetto schizofrenico”, in quanto le categorie diagnostiche costituiscono per la psicoanalisi qualcosa di cui risulta evidentemente impossibile fare del tutto a meno, ma anche un retaggio insidioso di un’antecedente clinica medico-psichiatrica volta a catalogare ogni essere umano in una dimensione nosografica generale. Nosografia che rischia di far smarrire il riferimento fondamentale alla singolarità di ciascuno. La psicoanalisi punta invece appunto alla singolare soggettività, a cogliere il soggetto attraverso quelle caratteristiche che lo rendono unico ed eccezionale nella propria singolarità.
Vi è consenso internazionale circa il definire come disturbo dello spettro autistico un importante disturbo delle relazioni umane e dell’interazione sociale. Si utilizza il termine spettro autistico per evidenziare la vasta gamma di caratteristiche che rendono questi casi non uguali fra loro, in un continuum variegato. Per premunirsi dalle interazioni umane inquietanti, che spesso lo disturbano, il soggetto autistico si rivolge spontaneamente verso degli oggetti adatti a proteggerlo e a facilitare delle forme di comunicazione indirette. Per esempio, un bimbo autistico che ho seguito per qualche anno era sempre accompagnato da un peluche di Pluto. Egli non rispondeva se gli chiedevo direttamente: “Come stai?”; se gli chiedevo invece: “Come sta Pluto?”, lui rispondeva: “Bene!” e proseguiva allora una conversazione in questa modalità.
Oggetti digitali, una valida mediazione
Nel più vasto settore dell’utilizzo degli oggetti, gli oggetti digitali presentano il pregio di introdurre una mediazione rassicurante nella relazione, sia in quella di stampo educativo sia in quella di tipo clinico. Per questo svolgono una funzione pacificante i vari strumenti per la comunicazione facilitata, i computer, i tablet, gli smartphone, eccetera. Andremo qui a descrivere in modo dettagliato alcune delle ricerche accennate sopra circa la funzione del digitale in questo ambito.
Per intenderci, in via preliminare, precisiamo come le caratteristiche di neurodiversità che vengono etichettate come autismo risultano generalmente differenziate in due ampie aree: l’autismo di Kanner e l’autismo di Asperger.
Leo Kanner era uno psichiatra di origine mitteleuropea, poi trasferitosi negli Stati Uniti; negli anni Quaranta, riportò la descrizione delle condizioni di 11 bambini da lui incontrati con caratteristiche riconducibili all’autismo. Di età compresa fra i due e i 10 anni, presentavano incapacità di comunicare determinata anche da sensibile ritardo del linguaggio, difficoltà nel mettersi in contatto con gli altri e l’esigenza ossessiva di mantenere inalterato il proprio ambiente così come la fissazione su isolotti di competenza coltivati continuamente.
I casi diagnosticati con il termine di autismo di Kanner appaiono gravi e si contraddistinguono sovente per un’estrema severità. Presentano frequenti stereotipie, incapacità di instaurare relazioni umane, ritiro sociale manifesto fin dalla postura del corpo e appunto importanti disturbi nel campo del linguaggio, con evidenti ritardi nella funzione della parola tanto che, a quattro o cinque anni, ancora non dicono neppure i vocaboli più basilari.
La comunicazione degli autistici
La loro modalità di espressione nell’infanzia si impernia spesso su versi onomatopeici e, anche quando acquisiscono una certa capacità di verbalizzare, hanno difficoltà ad andare oltre un eloquio scarno, laconico, concreto. A volte, non arrivano neppure a quell’abbozzo di comunicazione dichiarativa che è il pointing, cioè non riescono a indicare con una mano o con un dito l’oggetto che vogliono oppure la direzione cui si stanno riferendo.
Tendono a rimanere persino da adulti a livello dell’olofrase, di una parola che intende tutta una frase, senza sfociare nella formulazione di un vero e proprio discorso. Per fare qualche esempio tratto dalla mia esperienza clinica, a tavola, enunciano: “Pane!” per intendere: “Mi passi, per favore, del pane?”; oppure dicono: “Van Halen!” e ripetono più volte: “Van Halen” per comunicare qualcosa del tipo: “Mi piace ascoltare la musica e vedere i videoclip della rock band californiana di nome Van Halen!”. Con questi soggetti, si pone talvolta il problema della differenza rispetto alle forme di importante insufficienza cognitiva e debilità mentale.
Hans Asperger era un pediatra coevo di Kanner il quale operò, invece, in Austria. Egli ebbe modo di osservare bambini ricoverati nella clinica pediatrica dell’Università di Vienna, affetti da problemi psichici e difficoltà di integrazione sociale ma privi di ritardo mentale. Sulla figura di Asperger incombe la controversia circa il suo ruolo negli anni dell’annessione dell’Austria alla Germania nazista. Pare infatti che egli, pur non aderendo esplicitamente al nazionalsocialismo, si sia occupato della selezione dei bimbi fra quelli i cui problemi mentali erano recuperabili e quelli considerati inguaribili e destinati all’abominevole e orribile programma di soppressione denominato Aktion T4 che portò a uccidere circa 800 bambini.
Anche per questo, molti soggetti con questi tratti caratteriali e loro familiari rifiutano ormai risolutamente il termine di autismo di Asperger. Peraltro, meno noto è il lavoro della psichiatra sovietica Grunya Sukareva la quale, due decenni prima di Kanner e Asperger, descrisse sei minori con abilità straordinarie nella lettura oppure nel suonare il violino oppure ancora nel memorizzare numeri, una notevole predilezione per il mondo interiore affiancate da considerevoli difficoltà relazionali o nella vita affettiva, soprattutto con i coetanei, tali da indurre un loro marcato isolamento sociale.
La scintilla dell’Asperger
I casi attualmente denominati come Asperger sono comunemente detti anche casi di “autismo ad alto funzionamento”. Hanno spesso doti eccellenti, ottime capacità in certe aree, in ceti isolotti di competenza, per esempio in matematica e nelle materie scientifiche. Presentano sovente un’affinità per la scienza tecnologica in generale e per l’informatica in particolare; si trovano a loro agio con oggetti tecnologici e digitali.
Dal lato delle capacità verbali, sono sensibilmente meno brillanti e spesso si riscontra una differenza fra le loro performance digitali e il loro eloquio verbale; questa differenza strabiliante è talvolta ravvisabile anche nei test d’intelligenza come la WISC (Wechsler Intelligence Scale for Children), fra le prove di performance e la dimensione verbale.
E’ tuttavia soprattutto sul piano del riconoscimento delle proprie emozioni e dell’instaurazione di legami affettivi, d’amicizia e d’amore, che si nota una posizione soggettiva meno comune. Questi ragazzi, che sono più spesso maschi anziché femmine, stentano a instaurare e coltivare amicizie. Un tempo, se ne sarebbe probabilmente parlato come di soggetti un po’ solitari ma, oggigiorno, vengono spesso etichettati in termini psicopatologici.
La diagnosi di autismo ad alto funzionamento si estende molto e va a ricoprire tutto un campo di esseri umani, soprattutto bambini e adolescenti, caratterizzati da peculiarità soggettive lievemente distinte da quelle della media statistica. Si consideri la frequenza delle diagnosi di sindrome da Asperger o di autismo ad alto funzionamento fra i ragazzi portatori di una certa plusdotazione là dove viene riscontrata una discrepanza tra il piano intellettivo nel quale eccellono e quello affettivo/emotivo nel quale presentano difficoltà a tollerare le frustrazioni tipiche di una fascia d’età maggiormente puerile.
La singolarità tende a venire rubricata nella psicopatologia; in un mondo contemporaneo dove si staglia l’imperativo di valutare, in un sistema scolastico e sociale che valuta e marchia tutti, la singolarità di una persona risulta comunque e sempre stigmatizzata come patologica.
Da cosa nasce l’autismo
Un ampio e annoso dibattito concerne le ricerche circa l’eziologia dell’autismo. Alcuni studi sostengono si tratti di un disturbo principalmente dovuto al contesto ambientale nel quale il bimbo nasce e vive i suoi primi mesi di vita, portandone a riprova la frequenza tre volte maggiore della media di episodi depressivi nelle madri di bambini autistici; è questo il dato riportato da Pierre Ferrari, corroborato dallo studio della situazione di 65 mamme di bimbi precocemente diagnosticati e di altrettanti bambini senza alcuna diagnosi, nel testo Dèpression maternelle et autisme infantile.
Non è tuttavia impossibile che tali episodi depressivi siano al contrario la conseguenza della carente interazione precoce del proprio bambino il quale, per esempio per una neurodiversità genetica, non risponde con il sorriso alla forma del volto materno e sfugge al suo sguardo provocando delusione e tristezza nella mamma. Altre ricerche sono volte a dimostrare maggiormente l’influenza della genetica; fra queste, significative sembrano quelle che argomentano tale tesi attraverso la maggior frequenza di casi di autismo (come peraltro di schizofrenia) in gemelli omozigoti rispetto a quanto avviene nei gemelli eterozigoti.
A ogni modo, tanto se si legge l’autismo dal versante ambientale quanto se lo si attribuisce a fattori strettamente genetici, rimane il problema del prendersi cura di persone che vengono rubricate, oggigiorno anche in modo esageratamente inflazionato, nel novero dell’autismo.
Il comfort della tecnologia
A tale proposito, gli oggetti digitali hanno un posto sempre più rilevante nella crescita e nello sviluppo delle capacità di apprendimento dei bambini autistici così come nella loro cura su un versante rigorosamente clinico proprio là dove si incontrano degli ostacoli nel funzionamento della parola e nel campo del linguaggio.
Non sono ormai affatto rare le testimonianze, orali e scritte, di come soggetti diagnosticati autistici nella loro infanzia abbiano trovato delle vie di evoluzione, di maggior inserimento nel legame sociale e persino di guarigione stabile attraverso oggetti tecnologici e digitali. Nella maggior parte dei casi di autismo con prognosi benigna, tali progressi avvengono anzitutto attraverso il ricorso a un oggetto affine alle propensioni del soggetto.
Si tratta in fondo di quel tipo di trattamento denominato, a cominciare dalla metà dello scorso decennio, Affinity Therapy. L’Affinity Therapy è ben chiarita dal caso di Owen Suskind, descritto nel film Life, Animated. Owen Suskind, dopo uno sviluppo tipico fino all’età di 3 anni, ebbe una profonda regressione involutiva che lo portò a smettere di parlare sino ai 9 anni. Diceva soltanto la parola juice. Rifiutava il contatto oculare. Ondeggiava come se stesse camminando a occhi chiusi. Fu all’età di 9 anni che suo padre, il giornalista Ron Suskind, notò come egli vocalizzasse dei suoni analoghi a quelli tratti dai cartoni animati di Walt Disney. Attraverso la sua passione per l’oggetto visivo e i cartoons, iniziò a entrare nel circuito della parola. Se ne trova una toccante narrazione anche nell’articolo Reaching my autistic son through Disney, pubblicato sul New York Times, nel 2014.
L’oggetto che ha permesso un’evoluzione più positiva per Owen Suskind è il cartone animato di Walt Disney. Per alcuni, l’oggetto di riferimento è l’oggetto musicale: si consideri l’australiana Donna Williams, il pianista Derek Paravicini, cieco come conseguenza della sua nascita marcatamente prematura, oppure Damiano Tercon, protagonista del programma televisivo Italia’s got talent insieme alla sorella, Margherita.
La “macchina per gli abbracci”
Per altri, è il rapporto con il mondo della natura e con gli animali; abbastanza nota è la vicenda della canadese Temple Grandin, professoressa alla Colorado State University, sulla cui figura si impernia il film Una donna straordinaria, inventrice della macchina per gli abbracci utilizzata in molti ranch del Nord America per calmare gli animali. Temple Grandin è spesso citata dalle associazioni di autistici e di familiari di soggetti autistici per le sue pubblicazioni quali Pensare in immagini e Il cervello autistico.
Per qualcuno, è il campo dei numeri e della matematica; ne costituisce un esempio che colpisce davvero il noto scienziato autistico Daniel Tammet il quale ha conversato con lo psicoanalista parigino Eric Laurent nel corso del convegno sul digitale nel trattamento dell’autismo, svolto a novembre 2019 all’Università di Rennes, la più ampia del Nord della Francia dopo le storiche realtà universitarie parigine. Daniel Tammet, nato in Inghilterra, in una famiglia di 9 figli, venne diagnosticato come un caso di autismo di Asperger. La sua passione per i numeri e per la matematica lo ha portato a pensare attraverso i numeri, anziché per parole o immagini.
Egli sottolinea, nei suoi libri Nato in un giorno blu e La poesia dei numeri, la dimensione poetica e il ritmo musicale dei numeri, per esempio quando vengono ordinati nelle tabelline delle moltiplicazioni. Filmati relative a diverse sue conferenze si reperiscono agevolmente su YouTube.
Digitale leva per le relazioni sociali
Per diversi altri soggetti autistici ancora, questo riferimento che li orienta nell’esistenza e nel mondo si colloca nel campo del digitale. Sono computer, tablet, iPhone, assistente vocale Google e altri oggetti ancora a permettere loro di incrementare le proprie conoscenze, le proprie abilità e a intessere un abbozzo di relazione sociale.
La maggior parte dei genitori di ragazzi autistici ha dovuto prendere la decisione di andare contro il consiglio dei clinici i quali sconsigliavano l’utilizzo di oggetti tecnologici e digitali in famiglia sostenendo, invece, le passioni dei propri figli come via di progresso e di guarigione. Non è affatto raro che, nelle istituzioni, vengano ritirati gli oggetti digitali ai ragazzi autistici in nome di una idealizzata normalizzazione.
Nelle scuole italiane si tende a proibire a tutti i bambini l’utilizzo dello smartphone. Non è affatto raro che i clinici consiglino ai genitori di bambini precocemente diagnosticati come autistici di impedire loro l’utilizzo del computer o di altri schermi tecnologici oltre un breve tempo quotidiano; per esempio, se ne permette l’uso soltanto per un’ora al giorno.
Tali indicazioni non sono del tutto dissennate in quanto vengono orientate dal tentativo di spronare questi bambini a stare in una relazione basata su contatti corporei, giochi motori e sul dialogo; tralasciano tuttavia il dolore e il terrore che una relazione interpersonale priva di un’armatura difensiva, come quella fornita dal digitale, comportano per questi esseri umani. Si focalizzano sui punti di disfunzionamento e sulle lacune che andrebbero recuperate anziché sulle modalità di funzionamento singolari di ciascun soggetto le quali, se coltivate, consentono a queste capacità di venire gradualmente estese ad altri settori dell’esistenza.
Uno schermo contro il caos della realtà
Per contrastare il caos interiore e per evitare le relazioni, i cosiddetti autistici si avvalgono spesso di oggetti dei quali si circondano, come fossero un bordo, per utilizzare il termine bordo proposto da Eric Laurent. Laurent lo trae dall’armatura di David, un bambino autistico del quale riferisce la nota psicoanalista Frances Tustin, esperta d’autismo; David si crea questo bordo per difendersi dall’estrema inquietudine che gli suscita il pus che gli esce da un ascesso. Questo bordo, installato sovente su un oggetto digitale, permette un approccio indiretto alle relazioni umane là dove i soggetti autistici soffrono anzitutto nei momenti di scambio diretto.
Jean Claude Maleval, professore emerito di psicologia clinica a Rennes 2, dedica il suo ultimo contributo sull’argomento alla funzione degli schermi per costruire una sorta di amico immaginario, di grande aiuto nel facilitare gli scambi con il mondo in molti soggetti autistici. Nel testo intitolato Qui est le maitre de l’objet confiè à l’autiste?, scrive esplicitamente di considerare gli oggetti digitali come delle risorse in questo settore: per esempio, “l’iPhone e il tablet possiedono delle potenzialità interessanti, che dovrebbero condurre tutte le istituzioni a mettere tali oggetti a disposizione dei bambini autistici. Questo implica che l’oggetto digitale non sia un semplice strumento pedagogico, per un uso temporaneo, ma che divenga di possesso permanente del soggetto autistico e che possa deciderne lui stesso in gran parte l’uso. Che l’autistico sia padrone dell’oggetto è una condizione del suo utilizzo psicodinamico che include e supera il suo utilizzo a fini educativi”.
L’agio avvertito dai soggetti autistici dinanzi agli schermi è un dato clinico ampiamente condiviso nella comunità scientifica internazionale. Diversi soggetti testimoniano di aver sviluppato il proprio linguaggio e le proprie capacità di lettura grazie a degli schermi: per Donna Williams, si trattò degli spot pubblicitari alla televisione; per Owen Suskind, si trattò appunto dei cartoni animati di Walt Disney; per Jacob Barnett, al quale i clinici avevano pronosticato che non avrebbe mai parlato e ora è un ventenne dottorando in Fisica all’Università dell’Indiana con un quoziente intellettivo di 170, furono dei film visti in condizioni di solitudine.
Autismo e ruolo dei robot
Un’interessante novità si trova ormai in varie zone d’Europa e negli Stati Uniti: sono stati lanciati sul mercato dei robot umanoidi a scopi educativi, di dimensioni variabili fra i 20 e i 60 centimetri. Sono capaci di conversare, di agire e di muoversi in base al contesto e all’interlocutore. Hanno un nome cui rispondono. Rassicurati dalla loro voce monotona e dai loro occhi senza sguardo, i bambini cosiddetti autistici giocano con i robot padroneggiandone l’uso e apprendono da loro, sottraendosi alla persecutorietà di un campo del linguaggio altrimenti imprevedibile e sregolato.
Birger Sellin, autistico muto di Berlino, che dai due anni fino all’adolescenza troncò qualunque contatto con il mondo, riesce a scrivere attraverso gli oggetti deputati alla comunicazione facilitata. Sua madre utilizzò una semplice macchina da scrivere per aiutarlo a comunicare, in un’epoca come quella degli anni Novanta, nella quale non erano ancora così diffusi i computer.
Gus, figlio della giornalista statunitense Judith Newman, ha trovato in Siri, l’applicazione di iPhone, un’amica immaginaria cui ha dato una voce femminile. Gus fa uso di Siri, per esempio, per relazionarsi con il fratello gemello Henry il quale è un accanito tifoso di football americano. Chiede a Siri se la squadra del cuore di Henry sta vincendo o perdendo: se sta vincendo, si avvicina al fratello; se sta perdendo, evita i contatti con lui. Judith Newman espone questa vicenda nel libro To Siri with Love: A Mother, Her Autistic Son, and the Kindness of Machines, pubblicato nel 2017. Sottolinea anche come Gus fosse maggiormente coinvolto dal legame con Siri nella preadolescenza mentre, in seguito, sembra vi abbia trovato meno un appoggio.
Questa esperienza sembra confermare quanto gli oggetti digitali siano fruibili da bambini e ragazzi autistici in alcuni momenti della loro vita così come non sia affatto per loro impossibile ridurne l’uso e distaccarsene parzialmente. Ho contezza di esperienze analoghe relative a bambini e ragazzi italiani, dei quali la tutela della privacy mi impedisce giustamente di scrivere i dettagli, i quali utilizzano l’Assistente vocale Google con un metodo analogo.
Abbiamo già scritto di Ron Suskind, il papà di Owen. Egli ha messo a punto un’applicazione destinata agli autistici e denominata Sidekicks che differisce lievemente da Siri, in special modo per un orientamento educativo più marcato.
Il potere della tecnologia sull’autismo
Gli oggetti digitali costituiscono dunque, sovente, oggetti pacificanti e che attenuano il terrore dei ragazzi autistici permettendo delle interazioni umane ben poco persecutorie anzitutto in quanto li distolgono dal rischio di incontrare momenti inquietanti a livello del discorso.
L’essere umano rimane un punto di riferimento miliare per molti di questi soggetti, a condizione che sappia a propria volta incarnare l’oggetto. Mamma, papà, fratello, insegnante, clinico dovrebbero farsi oggetto ovvero attenersi, con una sottomissione avvertita, alle posizioni indicate dal ragazzo autistico, dandogli fiducia e facendosi guidare da lui. Per questo, agire in un collettivo orientato dalla psicoanalisi, come si fosse una squadra, dimostra spesso una certa efficacia.
La “pratica a diversi” è il termine coniato da Jacques-Alain Miller per descrivere il sistema di lavoro svolto da diversi operatori, in luoghi clinici collettivi, con soggetti autistici a partire dall’esperienza dell’Antenne 110. Questa struttura esiste, in Belgio, dal 1974 e fu inizialmente diretta da Antonio Di Ciaccia. Sistema di lavoro che è stato in seguito implementato in diverse nazioni, anzitutto proprio in diverse comunità rivolte a minori autistici in Italia.
Molte capacità di inventiva caratterizzano questi soggetti. Si pensi a un Nikola Tesla, celebre inventore al centro della grande controversia giuridica con Guglielmo Marconi circa la paternità dell’invenzione della radio. Egli scrive a chiare lettere, nella sua autobiografia, come prese la decisione di non avere alcun tipo di attività sessuale poco più che ventenne.
Da allora, concentrando le proprie energie e i propri sforzi sulle invenzioni alle quali lavorava, divennero sempre più rare le visioni inquietanti che in precedenza lo attanagliavano e spaventavano. Il nome di Tesla è ormai noto in tutto il mondo tanto che la nota casa automobilistica il cui CEO è Elon Musk ne ha assunto il nome, tanto che una rock band californiana attiva sin dagli anni Ottanta si chiama Tesla. In questi mesi, peraltro, un’intera esposizione di alcune fra le invenzioni dello scienziato di origine croata è aperta a Milano: vi si trovano fra l’altro la bobina, la trasmissione di energia elettrica wireless, la costruzione della centrale idroelettrica delle cascate del Niagara. eccetera.
Questa succinta carrellata di esempi, del passato e dei nostri giorni, dimostra che tali esseri umani presentano comunque risorse e potenzialità. Riescono a svilupparle e a metterle in pratica se hanno modo di dedicarsi con energia alle proprie invenzioni, se incontrano condizioni che li mettano a proprio agio come genitori e operatori sociali non correttivi né giudicanti e appunto come la disponibilità degli oggetti appartenenti al mondo digitale. La loro prognosi clinica diviene allora tutt’altro che infausta.